Intervista

«Enrico Mattei fu un gran tessitore e non si faceva scrupolo di manipolare la DC per far funzionare ENI». Paolo Pombeni e i segreti della Prima Repubblica

Abbiamo raggiunto il direttore della rivista "Il Mulino" per scambiare due chiacchiere in merito al suo ultimo libro "Storia della Democrazia cristiana. 1943-1993"(Il Mulino), scritto assieme a Guido Formigoni e Giorgio Vecchio.
«Enrico Mattei fu un gran tessitore e non si faceva scrupolo di manipolare la DC per far funzionare ENI». Paolo Pombeni e i segreti della Prima Repubblica
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Tra mediazione e decisionismo, restaurazione e modernizzazione, encicliche e tessere, potere e impotenza la Democrazia Cristiana è stato il sostanziale protagonista di quella repubblica dei partiti che è stata la prima parte della nostra storia nel dopoguerra. Un Partito Stato, ma anche un Partito Società, che ha incarnato gli umori, le contraddizioni e le ambizioni del nostro Paese, le spinte propulsive e magmatiche della società e l’immobile prudenza delle burocrazie statali e delle gerarchie ecclesiastiche. Una doppiezza democristiana che ha cercato sempre una conciliazione e sintesi in cui si riassume il ritratto di un partito tra riformismo e conservazione, rivoluzione e reazione, nuovo e vecchio che ben si incarna nelle figure di illustri suoi protagonisti come Alcide De Gasperi, Aldo Moro, Amintore Fanfani e Giulio Andreotti.

Una storia complessa e spesso trascurata dietro beatificazioni interessate o facili condanne e che invece è ancora cruciale per capire il nostro Paese. In questo senso leggere “Storia della Democrazia cristiana. 1943-1993″(Il Mulino) di Paolo Pombeni, Guido Formigoni e Giorgio Vecchio è un’opportunità per confrontarci con quel “Partito Italiano”, i suoi protagonisti, le sue saghe familiari e correntizie (più simili alle trame dei romanzi di Zola e Dostoevskij che a quelli di Corti o Pasolini). La cui classe dirigente è rimasta cruciale (da Crosetto a Mattarella, da Renzi a Casini) anche oltre la fine del proprio partito. Uno studio che a ottant’anni dalla nascita della Democrazia Cristiana (la cui ricorrenza è curata dal Comitato DC80) è profondamente significativo per comprendere l’Italia di ieri, di oggi e di domani. Per approfondire questi temi abbiamo intervistato il Professor Paolo Pombeni, storico, politologo, professore emerito dell’Università di Bologna, direttore della rivista “Il Mulino”, saggista, autore di opere come “Giuseppe Dossetti. L’avventura politica di un riformatore cristiano”, (il Mulino, 2013) e “La questione costituzionale in Italia” (il Mulino, 2016).

-Demonizzata e idolatrata, tra nostalgia ed anatema, a circa trent’anni dal suo scioglimento, Professor Pombeni cosa resta della Democrazia Cristiana nella politica e nell’immaginario italiano contemporaneo?

Per valutare cosa resta della DC bisogna fare molte distinzioni. Per esempio nel campo dell’immaginario troviamo tanto la mitizzazione di un partito di larga integrazione sociale, quanto quella di un partito che “occupava il potere”, quanto quella di un partito che formava quadri interessati più a mediare e a narcotizzare tutto che a fare scelte politiche.

Quel che resta nel campo politico è una eredità complessa. Per semplificare possiamo dire che rimane sia la gestione di alcuni passaggi storici difficili (la ricostruzione, la modernizzazione, la società dei consumi) che la formazione di una classe dirigente che per una non piccola parte è sopravvissuta alla fine del partito ed ha rivestito ruoli chiave nella cosiddetta seconda repubblica.

-Quali sono secondo lei tre figure che possono darci globalmente il significato e le sfumature della complessità della Democrazia Cristiana?

