Nel corso degli anni Settanta l’Eni – vero e proprio agente di mediazione del governo italiano – concluse con la Libia una serie di accordi tecnico-commerciali basati sulla permuta. L’Italia forniva all’ex colonia know-how composto da ingegneri, materiali da costruzione, semilavorati, mezzi e progetti, indispensabili per le esplorazioni petrolifere e la costruzione di impianti di stoccaggio, raffinerie ed oleodotti, in contropartite di petrolio a prezzi stracciati. L’obiettivo era quello di rispondere muscolarmente allo shock petrolifero del 1973 ricercando approvvigionamenti di idrocarburi prolungati nel tempo e a costi contenuti.
Nel contesto del bipolarismo l’Italia poteva ritagliarsi margini di azione dai vincoli statunitensi proprio nel Mar Mediterraneo; i brillanti dirigenti dell’Eni – Mattei su tutti – avevano compreso ben prima della crisi energetica che i paesi produttori desideravano innanzitutto lo sviluppo economico e il benessere che non era loro concesso dallo stato di vassallaggio cui erano sottoposti. Difatti il cartello petrolifero delle «Seven Sisters» fino almeno alla conferenza di Tripoli del 1971 – che ratificò un primo significativo rialzo dei prezzi petroliferi, a tutto vantaggio dei paesi produttori – attuava, nei teatri dove operava, una politica di spoliazione massiccia delle risorse minerarie. Viceversa, Enrico Mattei, in anticipo sui tempi, aveva inaugurato nei paesi rivieraschi del Mediterraneo una politica economica cooperativa: se il fine, ovviamente, era quello di ottenere fonti energetiche, certo i mezzi per ottenerle si fondavano sul rispetto della parità di trattamento che gli Stati di recente emancipazione domandavano. Ecco che, dagli anni Sessanta, fra l’Italia ed attori quali la Libia, l’Algeria, l’Iran e l’Egitto, stanchi del giogo neocoloniale imposto dalle multinazionali petrolifere, si aprirono rapporti d’intesa reciprocamente vantaggiosi. Si trattava di intese commerciali logiche: l’Italia, paese a vacazione trasformativa ma quasi del tutto carente di materie prime scambiava, per grandi partite di idrocarburi, prodotti finiti indispensabili ad avviare uno sviluppo di stampo industriale. Siffatte relazioni economiche trovarono concordi i maggiori partiti dell’epoca, e funsero da trait d’union fra il terzomondismo comunista e il cattolicesimo sociale della sinistra democristiana.
Sebbene molti anni siano passati da quando l’Italia poteva contare su legami di partenariato così attivi coi paesi produttori, non significa che il trattamento di riguardo che l’Eni attivò nei confronti di essi sia finito nel dimenticatoio. Tutt’altro. Si tratta solo di soffiare via la polvere che il tempo vi ha depositato sopra. In quella tradizione si inserisce il «Piano Mattei», recentemente lanciato dal governo Meloni, come ragionevole prosecuzione delle politiche di procacciamento attivo delle risorse energetiche avviate, all’indomani dello scoppio della guerra in Ucraina, dall’esecutivo Draghi, nonché dallo stesso Presidente della Repubblica Mattarella.
Ad oggi il problema principale d’Italia si chiama gas. La necessaria disintossicazione da quello russo – che fino all’inizio dell’anno scorso valeva il 38% del fabbisogno nazionale – ci ha fatto ricordare che i tubi – escludendo il TAG che trasporta il gas di Mosca – che iniettano energia nel nostro paese sono ben 4 e, se intelligentemente valorizzati, potrebbero non solo mutare le anemie da idrocarburi nate con la guerra ma rivelarsi strumenti di vantaggio competitivo nei confronti dell’Unione Europea. I gasdotti in questione sono: la TAP che collega l’Azerbaijan con Melendugno in Puglia, il TENP che fa entrare il gas norvegese dal Passo del Gries in Val d’Ossola, Greenstream che mette in comunicazione la Libia con Gela, infine il TRANSMED, di cui tanto si sente parlare, lega il campo algerino Hassi R’Mel, il più grande giacimento gasiero dell’Africa, con Mazara del Vallo.
Quest’ultimo – dopo i nuovi accordi di partenariato avviati con la visita ad Algeri di Draghi – nel corso del 2023, porterà la sua offerta di gas a ben 30 miliardi di metri cubi, sostituendo e superando la precedente fornitura russa. Inoltre, è in fase di costruzione Galsi, un gasdotto che dovrebbe ulteriormente implementare i flussi di gas dall’Algeria verso l’Italia. Questa potrebbe essere solo apparentemente una buona notizia in quanto, se è indubbio che ulteriori aliquote di metano sarebbero terapeutiche per rispondere al nostro fabbisogno energetico, c’è la priorità, vista la lezione che la guerra indirettamente ci ha somministrato, di diversificare le fonti energetiche. Puntando sull’Algeria questo risultato non è conseguibile.
