La materia non si crea, si trasforma; le politiche non provengono dal vuoto, ma nascono da dibattiti e bisogni rimasti a lungo fuori dal mainstream. Il ritorno dell’energia nucleare nella strategia e visione dell’Italia pare essere un fatto rivoluzionario. Lo è fino ad un certo punto. L’energia nucleare non è mai morta del tutto, bensì le sue tecniche ed imprese sono sopravvissute alla chiusura dei reattori di Latina o Sessa Aurunca. Nell’epoca dell’economia deterritorializzata europea nata dalle ceneri della guerra fredda non era necessario l’impianto di Trino in funzione affinché ENEL o Ansaldo potessero conquistare appalti e partecipazioni in Slovacchia e Romania. Dinanzi a una difficilissima situazione energetica nazionale – cesura del rapporto con la Federazione Russa, instabilità perdurante in Libia, crescita esponenziale della domanda globale di idrocarburi, imperativi ecologici, problemi tecnologici delle rinnovabili – l’opinione pubblica italiana sta prendendo nuovamente in considerazione la fissione nucleare. Il cambiamento climatico e la stagnazione economica hanno sostituito l’atomo nelle visioni apocalittiche del XXI secolo. Se la generazione dei votanti ai referendum del 1987 è ancora scettica nei confronti delle centrali termonucleari, giovani e adulti le vedono sempre più come una opportunità.
Tipicamente si pensa all’ecologismo quando si vuole riflettere sul ritorno di fiamma della fissione nucleare. È invece un fenomeno strutturale e politico, non solo attivistico e spontaneo. Imprese quali ENEL, ENI, Ansaldo, Newcleo o ENEA sono capaci a livello tecnologico, industriale e finanziario, e costituiscono una filiera sconosciuta al grande pubblico quanto capace di fare in Italia quello che oggi fanno altrove, dalla ricerca sulla fusione all’operazione dei reattori a fissione. Sono poi le istituzioni della Repubblica che stanno supportando e organizzando il settore privato, secondo l’attualmente in voga ritorno della partnership privato-pubblico, nonché riformando i documenti strategici italiani sull’energia. Per definizione Stato è sinonimo di sicurezza e sovranità, e queste sono lenti interpretative fondamentali. Il modello che l’Italia ha scelto o dovuto scegliere per garantire la sua continuità e prosperità non si basa sull’indipendenza, ma sulla co-dipendenza.
Si allacciano con soggetti esterni rapporti di dipendenza in merito a settori fondamentali, dalle basi navali ai rifornimenti di metano agli algoritmi dei social media, e conseguentemente si cristallizza la reciproca necessità di tenere in piedi una infrastruttura e un rapporto cordiale. È il principio alla base dell’integrazione commerciale europea, dell’Alleanza Atlantica, e del rifornimento di energia in Italia. Spesso però i rapporti di co-dipendenza si rivelano asimmetrici, quindi delle mere dipendenze, e l’Italia – mancante risorse naturali e una tradizione politica aggressiva – si trova dalla parte debole delle dipendenze. Esempio, la necessità di sostituire l’apporto dai gasdotti russi con la rigassificazione, o i cambiamenti nel prezzo internazionale del petrolio. Il culto dell’indipendenza può anche essere dannoso, nella misura in cui si traduce in chiusura ad un mondo esterno che di per sé non sarebbe totalmente ostile. Detto ciò, delegare completamente alla stabilità del Qatar, dell’Algeria e della politica commerciale americana la vita dei cittadini e l’esistenza stessa dello Stato non è un fatto razionale. Al netto delle attuali limitazioni tecnologiche delle energie rinnovabili, rimane una sola fonte energetica che sia tanto de-carbonizzata, quanto conosciuta, quanto necessitante di ridotti input da fuori i confini nazionali: la fissione – ed in prospettiva la fusione.
La scelta di chiudere con il nucleare sul suolo italiano nacque da una tempesta perfetta. Negli anni Ottanta era cresciuta una sensibilità che si opponeva agli eccessi dell’urbanizzazione industriale del Paese, con gli annessi disastri, storture e fuliggini inquinanti. Questa tendenza, incarnata in movimenti quali quello ecologista o radicale, divenne onda quando il disastro di Cernobyl dimostrò cosa sarebbe potuto accadere quando un reattore veniva mal gestito. E c’erano buoni motivi per sospettare la cattiva gestione degli impianti italiani. Quelli erano gli anni dell’antipolitica crescente, della delusione dinanzi alla corruzione nepotistica e partitica che aveva prodotto gli scandali dell’Irpinia o della P2. Nel momento in cui lo Stato avrebbe dovuto decidere se investire massicciamente nella sostituzione delle centrali la cui vita operativa era al termine, e magari ampliarne il ruolo nel mix energetico, popolo e istituzioni decisero di lasciare perdere.
In questo momento stiamo vivendo l’opposta tempesta perfetta. L’intera Italia produttiva teme che l’attuale crisi energetica diventi strutturale, e questa inquietudine sta influenzando il dibattito pubblico. Uno studio di SWG, presentato alla iWeek, mappa nel dettaglio le cambiate opinioni degli italiani sul nucleare, in particolare su quello di terza e quarta generazione. È diffusa l’impressione che domanda e prezzi dell’energia siano e saranno in crescita, ma che le rinnovabili non basteranno a colmare il margine; l’indipendenza energetica è presa alquanto seriamente, che si parli di ricerca, filiera o produzione; l’attuale sistema imprenditoriale e istituzionale italiano in tema nucleare è poco conosciuto, e similmente le frontiere della tecnologia della fissione; c’è generalmente apertura pragmatica al cambiamento, soprattutto tra i più giovani e i residenti del Nord. Quindi l’approvazione pubblica nei confronti dell’idea non è marcata, ma non è neanche ideologica. È calata quella cortina di fumo fatta delle visioni di Three Mile Island, Chernobyl o Fukushima, o dell’incuria pubblica durante il sisma dell’Aquila. Si aggiunga che la nostra è una epoca di fiducia tecnologica, soprattutto in ambito energetico. Le possibilità offerte da nuove forme di reattori a fissione – dalla quarta generazione agli Small Modular Reactors – cambia la partita al punto da disarmare quasi del tutto il fenomeno NIMBY. Questo era giustificato quando le centrali effettivamente correvano rischi di incidenti maggiori ed erano mastodontiche.
Il successo del nucleare in Italia è ora questione di circoli virtuosi o viziosi. La fiducia nella tecnologia può condurre a più ricerca e alla costruzione di una adeguata infrastruttura istituzionale (vedesi la sicurezza delle scorie, assicurata dall’ente SOGIN); d’altro canto un pessimismo apriori stroncherà sul nascere un cambiamento politico che sta maturando nell’intero mondo industriale, dalla Romania alla Cina alla Turchia.