Tra l’otto e il nove novembre del 1987, dopo una campagna referendaria dominata dal pauroso incidente di Černobyl’, la netta maggioranza degli italiani votò l’abrogazione di tre norme. I quesiti giravano sostanzialmente attorno alle centrali nucleari, riguardando la maniera di localizzare i futuri impianti, le compensazioni dovute ai comuni ospiti e la possibilità che Enel partecipasse ad accordi di gestione e costruzione all’estero. Ciò nonostante, la vittoria schiacciante del sì manifestò una scelta politica e democratica chiara, alla quale la classe dirigente diede seguito, senza elusioni. Il Partito Comunista Italiano ribaltò una lunga tradizione industrialista. La Democrazia Cristiana proseguì una lenta parabola. L’Italia spense tutte le sue centrali nucleari, avviando il decommissionamento più ampio e complesso mai tentato prima, quattro centrali e sette impianti contemporaneamente. Nel 2011, dopo l’incidente di Fukushima, un secondo referendum avrebbe confermato la decisione, aggredendo direttamente la possibilità di produrre. Conseguenze ad alta tensione.
A partire dalla Rivoluzione Industriale, la Modernità ha sviluppato un’accelerazione incredibile della propria traiettoria politica, sociale, economica, tecnica e scientifica, bruciando i combustibili fossili per ottenere energia, in quantità crescente, sempre più economica e sempre più “pregiata”. Dall’energia meccanica delle prime macchine a vapore alla versatile corrente elettrica, decisiva oggi. In ogni caso, la disponibilità di energia si manifesta quale elemento chiave della dinamica socio-economica. Continuità profonda risaltata dal momento attuale, specialmente in Europa. Dove, transizione ecologica e rinuncia agli idrocarburi russi agitano gli equilibri.
Difficile anticipare il futuro dei rapporti energetici con la Russia. E facile prevedere un lungo impegno contro il riscaldamento climatico, attraverso la sostituzione dei combustibili fossili con fonti pulite, nonché una forte elettrificazione, dai trasporti, all’economia digitale. Senza dubbio, l’energia elettrica troverà molti nuovi impieghi e occorrerà produrla a bassa impronta carbonica e quantità maggiore. Una congiuntura apparentemente favorevole all’industria della fissione nucleare, impegnata nel “salto” tecnologico verso i reattori di terza generazione, sviluppati secondo numerose tipologie, a cominciare dai francesi Epr (European Pressurized Reactor). Del resto, le centrali nucleari non emettono anidride carbonica e lavorano in maniera stabile, trascurando l’incidenza del combustibile sul prezzo finale del kilowatt ora: 5% per l’uranio, 67% per i fossili. L’Italia soffre le tendenze attuali in maniera particolare, la bolletta supera di quasi un terzo la media europea, la dipendenza dagli idrocarburi russi è forte e manca una quota nucleare. Così, l’esposizione a rischi di carenza e aumenti di costo, richiama la decisione del 1987.
Gianni Silvestrini – già ricercatore presso il Cnr, direttore generale del Ministero dell’Ambiente, presidente della società Exalto Energy&Innovation – sconsiglia un ritorno al nucleare italiano (Gianni Silvestrini, Che cosa è l’energia rinnovabile oggi, Milano, Edizioni Ambiente, 2022). Umberto Minopoli – già parlamentare, presidente del cda di Ansaldo Nucleare e dell’Associazione Nucleare Italiana – considera l’energia dell’atomo come irrinunciabile (Umberto Minopoli, Nucleare ritorno al futuro, Milano, Guerini e Associati, 2022). Due posizioni autorevoli. I titoli sono programmi. Innanzitutto, entrambe le analisi concordano su una fase declinante del nucleare, cominciata a partire dagli anni Ottanta. Anche l’Italia del 1987 era lontana dal terzo produttore al mondo di vent’anni prima, fermandosi al 4.6% di elettricità nucleare. Comunque, tra idrocarburi a basso costo (decisivi), avvento delle rinnovabili, fino agli incidenti di Three Mile Island, Černobyl’ e Fukushima, l’energia elettrica prodotta dalle centrali nucleari sulla quota globale è scivolata dal 18%, al 10% circa. O in Germania, dal 29.5% del 2000, all’11.4% del 2020. Nella tendenza di lungo periodo, i decommissionamenti hanno superato le nuove costruzioni. Verso una stagnazione nel periodo 1999-2020, con 104 reattori avviati e altrettanti chiusi.
D’altra parte, il nucleare civile è rimasto una realtà solida. Limitando l’analisi ai paesi avanzati, la quota elettrica nucleare è più alta, aggirandosi spesso attorno al 20%. Addirittura, la media dell’Unione Europea tocca il 28%, la regione del mondo che ospita più reattori. Per cui, chi non possiede centrali nucleari, finisce per importare la loro energia da quelle vicine, come nel caso italiano. Ma anche sull’urgenza di contrastare il riscaldamento climatico l’impegno è comune, affidando il compito di supplire la discontinuità di sole e vento: da una parte a batterie, sistemi di pompaggio (associati all’idroelettrico) e idrogeno verde, dall’altra proprio all’energia nucleare. La valutazione non è comune invece circa le questioni tecniche, legate alla gestione delle scorie e ai livelli di sicurezza nelle centrali. Temi approfonditi soprattutto nel pamphlet monografico di Minopoli. Così, il confronto più interessante riguarda i temi dell’opportunità economica e l’analisi di tendenza.
