OGGETTO: L'eredità di un democristiano anomalo
DATA: 25 Marzo 2025
SEZIONE: Politica
AREA: Italia
Atipico, sensibile al mercato e con spirito europeista, la morte di Filippo Maria Pandolfi priva l’Italia di un protagonista delle istituzioni, a Roma e a Bruxelles, che ha saputo individuare in anticipo i grandi mali che affliggevano (e che affliggono) il Paese.
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Anche la Democrazia Cristiana ebbe la sua Cassandra. Non meno severa di Ugo La Malfa nella lotta al deficit eccessivo e all’inflazione imperante, e altrettanto votata all’integrazione europea, la figura di Filippo Maria Pandolfi, già ministro e commissario a Bruxelles, ha rappresentato un unicum per la classe dirigente italiana degli anni Settanta e Ottanta, soprattutto per la sua ascendenza cattolica.

In anni di scarsa considerazione per le finanze pubbliche, in cui stagflazione e terrorismo scuotevano alle fondamenta il tessuto economico e sociale dell’Italia, Pandolfi riconobbe con grande lungimiranza i mali del Paese che di lì a poco avrebbero preso il sopravvento. La sua predica, tuttavia, non andò oltre il deserto del clientelismo e delle inefficienze, zavorre irremovibili negli anni a venire, scontrandosi con la miopia di un sistema cresciuto sugli allori e poco disposto ad abbracciare cambiamenti radicali.

Deputato dal 1968 al 1983, Pandolfi fu ministro del bilancio prima e del tesoro poi nel triennio 1976-1979, tra governi di solidarietà nazionale, crisi petrolifere e shock energetici. Quando apparve sempre più evidente lo scollamento tra la “mezza Italia”, il cui epilogo di lì a poco avrebbe riempito le cronache dei giornali, e “l’altra Italia” che trovava i suoi alfieri in una minoranza di tradizione laica, Pandolfi fu tra i primi nell’élite democristiana a guardare alla seconda. Una scelta condivisa con altre personalità di primo piano come Umberto Agnelli e Beniamino Andreatta, che per forma mentis intendevano elevare la qualità del processo politico con nuove competenze economiche, indispensabili per un Paese impegnato in un difficile processo di ristrutturazione industriale.

Nacque in quel frangente il Piano Pandolfi, capostipite dei numerosi tentativi velleitari di riformare l’Italia alla radice. La pillola amara del vincolo esterno, rappresentata dalla rigida disciplina monetaria del Sistema Monetario Europeo (SME), venne accompagnata da un articolato progetto di risanamento dell’economia italiana dopo i due shock energetici degli anni Settanta. Parole d’ordine: ridare slancio alla manifattura verso i mercati esteri, ridurre l’inflazione e rafforzare la competitività del Paese. Ad essere attuata fu però solo la prima parte, con la Banca d’Italia che ormai separata dal Tesoro recitò con alterni successi il ruolo di tutore della finanza pubblica sino al Trattato di Maastricht.

Ancora una volta la classe dirigente italiana non si dimostrò all’altezza delle sfide del futuro, preferendo il gretto provincialismo ad un reale cambio di passo, che avrebbe assicurato all’Italia una crescita sostenibile per le future generazioni. L’aggancio all’Europa, con il suo dividendo politico spendibile a Bruxelles, divenne un triste giogo autoimposto in cambio di un limitato margine di manovra, che negli anni ha assunto i connotati di un’eterna ordinaria amministrazione.

Privata della possibilità di svalutare la lira e stretta tra le bande dello SME, l’Italia di Pandolfi scelse la soluzione peggiore per ridare slancio alla competitività, gonfiando il debito pubblico per occultare un riordino del tessuto produttivo reso necessario dall’avvicinarsi del mercato unico. All’epoca sicuramente meno doloroso sul piano sociale rispetto agli anni seguenti. La sfida dell’inflazione, infatti, non fu vinta con una più stretta disciplina fiscale, ma con politiche monetarie scoordinate, che lasciarono i rendimenti dei titoli di Stato alla mercé degli investitori, alimentando la spirale del debito pubblico che ancora oggi azzera ogni margine di manovra.

La storia del triennio 1976-79 riassume le contraddizioni di un Paese caratterizzato da un grande dinamismo economico, ma privo di una visione strategica e che, a causa delle debolezze della classe dirigente, ha conosciuto il declino come orizzonte ineluttabile, senza riuscire a invertire la rotta. A Pandolfi va riconosciuto il merito storico di aver fatto da apripista nel mondo cattolico, spesso abituato a considerare la sfera politica rigidamente separata da quella economica. Una scelta, questa, condivisa con il Partito Comunista all’opposizione, che è coincisa con la disperata ricerca di rendite di posizione da salvaguardare ad ogni costo, mercato unico permettendo, e che ancora oggi rappresenta una tentazione irrinunciabile per molti, nel silenzio dell’opinione pubblica.

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