OGGETTO: La città di nuovo eterna
DATA: 10 Aprile 2022
SEZIONE: Politica
AREA: Italia
Da Expo al Giubileo fino al Pnrr. Roma da “ladrona” è diventata “erogatrice”.
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Le parole che impegniamo nel linguaggio quotidiano sono spesso espressione di giudizio. Vale per molti sostantivi e ancor di più per gli aggettivi, spesso usati proprio per comparazioni di valore. Si tratta di una vera e propria dicotomia, sul modello dei buoni e cattivi separati sulla lavagna da una riga di gesso. Alcuni termini lo sono per questioni semantiche. Per esempio: bontà, buono, onestà, onesto, coraggio, coraggioso… sono l’alter ego di cattiveria, disonestà, viltà e degli aggettivi ad esse collegate. Esprimono cioè delle attribuzioni positive o negative in misura assoluta. A queste si affiancano parole più sfumate, cioè che seppur non espressione diretta di giudizio, sono assegnate ad uno o all’altro insieme. Gli aggettivi “dolce” o “alto” rispetto a “acido” e “basso” ad esempio o anche ai sostantivi con cui identifichiamo gli animali (maiale, pecora, iena…) sono attribuzioni di qualità e difetti e permettono di muoverci tra bene e male attraverso un significato indiretto. Fin qui è tutto elementare. Esiste però una categoria di termini, la più ampia in assoluto, di natura neutra. Si tratta di parole senza una indicazione di valore in sé, ma che per magia o contingenza storica finiscono per esprimerlo. Un esempio molto attuale è l’aggettivo “multietnico”. Letteralmente significa niente più che “composto da più etnie” ma per magico allineamento dei pianeti è diventato espressione di valore aggiunto. Essere multietnici, oggi, nel sentito comune, è letto con un’accezione indubbiamente positiva. Come può accadere? 

Senza dubbio una certa formattazione mediatica influenza il glossario collettivo e i significati ad esso collegati. Potremmo dire anzi che istillando principi ideologici nelle diverse forme di comunicazione, si finisce per forgiare un nuovo lessico ad essi compatibile. Se multietnico segue l’onda social-antropologica della globalizzazione e con essa la consacrazione dei contenuti che si porta dietro, più complesso è invece il destino di altri frasari saliti all’onore delle cronache negli ultimi anni del ‘900. Esempio principe è il sostantivo “federalismo”, o meglio il concetto e le terminologie ad esso attigui. All’improvviso, come un amore a prima vista, il federalismo da perfetto sconosciuto alle masse diventa parola di suo comune. Accade esattamente agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso. I perché non sono difficili da comprendere. Da un lato si radica nella nostra società un principio trasversale, svincolato da convinzioni ideologiche e affine ad un non meglio precisato senso di libertà, secondo cui svincolarsi da qualcosa è sempre cosa buona e giusta. Identificare il giogo e chissà quale dominazione, diventa di volta in volta solo un’appendice. Si tende cioè a riconoscere i diritti di chi sceglie il “fai da te” prima ancora di capirne il senso, in una sorta di autonomismo culturale, ormai standardizzato. Dall’altro c’è la fine del “mondo di prima” e il tramonto della Prima Repubblica che trascinano a fondo un intero sistema di potere. Con esso si affossano tutte le sue rappresentazioni, dirette e indirette sul piano giuridico, morale, culturale e geografico.

Col collasso del sistema pentapartitico a trazione democristiana, viene giù di colpo anche l’iconografia tradizionale dei palazzi del Potere, legati alla “indifendibile palude romana”. Tutto ciò che rappresenta il Potere e le sue inefficienze viene azzerato con un colpo di spugna. Roma, culla e cloaca della politica corrotta e sciupona, finisce sul patibolo in rappresentanza di tutto ciò che non ha funzionato e porta il suo nome. La valanga leghista, scesa a valle sulla scia di Mani Pulite, all’atto di valicare la soglia delle istituzioni importanti (il primo Governo Berlusconi) si identifica così nel grimaldello giuridico federalista, strumento salvifico del Paese e compromesso inevitabile per arginare il delirio creativo secessionista. A fine millennio assistiamo alla nascita dell’assioma riconosciuto ormai senza nemmeno più contraddittorio secondo cui “federalista è bello” sempre e comunque. L’accelerazione, ascrivibile in buona misura all’indignazione verso il potere centrale corrotto, fa seguito in realtà ad un dibattito tecnico lungo mezzo secolo.

