La strada che collega l’aeroporto al centro di Yerevan è un’arteria di cemento sgangherato. Una striscia malandata dove si sovrappongono SUV spaziali e Lada fumose di 40 anni fa. Il grande monte Ararat fa da sentinella sullo sfondo, ma rimane in territorio turco, come beffa del destino: il simbolo dell’Armenia svetta dalla terra del nemico per eccellenza, come un monito terribile che aleggia sulle coscienze e sull’immaginario di un intero popolo.
Strano destino quello degli armeni: Ottomani, Russi, Persiani… chiusi nella morsa di tre imperi, sono la sintesi perfetta delle sofferenze ataviche della gente del Caucaso, lembo di terra antichissima che lotta per sopravvivere, pendendo dai capricci di vicini più grandi, più forti, più cattivi.
Il Caucaso del sud, in effetti, è un imbuto; una strettoia destinata ad essere la periferia di chiunque lo domini. E l’Armenia è la strozzatura dell’imbuto, teoricamente molto più grande, ma per forza maggiore rimpiccolita e senza amici intorno: a ovest c’è l’ombra lunga dei turchi; a est quella dei loro cugini azeri; a nord, i georgiani, popolo con cui gli armeni spartiscono i soviet del XX° secolo e molta antipatia; solo a sud, nel torpore della frontiera con l’Iran, i pigri scambi culturali che durano da secoli ricordano che anche da queste parti il buon vicinato può esistere.
Il dramma, si sa, è nel DNA dell’Armenia e si rinnova sempre. Le migliaia di tombe imbandierate che campeggiano dal memoriale militare lungo la tangenziale Isakov, ricordano la débacle nell’ultima guerra del Nagorno-Karabakh, ferita mortale così recente, da lasciare come abitudine la tristezza negli sguardi. In meno di due mesi, tra settembre e novembre 2020, le truppe azere hanno scalzato l’esercito armeno da buona parte della Repubblica di Artsakh, riducendola oggi ad un territorio grande, più o meno, come la Ciociaria. La sconfitta era nell’aria. La grande madre Russia, amica storica degli armeni (ma anche degli azeri), ha dovuto assistere senza intervenire: per Mosca, tenersi buona la Turchia in vista della tempesta in Ucraina, era una scelta obbligata. Ankara e Baku hanno così allungato le mani e a pagare, com’è già capitato nella Storia, sono stati gli armeni.
Ma Yerevan non muore mai. Oggi è viva, più viva di quanto si immagini. Sciami di persone di tutte le età si riversano nelle vie intorno a Piazza della Repubblica, ogni sera. Locali, ristoranti, luci e colori si contendono una gioia di essere, di rara bellezza. Un’energia che non è consumo o ricchezza: è pura e semplice voglia di esistere. È forse la sindrome di chi è abituato alle umiliazioni: ogni volta si risolleva più dignitoso e convinto.
Sotto lo sguardo marmoreo di Madre Armenia, fra monumenti imperiali, fontane celebrative e vecchie auto cafone, il caldo secco dell’altipiano fa spazio al vento fresco che arriva ad ogni tramonto. Da lontano, tra la foschia, emerge la sagoma ingombrante dell’Ararat, nel caso impossibile che qualcuno si scordi. Una città e un Paese rimangono, così, per destino, sotto l’eterno peso di qualcosa che incombe.
Le melodie melense del padre della Patria Charles Aznavour, accompagnano i giochi d’acqua della fontana della piazza, davanti al Museo di storia armena, davanti a turisti (in maggioranza russi, disorientati dalle sanzioni) e gente locale. Impossibile non distinguerla. I nasi grandi che spuntano dai visi tondi su corpi corti; gli ombretti marroni identici per tutte le donne; gli occhi vagamente allungati e intensi che raccontano un popolo riconoscibilissimo anche dai tratti; la moda sbarazzina identica a quella di qualunque città universitaria occidentale, a ricordare che le restrizioni islamiche, qui, non sono di casa.
È così: tutte le sere, nel cuore di Yerevan. La mestizia diventa identità, l’orgoglio diventa rinascita, sorriso e vaga speranza per il futuro.
Cristianità ancestrale fra nemici islamici e spirito eletto di un popolo che secondo la leggenda discende direttamente da Noè: l’Armenia è un pezzo di passato che si guarda intorno. Un angolo di Unione Sovietica che tira avanti per sopravvivere, abbandonata da tutti ma non dai suoi figli: la sconfinata diaspora armena garantisce ancora oggi una percentuale non indifferente del PIL, che seppur in crescita di 5 punti per il 2023, è condizionato dalle forniture di Mosca e dalla chiusura delle frontiere con Turchia e Azerbaijan.
Ma il senso di solitudine fiera si vede soprattutto in provincia, quando la periferia inquinata e giallastra di Yerevan, sparisce verso le alture che portano a nord. Dai mille metri della capitale si sale rapidamente lungo la M3, l’arteria di nordovest, dove le cime del gruppo dell’Aragats fanno da sfondo con tutto il Piccolo Caucaso.
Il valico tra la regione di Aragatsotn a quella di Lori sembra il Trentino, meno antropizzato. Seguono le gole e i canali remoti della valle del Pambak che nascondono monasteri e i resti dell’industrializzazione sovietica. Le miniere di rame e gli stabilimenti arrugginiti tra Vanadzor e Alaverdi aumentano la sensazione di povertà dignitosa, remota, resa umida da un’uggia e da una penombra perenni. L’Armenia svanisce in silenzio verso le cime del nord. Passato l’ultimo avamposto triste di Ayrum, in fondo alla gola a strapiombo del fiume Debed, arriva la frontiera.