Non è conseguibile in prima battuta perché l’Algeria più che a uno Stato, assomiglia ad una caserma. La giunta militare che detiene il potere detta Pouvoir, la «Cupola» è soggetta a continue lotte di potere intestine che potrebbero portare a repentine inversioni di rotta nelle decisioni prese dall’esecutivo di turno; inoltre l’attuale presidente Tebboune è considerato illegittimo da buona parte dell’opinione pubblica locale, che infatti ha boicottato in massa le elezioni che lo condussero al potere nel 2019 (con un’astensione oltre il 60%). Un tessuto sociale tanto consapevole che i giochi della politica sono sempre decisi a monte dalla Cupola può esplodere da un momento all’altro, generando una crisi che può mettere seriamente in dubbio la regolarità nelle forniture di gas; tantopiù che in Algeria una guerra civile è già esplosa, prolungandosi per ben undici anni (1991-2002) con gravi conseguenze sulla stabilità del Paese. In seconda battuta è la politica estera algerina che non fornisce garanzie inossidabili ai contratti stipulati. L’Algeria è uno dei principali acquirenti di armi russe; in particolare i sommergibili Classe Kilo di fabbricazione sovietica sono regolarmente utilizzati dalla marina algerina in operazioni di controllo che si spingono a lambire le coste sarde, in quell’ampia area di mare che Algeri considera la propria Zona Economica Esclusiva (ZEE), senza però averne mai negoziato i limiti con Roma. In una fase così delicata per la pianificazione energetica nostrana, criticità lampanti come queste non possono non essere tenute di conto.
Se il matrimonio d’interesse italo-algerino risulta precario la soluzione è la diversificazione. Esempi virtuosi a riguardo sono il viaggio della Presidente della Commissione Europea Von der Leyen a Baku, quando ha firmato un protocollo per portare le forniture di gas azero da 8 a 20 miliardi di metri cubi entro il 2027; nonché gli accordi siglati dal nostro governo per l’importazione di GNL da Egitto, Angola e Congo.
Ma si può far di più. Innanzitutto l’Italia dovrebbe, senza mezzi termini, rinnovare il suo interesse per la risoluzione della guerra civile libica e per la Tripolitania. Questa è stata lasciata in mano turca dopo l’assedio di Tripoli condotto dall’esercito del generale Khalifa Haftar nel 2019. Tuttavia, poiché l’Italia continua a rivestire il ruolo di primo partner commerciale della Libia, potrebbe utilizzare questa leva negoziale almeno con il Governo di Unità Nazionale, che peraltro sostiene, per potenziare le forniture via Greenstream. Il gasdotto costruito da Eni e dalla National Oil Company (NOC) ad oggi rappresenta un investimento costoso ed astrategico, a causa della sua capacità di pompaggio depotenziata ad appena 1/10 del totale. Se a questo si aggiunge anche il peso dei giacimenti petroliferi, i più grandi di tutta l’Africa, la Libia emerge a pieno titolo come un attore geoeconomico irrinunciabile. Tuttavia, come emerge dalla relazione annuale del DIS, fino a quando la posizione di mediatore per la ricomposizione politica della Tripolitania con la Cirenaica resterà in mano ai diplomatici degli Emirati Arabi, le speranze per l’Italia di riavere voce in capitolo nelle questioni energetiche libiche saranno sparute.
Fra gli elementi che concorrono ad incentivare le politiche di diversificazione negli approvvigionamenti di gas ne spiccano principalmente due. Il primo è il giacimento Cronos-1, scoperto da Eni al largo delle coste di Cipro. Il gigante energetico nazionale attribuisce al nuovo giacimento un’importanza molto alta in quanto la sua vicinanza alle coste italiane può permettere un rifornimento deflazionato dai rischi e dai costi legati al trasporto di lunga percorrenza. A conferma di ciò, per l’interesse nazionale che riveste Cronos-1, la marina militare italiana ha inviato nella zona un cacciatorpediniere per il pattugliamento dello specchio d’acqua. L’altra promessa è la costruzione del gasdotto Eastmed. Si tratta di un progetto per la sicurezza energetica del Mediterraneo, a cui l’Italia partecipa attraverso l’azienda di energia elettrica Edison. L’obiettivo è quello di sfruttare i giacimenti metaniferi offshore del bacino levantino, scoperti da Israele, per trasportarli in Europa attraverso l’Italia e i Balcani. Aprire questo fronte significherebbe il quasi integrale affrancamento dal costoso GNL proveniente via nave dagli Stati Uniti. Inoltre, Eastmed potrebbe alimentare la galoppante transizione energetica poiché, in quanto tecnologia dual-use, è adibito al trasporto dell’idrogeno.
Un eccesso di gas proveniente da sud – senza dimenticare quello dei rigassificatori – convertirebbe, grazie al meccanismo reverse flow, i gasdotti presenti sui confini alpini, fino ad oggi fardello alle casse dello Stato, in arterie di redistribuzione del gas dall’Italia verso l’Europa: il flusso Sud-Nord sancirebbe un vero spartiacque nel mercato energetico del Vecchio Continente.
Le premesse sono buone e i progetti altrettanto; se l’azione di governo si dimostrerà capace di un impegno attento e costante nella sponda Sud del Mediterraneo, forse ci saranno concrete possibilità per l’Italia di ergersi ad hub gasiero d’Europa, chokepoint inaggirabile per motori industriali come la Germania. Allo stesso tempo, apprendendo la lezione di Mattei, rinnovati rapporti di valorizzazione e fiducia coi paesi MENA e africani potrebbero rivelarsi opportunità foriere di cooperazioni per la nostra economia, riattivando quel ciclodi scambi virtuosi e di legami culturali che un tempo erano il vanto della nostra diplomazia.