Dalla sua data di formazione, l’8 dicembre del 2021, il Governo Federale di Olaf Scholz è in un impasse perpetuo. La politica tedesca è storicamente terra di compromessi, ma questa coalizione
non ha mai trovato una armonia interna. Nel governo semaforo convivono tre priorità e modi di pensare molto diversi. La SPD rappresenta lo status quo, l’area moderata, nella sua accezione pro-welfare; i Verdi, urbani, puntano tutto su programmi di investimento straordinari nella nuova economia verde; i liberali della FDP, giudicati da molti come il partito dei ricchi, alzano inflessibili lo stendardo del liberismo fiscale attraverso il loro leader, Christian Lindner. Qualsivoglia sia la politica in questione, ma soprattutto quando si parla di economia, uno dei tre soggetti è stato pronto a porre un veto assoluto.
La Germania si trova in una crisi multifattoriale che necessita riforme decisive, e quindi gli interessi di qualcuno saranno sempre messi in pericolo. Il cocktail perfetto per la stasi: conviene a tutti, per il proprio tornaconto, dire no piuttosto che no, a meno che… Questo gioco inefficiente si è rotto definitivamente il 7 novembre, quando il Cancelliere ha dismesso dal suo governo i ministri liberali. Lindner aveva affondato l’ennesimo colpo retorico a favore dei tagli di spesa per proteggere il suo partito, pericolosamente vicino alla soglia di sbarramento delle elezioni federali (5%). Il risultato è stata una nuova partita politica, dove Scholz lottava per governare in minoranza e ritardare il più possibile un voto di fiducia in parlamento, e le opposizioni si lasciavano ingolosire da elezioni più anticipate possibili. La mossa del Cancelliere, ovvero forzare le regole del sistema repubblicano e costituzionale per ottenere del tempo prezioso per la sua SPD, ha funzionato in parte. Si avrà un voto di sfiducia il 23 dicembre e si voterà a febbraio. Nel frattempo però i cittadini tedeschi non possono aspettarsi politiche dedite ai loro problemi, sostituite dalla furia iconoclasta della campagna elettorale.
I problemi della Germania sono tanti e sistemici, e questo rende gravissima la crisi politica in corso a Berlino. Partiamo dai problemi economici. Le due colonne portanti della un tempo robustissima economia tedesca erano la manifattura e la posizione finanziaria, ed entrambe si trovano in una catch 22.
La Germania aveva sviluppato uno straordinario ecosistema di medie e grandi imprese dedite all’esportazione di prodotti dal know-how specialistico e con spesso un significativo consumo di energia in fase produttiva: automobili, macchinari industriali, chimica farmaceutica, allevamenti di massa… Molti fattori blindavano il modello manifatturiero: l’accesso ad idrocarburi a basso prezzo, un sistema estensivo di università e scuole professionali, la centralità geografica e politica nell’area di libero commercio europea, ed infine l’epoca di espansione del commercio con l’Asia. Questo grande ingranaggio, fiore all’occhiello degli anni Merkel, permetteva allo Stato una significativa spesa nel welfare. Poi è noto cosa sia successo, quali problemi siano maturati a partire circa dal 2014 e siano esplosi negli ultimi due anni. Quell’Asia che aveva bisogno delle imprese e dei prodotti tedeschi, in particolare la Cina, è riuscita a costruirsi una manifattura di medio ed alto livello tecnico, grazie ad un governo pechinese generoso in quanto a sussidi e promozione del furto della proprietà intellettuale. Gli idrocarburi, gas in primis, hanno innalzato i costi produttivi assieme ai loro prezzi dopo l’invasione dell’Ucraina. La Germania si è scoperta poco produttiva, fragile e troppo conservativa. Il paese intero in coro ha gridato aiuto, rivolgendosi al governo. Con la spesa militare in crescita, che sia armando la Bundeswehr o supportando Ucraina ed Israele, e con le ferite del COVID ancora aperte, le casse pubbliche sono sotto stress. Di certo però nessuno vuole perdere i propri privilegi. La scappatoia sarebbe stata un grande piano di prestiti sul mercato per ricostruire daccapo l’infrastruttura energetica, telecomunicativa e ferroviaria della Germania. Ma non si può, e non solo perché molti tedeschi sarebbero in disaccordo.
