OGGETTO: Il modello Friedrich Merz sa già di vecchio
DATA: 25 Dicembre 2024
SEZIONE: Politica
FORMATO: Scenari
AREA: Europa
Fiaccata dalle tensioni geopolitiche e da due di recessione economica, la Germania si affaccia alle elezioni federali senza una vera prospettiva di lungo respiro. Alleati riottosi e ricette fallimentari rischiano di vanificare l’avventura di Merz prima del via, mentre incombe la minaccia di Trump. Il futuro rimane così molto incerto per Berlino.
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Alla vigilia delle elezioni federali previste il 23 febbraio, l’immagine della Germania non può che essere lontana anni luce da quella offerta nei precedenti appuntamenti elettorali. In verità nei sedici anni di Angela Merkel, la contesa politica era apparsa in più occasioni priva di particolare rilievo. La stabilità assicurata della grande coalizione, sotto la guida della cancelliera, rendeva le urne poco più che un passaggio obbligato per certificare il rispetto e la riedizione dello status quo. La CDU vantava persino il privilegio di poter scegliere il junior partner della coalizione, alleandosi prima con i liberali del FDP e in seguito con i Socialdemocratici, pronti a calcare la scena rigorosamente da non protagonisti. 

Nei tre lustri trascorsi al potere Angela Merkel ha fossilizzato la politica tedesca. Una lunga stasi ancor più apprezzabile analizzando la traiettoria del suo steso partito. La CDU, che non avrebbe mai potuto e né voluto trovare un valido sostituto per il Bundestag alla cancelliera, è apparsa come un ring in cui ridurre al lumicino le ambizioni velleitarie di delfini poco fortunati, a partire dall’ormai dimenticata Annegret Kramp Karrenbauer. Così caduta “AKK”, sulla cui eredità da ministro della difesa si potrebbe discutere, e scongiurata l’ennesima OPA della CSU bavarese, è toccato al Ministro Presidente della Westfalia guidare i cristiano democratici nel primo vero bagno di sangue dall’era Kohl alle elezioni del 2021. 

Si dirà, che tutte le grandi parabole politiche volgono inevitabilmente al tramonto, ma la scelta di Armin Laschet come candidato cancelliere nulla ha potuto per tamponare le criticità emerse nel primo degli annus horribilis. La recrudescenza del Covid reso più insidioso dalle nuove varianti e le terribili alluvioni in Renania hanno fiaccato la popolarità di una Merkel in disarmo, tirando la volata a un non certo irresistibile Olaf Scholz. Frattempo, appurato l’esito infruttuoso dei colloqui ginevrini tra Putin e Biden, la Russia schierava indisturbata le proprie divisioni al confine con l’Ucraina. La commedia degli equivoci, durata sino al febbraio 2022, con una deprecabile partecipazione del Bundestag, è stata l’occasione per un bagno di realtà. Un partner commerciale per quanto importante per la Germania come è stata la Russia, non può essere ricondotto a più miti consigli minacciando lo “spegnimento” di un gasdotto ancora in costruzione o subordinando i diktat di Mosca alla ripresa dei naufragati accordi di Minsk. Così, oggi come ieri, appare quantomai ilare aver pensato di fare da paciere con Vladimir Putin nel pieno della sudditanza energetica o con una classe dirigente nota per i rapporti equivoci con il Cremlino. 

Le conseguenze del conflitto in Ucraina si sono riverberate sul piano economico con esiti disastrosi. Dopo due anni di recessione iniziata nel 2023, il 2025 si annuncia all’insegna della stagnazione nella migliore delle ipotesi. In questo caso però è il modello economico tedesco a far sorgere i maggiori dubbi. Sin dagli anni della riunificazione sotto Helmut Kohl, la Germania ha costruito un apprezzato paradigma di sviluppo basato sulle esportazioni del settore manifatturiero. Nel corso del tempo, diversi fattori hanno contribuito al successo di Berlino, dopo una breve fase di contrazione a cavallo del duemila. L’allargamento ad est dell’Unione ha portato alla delocalizzazione di parte delle catene del valore nei paesi dell’ex patto di Varsavia, favorendo una ristrutturazione a costo zero dell’industria. Con l’arrivo di Schroeder poi, Berlino ha beneficiato di una combinazione tra le riforme sociali del Piano Hartz e l’apertura dei ricchi mercati asiatici, Cina in primis. La nuova alleanza con la Russia, simboleggiata dal progetto del gasdotto nord stream 1, ha coperto larga parte dei fabbisogni energetici della manifattura senza suscitare obiezioni. Così quando la crisi del gas del 2006 anticipò per la prima volta gli effetti di una dipendenza dal Cremlino, nessuno a Berlino si preoccupò di diversificare gli approvvigionamenti.