Avvertendo che è arbitrario ridurre tutto a tre figure, raccolgo la suggestione. La prima figura è Alcide De Gasperi, l’anti-giacobino che si fece carico di guidare una ricostruzione della democrazia che non lasciasse spazio ai rigurgiti del conservatorismo tradizionalista e alle fughe in avanti del radicalismo intellettuale. La seconda è Aldo Moro che si pose in due fasi il compito di guidare un consenso popolare “spaventato” ad accettare prima l’apertura a sinistra per governare in positivo la modernizzazione e poi la solidarietà nazionale per rispondere alla sfida dissolutrice del terrorismo che era la punta di un iceberg più profondo di quanto si immaginasse. La terza è Ciriaco De Mita che è stato il personaggio che si è illuso che si potesse riportare il partito alle capacità creative delle due fasi appena citate senza rendersi conto che non c’erano più le condizioni per farlo e che anzi così operando si accelerava l’emergere della natura ormai fuori tempo del vecchio partito.

-Quali furono i principali punti di svolta che accompagnarono l’evoluzione di questo “partito italiano”?

I punti di svolta principali sono tre. Il primo riguarda il tema della stabilizzazione della democrazia italiana che non poteva reggersi né riprendendo le tradizioni del costituzionalismo liberale pre-fascista né virando verso una radicalizzazione difficilmente imponibile ad un paese molto frastagliato. Il secondo riguarda il governo della modernizzazione che si sposa con l’avvento della società dei consumi. Allora le forze migliori del partito capirono che non si poteva insistere con la resistenza auspicata dal conservatorismo di gran parte delle gerarchie cattoliche, ma che era necessario anche evitare che una assenza di governo dei cambiamenti indotti dai consumi destabilizzasse le reti di connessione sociali. Il terzo punto di svolta fu la resistenza che la DC seppe opporre a tutti quelli che a fronte della sfida terroristica invocavano lo stato di emergenza e l’accettazione di una sorta di guerra civile strisciante. È stato un contributo che andrebbe valutato più di quanto non si stia facendo.

-Come il grande cambiamento generazionale portato dalla ricostruzione mutò la DC? E come il Concilio Vaticano II accentuò questo mutamento?

La DC non fu mutata dal cambiamento generazionale portato dalla ricostruzione, ma al contrario fu protagonista di quel cambiamento portando sulla scena pubblica una generazione che non proveniva dai vivai delle vecchie classi dirigenti. E ciò è vero non solo per il versante politico, ma anche per quello per esempio della comunicazione (si pensi al suo ruolo nello sviluppo della RAI, specie nella TV) e in quello intellettuale (andrebbe studiata la presenza organizzata dei cattolici per esempio nel mondo universitario). Indubbiamente il Concilio Vaticano II segnò sotto questo profilo una cesura, perché interruppe il circuito obbligato fra le elite formate nel circuito ecclesiale e la militanza nella DC. Con il cosiddetto “dissenso cattolico” i giovani che si erano formati in quei circuiti scelsero in molti casi di impegnarsi in altri campi che non erano più “la politica di partito” e quelli che ancora facevano questa scelta si sentirono liberi di trovare posto in partiti diversi da quello ufficiale dell’unità politica dei cattolici.

-Come definirebbe due personalità profondamente spigolose nella storia democristiana come Fanfani e Mattei, tra loro molto diverse?

Fanfani era chiaramente un politico del fare che diede il meglio di sé quando fu messo nella condizione di esercitare i suoi talenti come ministro e come presidente del Consiglio (anche la sua politica estera merita una considerazione approfondita). Come gestore del partito non funzionava, perché gli mancava la capacità di suscitare empatia. Mattei nella DC fu una figura anomala: un grande tessitore di un’impresa che però era la “sua” (l’ENI), per far funzionare la quale non si faceva scrupolo di manipolare il partito. Gli va riconosciuto però anche il fiuto nel promuovere una nuova leva di giovani dirigenti.

-La figura di Dossetti che ruolo ebbe per l’avvio di una apertura alle istanze sociali, dopo un decennio di apertura alle istanze produttive? E quali furono i veri limiti del centrosinistra?