Ecco che entra in gioco la finanza. Come gli Stati Uniti, la finanza pubblica tedesca non governa solo i soggetti all’interno dei confini nazionali. L’economia e i bond tedeschi sono presi come punto di riferimento dalla finanza del mondo intero. La Banca Centrale ed il Ministero delle Finanze tedeschi hanno il compito di salvaguardare ad ogni costo la stabilità dell’economia a discapito dell’arbitrio del legislatore. Una mole straordinaria di interessi non desidera programmi di spesa speciali e deficit superiori a quelli permessi dalla costituzione. L’articolo 109 della Legge Fondamentale tedesca detta che lo Stato ed i Ländern devono mantenere il pareggio in bilancio, nella pratica un deficit estremamente ridotto con possibilità eccezionali di spesa in caso di emergenze. La Corte Costituzionale tedesca interpreta la regola rigidamente e la fa rispettare: a novembre 2023 il governo si è visto negare l’uso di fondi emergenziali per il COVID e la guerra per investimenti verdi. La norma costituzionale, detta freno al debito (Schuldenbremse) riesce esattamente ad assicurare i mercati sul comportamento dello Stato e assicura che non avvengano assalti alla diligenza. D’altro canto necessita di una economia che sia in crescita e cui non manchi un lustro di investimenti – il contrario della situazione corrente. Lindner poteva fermare i progetti espansivi di Verdi e SPD grazie al sigillo costituzionale. Ora che il Ministro liberale se ne è andato il Cancelliere non ha i numeri né la forza politica per cambiare il Grundgesetz. La soluzione verrà da chi governerà la Germania nel 2025.
La crisi del governo Scholz è anche la crisi di un modello culturale, ovvero di un modo della politica tedesca di raccontarsi. È dal 1991 che una parte della ex Germania Est non è compatibile con le celebrazioni, le parole chiave e gli ideali del paese. Inizialmente i grandi partiti, SPD e CDU, erano riusciti a coprire anche i nuovi cinque Ländern. Già allora però si era riorganizzata la SED, ovvero il partito comunista della Germania Est, in forme partitiche che si sono evolute fino all’odierna Linke. Nelle periferie delle grandi città industriali e nelle campagne di Turingia, Meclemburgo e Pomerania non venne mai vinto lo scetticismo nei confronti dell’egemonia economica e culturale dell’Ovest. Parole sacre come Demokratie, Europa e Wände sanno di presa in giro in territori che hanno perso la loro gioventù e si sentono senza identità. L’Ovest ha sempre visto in queste espressioni politiche dei ritorni al totalitarismo, se non dei tentativi di sedizione. Al netto della parziale correttezza di queste affermazioni, l’elettorato orientale è marginalizzato nei media, vittima di una etichettatura negativa quanto miope. Il suo voto non è preso sul serio. Oggi quell’insoddisfazione, carica poi di nuovi modi moderni, si esprime nel successo della AfD e nell’Unione per Sarah Wagenknecht – partiti esclusi dall’agone federale, ma che stanno acquisendo spazi nelle Regioni. Nel momento della crisi queste voci non possono andare perse, poiché le insoddisfazioni si trasformano in furie distruttive e contagiose.
Ma come mai il paese è spaccato in due? Come può non essersi saldato nell’era della comunicazione istantanea? Per lo stesso motivo per cui le imprese tedesche sono in panne. Se le cose non peggiorano fino a rompersi i tedeschi non le sistemano. Il conformismo centrista ed aziendale è una caratteristica fondamentale della psiche collettiva tedesca. Difatti i periodi di successo portano ad una sicurezza sfacciata ed i periodi di crisi sembrano ineluttabili – l’opposto della crisi permanente in terra italica. Non è nella natura dei governi a Berlino lanciarsi in riforme audaci. I tedeschi apprezzano la moderazione e la continuità. Per fare politiche in profondità servono una leadership carismatica e un desiderio di cambiamento diffuso e coerente. Di certo l’attuale Cancelliere e la sua maggioranza non rappresentano questa coincidenza.
Il governo che uscirà dalla tornata elettorale del febbraio 2025 invece dovrà avere la forza ed il coraggio di essere rivoluzionario. Dovrà avere la legittimità popolare e la forza costituzionale per riforme profonde. Le combinazioni possibili sono però difficoltose. Il sistema elettorale tedesco sceglie 299 deputati del Bundestag con un maggioritario uninominale, ma le distribuzioni dei seggi ai partiti seguono un proporzionale con soglia di sbarramento al 5%. Una coalizione sarà necessaria. Con ogni probabilità circa un terzo dei seggi sarà in mano alla CDU di Friedrich Merz, e con ciò ne conseguirà la migliore chance di conquista della cancelleria. L’Unione ed il suo leader non sono esattamente conosciuti come dei visionari, ma di certo hanno un potere vasto ed articolato nel paese e potrebbero portare avanti leggi per cui altri non avrebbero la forza. Una prima possibilità di alleanza è il ritorno della cosiddetta grande coalizione, quindi quella con la SPD. Seppure il cancellierato Scholz sia perlopiù giudicato negativamente il partito potrebbe arrivare secondo o terzo alle elezioni. Di certo ci sarebbe del feeling nella coalizione su molte questioni, al punto che dieci anni fa si faceva difficoltà a distinguere le politiche dei due partiti. Bisogna ricordarsi che è proprio questa forma di pentapartito dell’epoca Merkel che ha contribuito a costruire quello status quo che non funziona più.