Il 21 dicembre 2021, dopo dodici anni di lavori, la centrale finlandese di terza generazione Epr, Olkilouto 3 ha iniziato a produrre energia elettrica per 1600 megawat, incrementando del 14% la capacità del paese, con il favore dell’opinione pubblica e l’indipendenza dal gas russo. Entro il 2040, la Francia ha annunciato sei centrali dello stesso tipo, altrettante la Polonia, due la Repubblica Ceca, una Slovenia, Bulgaria e Ungheria. Secondo Minopoli, potrebbero correre i primi passi del rinascimento nucleare. Secondo Silvestrini invece, l’eccezione finlandese conferma la regola: unica centrale europea da vent’anni, in fieri dal 2005, preventivo triplicato e problemi condivisi con la centrale francese di Flammanville, ascesa da 3.4 a 19 miliardi di euro, ancora incompleta. Quanto agli annunci, il rinascimento nucleare statunitense di George W. Bush è finito con la cancellazione della metà dei reattori previsti e il fallimento nel 2017 della Toshiba-Westinghouse. La ragione sarebbe economica. Negli ultimi dieci anni, i costi di manutenzione e costruzione delle centrali nucleari sono cresciuti del 33%, mentre quelli delle rinnovabili sono precipitati. Nel 2010, il governo britannico si accordò con l’azienda francese Edf (Électricité de France): un nuovo reattore Epr a Hinkley Point e un prezzo garantito indicizzato all’inflazione per l’energia elettrica, 123€ ogni megawatt ora. Oggi l’eolico offshore vende alla metà.
Il costo è una questione fondamentale. Minopoli raccomanda di confrontare l’economicità delle diverse produzioni energetiche con il metodo di calcolo lcoe (levelized cost of energy), comprensivo di capitale iniziale, combustibile, esercizio, finanziamento e durata dell’impianto. Allora l’energia nucleare sfiderebbe il primato solare, specialmente quando le licenze operative corrispondono alle reali possibilità tecniche degli impianti produttivi, tendenti agli ottant’anni. Problematici rimangono i tempi di esposizione finanziaria del costruttore, aggravati da rallentamenti e lievitazione dei costi, assieme all’enorme investimento iniziale. Tuttavia, la prima difficoltà risponde alla fase transitoria del passaggio alla terza generazione. Quanto alla seconda, Minopoli valuta positivamente l’accordo di prezzo garantito a Hinkley Point, come l’inserimento del nucleare nella Tassonomia Verde del Green Deal europeo, ovvero l’accesso a fondi pubblici. L’interpretazione di Silvestrini è diametralmente opposta. La ricerca continua di fondi pubblici svela la fragilità economica del nucleare. Nel 2020, gli investimenti globali nella produzione elettrica rinnovabile hanno segnato 256 miliardi di euro, diciassette volte quelli atomici; con un divario ancora più grande quanto a potenza installata, 287 contro 0.4 giga watt. Perfino gli Stati Uniti hanno fatto ricorso agli aiuti di stato, sei miliardi di dollari per evitare la chiusura dei rettori. Il nucleare resiste dove le fondamenta sono solide ma non conviene e non rinasce.
Così, tra tesi e antitesi, la sintesi interroga. I benefici di impronta carbonica, riparo dai picchi petroliferi e del gas, sicurezza e diversificazione energetica, valgano i rischi d’incidente, gestione delle scorie, economici e di competizione con altre tipologie d’investimento? A suo modo, potrebbe avere risposto il presidente francese Emmanuel Macron:
«Senza nucleare civile, non ci sarebbe la potenza atomica e senza la potenza militare atomica non ci sarebbe il nucleare civile».
Del resto la terza generazione assieme ai prossimi reattori smr (smal modular reactor), rappresenta anche uno strumento di proiezione geopolitica. Prima della guerra in Ucraina, Rosatom partecipava alla costruzione di ventitré centrali all’estero. Ma anche il futuro de piccoli reattori smr (da uno a 350 mega watt) è incerto. Stati Uniti (con forti investimenti della Silicon Valley), Francia, Russia, Cina e altri paesi hanno sviluppato diverse avveniristiche tipologie di rettore smr, con prospettive di mercato attorno al 2030. La Iea (International Energy Agency) conta settanta modelli in fase di sviluppo, venticinque dei quali in stadio avanzato. Dimensioni da container permetteranno di raggiungere i paesi poveri esclusi dalle grandi centrali, regioni disagiate o i nodi di rete, in modo da coordinarsi facilmente con l’intermittenza delle rinnovabili. La progettazione versatile permetterà di produrre anche idrogeno o calore per l’industria chimica e metallurgica. Condividendo la sicurezza della terza generazione.
Una prospettiva solida, per i sostenitori. Una bolletta ancora troppo salata per i critici, a meno di una produzione in serie spropositata e di una proliferazione inquietante, alla portata di paesi instabili. Le criticità che hanno impedito lo sbarco dei piccoli reattori navali – in mare dagli anni Cinquanta – avverserebbero anche gli smr. In conclusione, la fusione nucleare è una tecnologia complessa, le cui incognite s’inoltrano nella seconda metà del secolo. Intanto, la dinamica globale è difficile da prevedere anche per la fissione. La Germania ha programmato di ridurre le proprie emissioni climalteranti del 65% entro il 2030, assieme allo spegnimento dei suoi ultimi reattori entro il 2022. La guerra in Ucraina con la relativa crisi energetica ha rivisto la decisione, fissando una proroga fino all’aprile del 2023. La Repubblica Popolare Cinese ha obiettivi climatici ambiziosi ma programma la costruzione di nuove centrali, in modo da spingere la produzione elettrica nucleare dall’attuale 2%, verso il 10% del fabbisogno. Rinascimento nucleare o stagnazione? Le analisi divergono, come sull’opportunità che l’Italia vi partecipi.