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Le insidie della transizione

In Nuova Zelanda l'arrivo di un governo conservatore è solamente il culmine di un processo che sta ridefinendo l'idea che il Paese ha di sé.
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Il decadere sepolcrale di un governo in carica è preavvisato dal frinire dell’opposizione parlamentare. I banchi di segno politico opposto cominciano a prepararsi per un riassestamento tellurico. I segretari ombra ammucchiano dossier su cui lavorare negli anni a venire e chiamano a raccolta gli analisti di fiducia. In Aotearoa Nuova Zelanda, dopo due mandati consecutivi, risultati in un costante governo delle emergenze, il partito Labour si appresta a lasciare i banchi del potere a un governo a trazione National. Dopo aver raccolto attorno a sé il Paese nel post-attentato terroristico di Christchurch nel marzo del 2019 e durante la pandemia di covid, Jacinda Ardern si appresta a cedere la carica di Prima Ministra nel 2023. Il partito National è destinato dai sondaggisti a sconfiggere la coalizione di governo. L’avvicendamento al potere non è meccanismo estraneo a una nazione che fin dalla sua costituzione è stata retta dal bipolarismo politico.

I sondaggi percepiscono l’insoddisfazione popolare. Una parte maggioritaria della popolazione kiwi abbisogna di una consolazione che solfeggi sulle note di ordine e sicurezza; una parte avversa al centralismo, percepito come legge imposta da Wellington, la capitale. A meno che un ennesimo scandalo sconvolga il partito liberal-conservatore neozelandese, Christopher Luxon è destinato a diventare Primo Ministro. Ora dovrà trovare gli strumenti per governare. In fondo, la ricerca di strumenti per agire termina pur sempre in una ricerca del potere, come ha scritto Papini ormai un secolo fa. Un partito politico, allora, non può fare altro che bramare la postazione di comando, aspirare a farsi egemonia e occupare i ruoli all’apice dell’industria del potere. Il nuovo governo ribalterà leggi e creerà informazione adatta a sedimentare l’egemonia del nuovo potere. Gli strumenti della politica hanno cominciato ad ammassarsi ai bordi dei notiziari politici e alle porte delle sedi del partito.

Il ciclico ritorno dell’eguale racconta una novella politica ultra-nota ai Paesi occidentali devoti al bipolarismo, come gli Stati Uniti. La paura previene l’istinto liberale dall’ampliare i suoi mezzi e la fierezza anima le parole dei conservatori in auge; l’ignoranza sospinge i secondi verso un baratro di idee e la conoscenza informa il legiferare del primo. Il pessimismo tetro della ragione disamina l’eterno ciclo politico, ma all’orizzonte non si vede una breccia tra le mura. L’accettazione e il rifiuto sono strutture della coscienza, sussurra nel suo balbettio Gómez Dávila. Scrivendo i Textos, il suo libro più esistenziale, più analitico, il filosofo colombiano lambisce una teoria della filosofia reazionaria. Al di là del conservatorismo e del liberalismo. Tuttavia, l’individuo che resiste non può costituirsi in una comunità politica. Egli è ribelle, o suddito feudale. Ma quando l’individualità si costituisce in una comunità politica quelle formule verbali diventano vincoli permanenti dell’azione parlamentare. Ogni campagna elettorale è una condanna a morte per le brame dei politici avvenenti; ogni promessa una gogna per la coscienza.

In quest’isola lambita dall’Oceano Pacifico, la costellazione di parole e frasi conservatrici ha cominciato a emergere. Forza, duro lavoro, autosufficienza, punizione, disciplina. Il linguista statunitense Lakoff sosteneva che «la logica del conservatorismo localizza i problemi ‘sociali’ all’interno delle persone, non all’interno della società». Le grammatiche del conservatorismo hanno iniziato a scandire un fine politico per una nazione assetata di ordine e autorità. La macchina comunicativa del partito National, sostenuta da un sistema morale, macina consensi rinforzando l’idea di “ordine timotico” di Fukuyama. L’ordinamento fittizio del progressismo è pronto a franare. La traiettoria politica del Paese subirà una deviazione, ma rimanendo pur sempre all’interno di una storia del pensiero liberale.

Aotearoa Nuova Zelanda è bloccata nel suo bipolarismo storico, ferreo, deterministico. Come aveva antevisto Gómez Dávila, oltre lo sforzo della filosofia della “storia progressista” e della “storia riduttivista” si nasconde una via ulteriore. Evitando di svanire in un “fascio di traiettorie inutili” e di paralizzarsi negli schemi antichi del passato, la società riesce a divincolarsi dalle leggi rigide delle visioni parziali. La via privata, nascosta, irta, che avversa lo «implacabile sfruttamento industriale del pianeta». Il fallimento di ogni soluzione politica è diretto dalla rinuncia come fine e come principio di azione; il fallimento di ogni condizione politica riconduce alla conservazione dell’unico valore attuale: l’ambiente. Per un ecologismo conservatore, bisogna tornare a interpretare quello scrittore che ha squartato tutto quello che veniva inteso per educazione autodidatta — per fondare un nuovo modo di fare cultura, un «metodo per addomesticare gli interrogativi del destino». Invitarsi nei suoi ripostigli da ragno. Stanarlo nei suoi nascondigli. La scrittura è il suo sotterfugio da Ulisse, astuto; rifugio dalle intemperie di un mondo che Gómez Dávila condanna e che però lo chiama a sé – un disgusto per la condizione del circostante indurita dalla saggezza. Il conservatorismo globale abbisogna il divenire di una reazione sognante.

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