La grande coalizione potrebbe mancare di direzione ed essere soffocata dalle ali estreme. Una seconda alternativa è lo schema nero-verde: in Austria e in numerosi Ländern CDU e Verdi sono alleati stabili. Ma il partito dell’attuale Ministro degli Esteri Baerbock è in difficoltà, in quanto ha tradito il suo elettorato con le sue promesse di investimento e riforma; potrebbe non ottenere sufficienti seggi per sostenere da solo un governo Merz. La terza opzione è la FDP, abbastanza vicina alla piattaforma della CDU. Oggi sotto la soglia di sbarramento, deve riprendersi nei tre mesi di tempo che ha a disposizione. Comunque porterebbe pochi deputati, ed è comprovato che Lindner non è uomo da coalizioni. Allearsi con la FDP inoltre significherebbe scegliere i tagli di spesa come via per riformare – una via difficile. E qui sono finite le opzioni sicure, quelle costituzionalmente tollerate. Il BSW, personalistico e rosso-bruno, è di certo troppo lontano come ideali e posizioni dall’ortodossia berlinese. Ad oggi Merz non ha mai aperto alla ancor più eterodossa AfD. In Turingia, dove si è votato recentemente, si governa con una instabile conventio ad excludendum da parte dei partiti storici. Infine la Linke è in via di eclissamento elettorale. Insomma, a meno che non si formi una sorprendente coalizione di sinistra, il futuro Cancelliere si dovrà aiutare da sé e nuovamente tradirà l’Est… A meno che non tenti di provare a includere nel sistema l’estrema destra. L’AfD è un partito eterogeneo, quindi spaccabile nelle sue ali e fazioni, e metterla alla prova del governare potrebbe distruggerne la reputazione di anti-sistema agli occhi dell’elettorato, moderandola con l’affluire di potere e responsabilità. L’Unione Cristiano-Democratica è l’unico partito che potrebbe reggere alla conseguente marea d’impopolarità ad Ovest. Una coppia CDU – AfD è però invisa all’intero establishment tedesco, e il Cancelliere si troverebbe a dover lottare quotidianamente con una creatura ottimizzata per la distruzione – e non la costruzione.
Un ago della bilancia si ritrova nella seconda camera tedesca, il Bundesrat, che replica gli equilibri dei governi nei Ländern. Fino al 2026-27 il Rat manterrà una composizione simile all’attuale, fortemente sproporzionata a favore della SPD e dei Verdi ed escludente AfD e BSW.
La Germania non riuscirà a liberarsi del suo estremo centrismo e della sua incapacità di trasformare la protesta in nuova componente dell’equilibrio politico. Non che la tendenza centripeta e conformista della sua politica sia un problema in sé: una sua causa sta nel ben funzionante federalismo e nella partecipazione a NATO ed UE. Le urne a febbraio non potranno dirci esplicitamente dove andrà la locomotiva d’Europa, perché a meno di un exploit dei partiti anti-sistema vedremo la solita macchina politica in azione. Piuttosto, le elezioni fissano una data di scadenza per il paese e, di riflesso, l’intera Europa: o riformarsi nel 2025, o arrendersi al declino.
Partner e rivali strategici dell’Europa stanno vivendo un periodo storico di accentramento dei poteri, che siano democrazie con esecutivi protagonisti, democrazie illiberali, regimi ibridi o vere e proprie dittature totalitarie. Si pensi agli Stati Uniti di Donald Trump, all’India di Modi, alla Russia putiniana o alla Cina in mano a Xi Jinping e alla “sinistra” del PCC. Il trend trova la sua causa nel modo in cui gli interessi si presentano nel mondo contemporaneo: estremamente numerosi e vari, globali, capaci di giungere al centro senza l’intermediazione di corpi intermedi. Chi vuole un Europa con un solo governo con una sola politica estera, compatta nel fronteggiare il globo segmentato, ha di certo delle buone argomentazioni ed esempi dalla sua. Non porta però rispetto alla tradizione di decentramento e di sovrapposizione istituzionale che ha caratterizzato il Continente per buona parte della sua storia.