La scalata di Montepaschi di Siena a Mediobanca è l’ultimo episodio di una storia travagliata e a tratti convulsa, destinata a rimettere in discussione i fragili equilibri tra stato e mercato. Ancora oggi, le sorti di Piazzetta Cuccia sono dai più dipinte come l’esempio paradigmatico delle torsioni che il sistema bancario italiano ha attraversato negli ultimi decenni. In un certo senso, il destino di Mediobanca collima proprio con quello del Paese, di cui è stata per anni l’Arbitro per eccellenza dei rapporti economici. Questa metonimia inscindibile è stata a suo modo protagonista e testimone diretto delle trasformazioni più radicali che l’Italia ha vissuto, spesso obtorto collo.
Fu Mediobanca a inaugurare la lunga stagione delle privatizzazioni nel 1987, con un’operazione officiata su sé stessa da Antonio Maccanico, campione dell’élite laica prestata alla finanza dal Quirinale, sin dai tempi di suo zio Adolfo Tino. Fu Enrico Cuccia, ormai senescente, a orchestrare il defenestramento di Schimberni dalla Montedison “Bi-invest humanum, Fondiaria diabolicum” sentenziò l’Avvocato, a decretare la fine della public company e l’ascesa effimera dei Ferruzzi. Così mentre l’Italia mancava in modo fin troppo prevedibile l’appuntamento con l’Europa del 1992, Foro Buonaparte veniva smembrato come Crono col più celebre dei suoi figli.
L’ultimo trentennio di Mediobanca è stato in un certo senso la cartina di tornasole dell’Italia. In un Paese maceratosi nella stagnazione economica e nel ridimensionamento internazionale, il ruolo di Piazzetta Cuccia ha risentito del mutamento radicale del contesto in cui aveva prosperato. Cambiamenti inevitabili, che hanno investito le colonne portanti di Mediobanca. Il capitale privato, non più in mano a ristretti cenacoli familiari, ricordo sbiadito dell’epopea industriale, veniva conteso da nuovi entranti, poco avvezzi al galateo che aveva governato il credito nel secondo dopoguerra. Il potere politico a sua volta, indebolito e svuotato delle sue prerogative, rendeva le barriere erette da Mediobanca in difesa del mercato più simili alla linea Maginot.
Con il ben noto “senno di poi”, le occasioni perdute di quel periodo tanto complesso, per un paese abituato a crogiolarsi nell’immobilismo, sono numerose e di difficile interpretazione. Elencarle tutte sarebbe arduo, oltreché inutile, ma è sufficiente ricordare come la Mediobanca di Cuccia non abbia rinunciato a esercitare le sue prerogative. Sino alla fine. È il caso della vendita della Comit, dove lo scontro vide soccombere il banchiere sassarese Sergio Siglienti, che non esitò a definirla “una privatizzazione molto privata” o più in generale del riassetto del sistema economico e della stessa Mediobanca. Una stagione culminata con la celebre visita romana di Cuccia all’allora Premier D’Alema, per riaffermare la successione di Maranghi, che, come tutti i delfini, non sarà mai Re, mentre lo spettro delle grandi OPA si stagliava sullo sfondo, da Telecom a INA.
Oggi tutto questo è un lontano ricordo. Tuttavia, per un bizzarro scherzo del destino, 25 anni dopo è il potere romano a insidiare Via filodrammatici e il tempo sembra essersi fermato. Un quarto di secolo di battaglie, defenestramenti e cadute a vario titolo, molte anzi tempo all’Orco, parte di un processo di maturazione fin troppo apodittico (che a detta di molti poi non c’è stato) e di eterno presentismo, che in fin dei conti è l’accusa rivolta dai volenterosi offerenti. Se la Storia recente di Mediobanca e di riflesso del Paese sarà meritevole dell’attenzione degli storici, oltreché di giornalisti e advisor, che a vario titolo calcano il proscenio in attesa dell’ennesimo colpo di scena, è presto per dirlo. Il futuro però è tutto da scrivere. A cominciare da Generali, dove tutto forse è cominciato. Perché il convitato di pietra di questo canovaccio, che evolve in commedia, non è lo scontro immaginifico lungo l’asse Roma-Milano, ma la sua naturale proiezione che tende verso Trieste.
“La mia città che in ogni parte è viva, ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita pensosa e schiva”, così cantava Umberto Saba la patria del Leone, che vive una seconda giovinezza. Non più come perno tra est e ovest, ma come cerniera tra le stanze dei bottoni romani e quelle più felpate meneghine, tra le banche italiane e i fondi esteri. Ultimo baluardo di potere economico nel Paese del risparmio, che sogna i campioni europei dopo aver perso quelli nazionali, in attesa, è il caso di dire, di guardare il futuro con “lenti diverse”.