Dossetti ha rappresentato l’anima della riforma profonda di cui il Paese aveva bisogno. Per lui la questione sociale era un tema cardine, assieme a quello della riforma religiosa. Se si scindono i due aspetti non si comprende a fondo questa figura potente, ma difficilmente inquadrabile negli schemi ordinari. Il limite del centrosinistra fu il limite di un sistema politico che non aveva spazio sufficiente per poter avviare una sperimentazione piena del nuovo corso. Il combinarsi delle resistenze del sistema economico-sociale e di quello culturale legato anche alle gerarchie cattoliche costrinsero a far diventare il centrosinistra solo un “centrismo allargato” come scriverà Moro nel suo memoriale dal carcere delle BR.

-In che modo la ricerca della continuità e le proposte di innovazione caratterizzarono la storia della DC soprattutto nel dopoguerra? 

La DC in quanto partito di governo “obbligato a questo ruolo” come ripeteva Moro dovette cercare di contemperare una continuità nel sistema dell’amministrazione pubblica e delle relazioni socio-economiche con l’innovazione necessaria perché quel sistema non si sclerotizzasse perdendo l’aggancio con le trasformazioni storiche che si presentavano. Di qui la sua continua natura ambivalente: contemporaneamente partito della conservazione e del progresso, accentuando talora l’uno, talora l’altro aspetto, senza però cancellarne nessuno. Quando questo equilibrismo non fu più possibile, la DC entrò in crisi.

-Quanto nello scontro tra De Gasperi e Dossetti si vedono i lineamenti delle contraddizioni e delle tendenze interne della DC? E quanto in Moro convivono questo sia questo aspetto antigiacobino che questa anima riformatrice? 

Lo scontro fra De Gasperi e Dossetti è quello fra un politico reso pessimista dall’esperienza travagliata del passaggio fra Otto e Novecento e un giovane educato alla speranza di un mondo nuovo così come lo si era immaginato nella crisi degli anni trenta e quaranta. Moro cercò in un certo senso di far convivere le perplessità sulle capacità umane di costruire un mondo nuovo con la speranza della sua generazione di poter entrare in quel mondo nuovo a patto che si fosse capaci di agire con la pazienza infinita dei costruttori delle grandi cattedrali.

-Come la DC si inserì nella galassia dei poteri pubblici italiani plasmandola?

La DC ebbe inevitabilmente due fasi. La prima è quella di un partito che rappresentava una generazione di “homines novi” che dovevano per forza di cose venire a patti con l’establishment del sistema. Riuscirono a forzare questa situazione là dove fu possibile occupare spazi che prima non erano previsti: esempi tipici Mattei all’ENI e Bernabei alla TV. Nella seconda fase l’occupazione ormai stabile del potere consentì alla DC di occupare con filiere sue le posizioni dei poteri pubblici e questo inevitabilmente introdusse la tentazione di prediligere la fedeltà rispetto alle competenze e in parallelo, vista la deriva correntizia del partito, di distribuire le risorse in rapporto alle lotte interne fra le sue diverse componenti.

-“Siamo uno strano partito, che passa le giornate a contare le tessere e le serate a commentare le encicliche” disse Martinazzoli. Come descriverebbe la DC, le sue qualità e le sue contraddizioni?

La frase di Martinazzoli fotografa davvero le contraddizioni e le qualità della lunga storia del partito in cui convivevano in maniera crescente le logiche della “impresa politica” (il conto delle tessere, cioè la misurazione del potere reciproco fra le componenti) e in maniera sempre più decrescente la capacità di riflessione culturale sulle grandi trasformazioni che la storia stava imponendo (appunto quelle trasformazioni che i pontefici analizzavano e denunciavano nelle grandi encicliche). Fino a che il partito riuscì a tenere insieme con una qualche armonia le due facce della medaglia la DC ebbe un grande ruolo nel paese. Nel momento in la prima riuscì a marginalizzare, se non proprio a cancellare la seconda, ebbe iniziò il declino fatale.

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