Roma, Dicembre 2024. XXII Martedì di Dissipatio

Nei sedici anni di Angela Merkel, il paradigma basato sull’export si è progressivamente integrato con la nuova governance economica dell’UE seguita alla crisi finanziaria del 2008. Le conseguenze di questo binomio poco lungimirante si sono rivelate esiziali e non solo per Berlino. Dalla crisi del debito del 2011 allo scoppio della pandemia nel 2020, l’influenza della Germania e del sindacato di blocco dei “frugali” è cresciuta a dismisura. Il progressivo declino della Francia ha ulteriormente aggravato questa tendenza. 

Se negli anni Novanta Mitterrand recitava il ruolo di comprimario esigente, in grado di comprimere le ambizioni di Kohl almeno sul piano politico, l’ascesa all’Eliseo di Hollande relegò Parigi ad un ruolo da figurante. Così la Germania di Merkel, priva di qualunque contrappeso dialettico e con l’Italia ridotta ormai all’irrilevanza, ha potuto capitalizzare i benefici di un modello di crescita cucito su misura per oltre un decennio. È paradossale però come i sostenitori più espliciti delle “riforme” in casa altrui non abbiano saputo o voluto prevedere le conseguenze a lungo termine di un sistema export-oriented. 

Le legittime considerazioni sulla precarietà delle strategie di Merkel sono evidenti sul piano politico ancor di più di quello economico. Eppure, è difficile non considerare che dall’invasione della Georgia nel 2008 le intenzioni di Putin non fossero quelle di un galantuomo illuminato pronto ad integrare la Russia nella sfera occidentale. Ciononostante, è proprio nel periodo intercorso tra la “scaramuccia” con Tbilisi e l’attacco su larga scala a Kiev che la “fusione perfetta” tra gas russo e manifattura tedesca si è perfezionata. Gli effetti di questa politica si sono riverberati lungo l’intera catena del valore, diventata ormai germano centrica e funzionale all’export in Asia e Nordamerica. I Paesi partner sono stati così costretti a riorientare le proprie imprese nella produzione di semilavorati da esportare a nord del Brennero, con un bizzarro rapporto di mono committenza con le fabbriche del Baden e della Baviera.

Alla vigilia delle elezioni federali, si può dire che il significato paideutico delle azioni di Putin sia stato largamente ignorato nei fatti. A peggiorare la situazione già precaria è la crisi del famigerato manifatturiero, orfano degli sbocchi economici della Cina. Con Xi Jinping assuefatto dalla sovrapproduzione più di quanto lo sarebbe stata Angela Merkel, i mercati di destinazione si riducono pericolosamente e vacillano del tutto sotto la minaccia dei dazi di Trump. Sarebbe legittimo aspettarsi da Friedrich Merz un bagno di realtà, ma le aspettative appaiono quantomai grigie. 

La CDU Merziana che prende l’abbrivio da un’infelice (eufemismo) esperienza del lontano 2002, terminata con un lungo esilio autoimposto dalla politica, ripropone le stesse ricette economiche di cui è lecito dubitare. Il candidato cancelliere propone tagli alle imposte sugli utili delle imprese, ma non sul reddito (vera nota dolente) e un aumento delle spese militari, senza dar conto di come realizzerebbe il programma di governo, con gli alleati riottosi dell’era Scholz e soprattutto in assenza di modifiche alla clausola di freno del debito. Per anni Berlino ha scientemente rinunciato alla domanda interna per privilegiare quella esterna, rinunciando ad investimenti finanziabili solo con la spesa in conto capitale per abbattere il debito pubblico. Ora, con una recessione triennalequasi acclarata, le opzioni per stimolare la crescita si sono assottigliate e una revisione della governance economica appare obbligatoria per mettere al centro i consumi, un tempo al centro delle invettive dei frugali e oggi l’unico rimedio in campo. 

Se questi cambiamenti tanto attesi avverranno per una resipiscenza di Merz o per cause esogene sarà solo il tempo a dirlo. Pensare ad un mantenimento dello status quo sarebbe un pericoloso esercizio storico prima ancora che logico. Il futuro di una Germania imbrigliata nella stagnazione, priva di prospettive e senza stabilità politica è facilmente immaginabile e altrettanto poco desiderabile per sé stessa e per l’Europa.

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