“Si salvi chi può!”, questa frase è forse la sola che viene a mente a chi è rimasta ancora quel poco di coscienza umana, quel poco di nostalgia per il “vecchio uomo”, quello che viveva del suo lavoro fisico, dello sforzo mentale necessario a risolvere questioni e trovare soluzioni. Lo stesso uomo che ha poi inteso plasmare la realtà intorno a sé, su una fantasia ideale che migliorasse le proprie condizioni di vita, che mediante il progresso tecnologico la rendesse un posto idilliaco, perfetto, quasi un eden, un paradiso in terra, un sogno al quale l’uomo ne è sempre stato rapito e mai vi ha rinunciato.
Ma fino a che punto? Fino a farsi sostituire? Quasi che si celasse un desiderio di non vivere, dietro a questo progresso tecnologico senza scrupoli.
Pensiamo semplicemente all’invenzione del “Dagherrotipo” (dal nome dell’inventore francese Louis Daguerre) e pensiamo alla fotografia, la fotografia di una persona nota, ad esempio quella di un personaggio illustre come un poeta.
Prima di quell’anno rivoluzionario, il 1839, soltanto il pennello di un’artista poteva dare un’idea su che aspetto avesse, in un modo unico in cui lui lo vedeva.
La popolarità di un poeta in giro per il mondo era data esclusivamente dalla sua arte, dal suo modo originale di comporre, dalla sua sostanza. Quelli che erano il suo volto, la sua faccia, la sua stazza, era cosa che giaceva nell’immaginario soggettivo. Era ciò che la nostra propria immaginazione, cioè la nostra parte creativa, creava appunto sul sentimento particolare che quella particolare poesia irradiava ad ognuno di noi, obbligandoci in un certo qual modo a risvegliare una parte invece che un’altra, a toccare quell’emozione invece di un’altra, che avevamo tenuta chiusa nel nostro inconscio, quella parte di noi che da nascosta riemergeva per tornare alla luce della nostra coscienza e scoprire qualcosa di noi che altrimenti non avremmo saputo e ci avrebbe così restituito una faccia, un volto, una stazza, un’avventura tutta nostra, divenendo così anch’essa una nostra poesia. Oppure la fotografia di un paesaggio, in un viaggio compiuto da una persona da noi conosciuta. Se invece di vederlo in fotografia ci soffermassimo a ciò che lei ci racconterebbe, potremmo giovarci di quell’enfasi, di quelle emozioni che ci trasmetterebbe, ciò che quella persona ha vissuto, una reciproca empatia che aprirebbe ad un immaginario imperscrutabile, frutto dell’unicità di quel momento, di quell’attimo irripetibile.
Perché si ha bisogno della presenza, di una testimonianza, affinché una cosa esista?
È perciò legittima la frase di Nietzsche secondo cui “la scienza moderna finisce per eludere l’uomo invece che servirlo”? Ecco dunque cosa accade quando ci priviamo dell’illusorietà, dell’immaginazione che l’intelletto è capace di produrre, riduciamo tutto ciò che è umano ad una fissità, una sorta di “dogmatismo tecnologico”, congedando la vita stessa a chiudersi in un luogo dove la mente non serve più, e in cui la società, sottratta di quella componente umana, perde la capacità di poter cambiare prospettiva.
Perché meravigliarsi a questo punto di trovare nelle librerie di oggi libri dalle copertine appariscenti e dai contenuti infantili? È ormai la logica delle “reti sociali” a dominare nel ruolo della comunicazione mediatica del XXI secolo. E adesso con l’arrivo della tecnologia “ChatGPT”, capace di produrre da sola articoli giornalistici, si perderanno una quantità smisurata di posti di lavoro, oltre che inibire lo sviluppo di capacità intellettive.
Sembra dunque che pensare sia divenuto un tabù. Massimo Recalcati nel suo libro “I tabù del mondo” si pone questo interrogativo, soffermandosi sulla “dipendenza odierna dalla presenza di strumenti tecnologici” uno dei motivi per cui secondo lo psicologo non sperimentiamo più l’assenza dell’oggetto che consentirebbe al pensiero di fecondarsi, non lasciando dunque spazio alcuno alla possibilità creativa che presupporrebbe un desiderare piuttosto che soddisfare.
Il recente assetto a cui assistiamo della “mutazione antropologica” coincidente con l’invenzione del “metaverso”, sdogana definitivamente l’idea di anelare a un’esistenza che risieda altrove a un’esistenza, più sopportabile.
Chi glielo dice ai nuovi arrivati che un tempo la “vita umana” si chiamava così?