L’ultimo saluto lo danno le gigantografie dei generali eroi della guerra in Karabakh e il tricolore armeno, poi oltre il ponte, tutto cambia.
Basta uno sguardo alle uniformi degli addetti alla dogana, per capire. Il cappello a pizza tonda gigante e le camicie corte in vita di forgia russa degli ufficiali armeni, diventano i berretti da baseball e le divise blu notte dei georgiani. Basta il ponte sul Debed: dai retaggi dell’URSS si passa al quasi Occidente. L’est ibrido diventa “vorremmo sembrare solo ovest”.
Proprio sul ponte, alle bandiere crociate nazionali si affiancano quelle dell’Unione europea in sequenza serrata. Le bandiere blu sono schierate in modo plateale, ovunque, affinché sia chiaro dove è rivolto lo sguardo della Georgia attuale. Tbilisi è un “candidato potenziale” dell’Ue. Lo status di candidato ufficiale le è stato negato nel 2022. Rimangono l’accordo di associazione del 2013 e la domanda ufficiale di adesione inoltrata a Bruxelles nel 2022. Per i georgiani incantati dalle sirene di Occidente basta e avanza, per ora. Ci vuole poco del resto: i popoli che conoscono povertà e guerra spesso hanno orecchie più grandi. La guerra in fondo, è passata da qui solo ieri.
La strada per Tbilisi non è lunga. Meno di due ore dalla frontiera. È un lento declivio di campi di grano e colline più dolci. Gli spigoli dell’Armenia sfumano nelle rotondità più feconde della Georgia. Niente è casuale.
Come per incanto, nel cuore della capitale, molte cose prendono senso. Gli equilibri fragili di una terra martoriata sembrano più chiari. È proprio la città vecchia a esprimere la sintesi più efficace di quanto accaduto nel Caucaso negli ultimi 20 anni. Aggirato l’enorme agglomerato suburbano di stampo sovietico che esprime la città profonda, si entra in una piccola scenografia medievale che tra vicoli acciottolati e vinerie sofisticate, ripete l’allestimento tipico Lonely Planet. Birrerie e negozi agghindati si contendono il bellissimo spazio tra la fortezza di Narikala e il Ponte della Pace, sotto la funivia che sorvola il fiume Kura. C’è molto dell’Europa qui: lo spirito, le facce, i turisti, la musica, soprattutto i prezzi.
Tbilisi vecchia sembra lontana dalle guerre e dai flagelli. Bella e suggestiva, niente da dire. Attrezzata per un turismo recentissimo e omologato al pensiero giusto. Un mix tra navigli e vialotti da capitale baltica con bandiere ucraine, arcobaleni e richiami all’Unione cadenzati ovunque. A Piazza della Libertà, in un angolo della rotonda, c’è anche l’info point della NATO.
Una serie di investimenti freschi, ben visibili nelle infrastrutture urbane, ricordano che non è un obbligo essere poveri. A che prezzo, non si sa ancora. Questo fa una differenza enorme con Yerevan, distante solo 250 km. Là c’è il mondo di prima; un pezzo di Novecento che non vuole morire, per necessità più che altro. Un futuro già scritto invece è in Georgia, o in quel che ne resta. Perché, è bene dirlo, i pulmini per turisti di piazza Vakhtang gorgasali, nel cuore della città vecchia, ignorano del tutto Sukhumi e Tskhinvali, capitali de facto di Abcasia e Ossezia del Sud. Una volta mete quasi normali e battute (soprattutto Sukhumi), oggi sono parte del mondo che non c’è, inaccessibili a tutti, compreso il governo di Tbilisi.
A ovest e a nord corrono altri confini; è noto, ma tutti fingono di non saperlo. Ultima città sul Mar Nero è Poti, poi arriva Zugdidi oltre la quale non si va. Stessa cosa verso i picchi del Grande Caucaso, che segna il ritorno delle montagne e l’inizio della Federazione russa. Karaleti è l’ultimo villaggio dove arriva la cooperazione della German Reconstruction and Development Bank. Già la municipalità di Kareli è sotto il controllo della Repubblica dell’Ossezia del Sud. Tskhinvali è a un tiro di sasso con i suoi ricordi freschissimi della guerra del 2008. Della città nessuno parla. È uno spettro dove la brezza dell’Ovest non arriva. Quella brezza che taglia in due il Paese, tra i dj set di Tbilisi e l’acqua del Kura che scorre veloce.
Questa è la terra delle linee e dei confini. Quelli ideologici molto più difficili da superare di quelli reali. A Sadakhlo, porta d’ingresso sulla strada tra Armenia e Georgia, in fondo si passa subito. I controlli non sono così duri come la politica vorrebbe. Il problema è più grande, difficilmente risolvibile nel breve periodo. Una terra il cui volto europeo è per certi versi innegabile, diventa ostaggio di una nuova cortina voluta a tutti i costi da molto lontano. La politica va oltre la geografia: Est e Ovest qui si incontrano ma si è deciso di tenerli divisi, più di quanto eterne rivalità e diversità locali non facciano già. L’anima del Piccolo Caucaso rimane così appesa, come un panno lavato, esposto al vento che qui soffia da ogni parte.
Sui ciottoli di Tbilisi vecchia, avanza lenta una Lada anni Ottanta con l’impianto subwoofer più grande del bagagliaio. Dentro, spadroneggiano i tamarri del posto che marcano il territorio al ritmo di turbofolk locale, simile alle litanie balcaniche. Forse è l’est di una volta che sta scomparendo. O forse è il campanello di allarme per una nuova ricchezza che non sarà mai di tutti.