Con la guerra ancora in corso ci si chiedeva quale fosse la forma di Stato ideale con cui configurare l’Italia del futuro. Già nel Risorgimento la domanda era stata la stessa. Strano a dirsi, era proprio una parte della Democrazia Cristiana, identificata nei 50 anni successivi col potere romano, a chiedere un assetto regionale e comunale per la Nazione (De Gasperi e Scelba su tutti, sulla scia del Partito Popolare di Sturzo). Finisce col prevalere un lungo sonno istituzionale e solo dopo quasi mezzo secolo dal mandato costituzionale, con l’elezione dei Consigli Regionali nel 1970 e la promulga degli Statuti nel 1971, le Regioni prendono vita. Il risveglio però, serve a poco. Al di là degli aspetti suggestivi delle identità regionali (tutti da comprovare e distinguere per la verità…) la riforma non cambia la natura della politica che gira e respira sempre e solo su Roma.

C’è voluta la rivoluzione del Titolo V Parte seconda della nostra Costituzione per provare davvero a cambiare le cose. La legge costituzionale n.3 del 2001 è la sublimazione del concetto originale di decentramento: i presidenti di Regione eletti direttamente diventano sorta di “Governatori” ma soprattutto si incide sulla potestà legislativa. Se fino al 2000 le Regioni hanno delle competenze specifiche e allo Stato spetta tutto il resto, con la riforma si ribalta il tavolo. Al comma 2 dell’art. 117 sono indicati i compiti dello Stato, al comma 3 quelli concorrenti (cornice a Roma e dettagli alle Regioni), al comma 4 si stabilisce che tutto il resto spetta proprio alle Regioni. Dal punto di vista concettuale prima ancora che pratico è una bordata tremenda all’idea di centralismo. L’articolo 114 equipara infatti anche sotto il profilo della dignità giuridica Stato, Regioni ed enti locali come soggetti costituivi della Repubblica. Si stabilisce quali siano le prerogative del potere centrale sul modello dei Paesi che adottano un federalismo autentico, cioè nato dal basso e con uno “Stato minimo”. Con un evidente allargamento della mansioni, si sposta il peso sugli enti territoriali con potere legislativo (le Regioni appunto) rispetto alle istituzioni nazionali. Teoricamente è un cambio importante che sulle basi delle peculiarità territoriali dell’Italia preunitaria sembra sganciarsi definitivamente da un approccio piramidale e centralista.

La realtà però spesso rema contro le intenzioni, presunte o reali che siano. Col tempo montano le critiche al nuovo modello fino ad identificare le modifiche al Titolo V come una delle peggiori riformecostituzionali possibili. Le critiche piovono da entrambi i lati: fautori e scettici dei modelli autonomisti battezzano la nuova struttura come “federalismo all’italiana”, una forma di Stato che rimane a metà tra i modelli costituzionali possibili, tale da non essere nei fatti né carne né pesce. Tant’è che nella definizione delle tipologie di Stato da manuale di Diritto Costituzionale, l’Italia rientra ancora tra gli Stati a base regionale, insieme in cui rientra anche la Francia, storico bastione del centralismo, dove le Regioni sono poco più di un’espressione geografica. Una vera traslazione sulla sponda federale insomma, non c’è mai stata. A vent’anni dalla riforma, nel tentativo di accontentare tutti, si è sortito anzi l’effetto opposto. Il modello attuale non piace né ai sostenitori dei modelli autonomisti né ai loro detrattori.

Cosa non ha funzionato? Le motivazioni del lamento generale sono tante e diverse. La riforma, sotto il profilo meramente giuridico, è obiettivamente una via di mezzo. Il nuovo policentrismo legislativo lascia allo Stato aree esclusive ben oltre quelle tradizionali dei modelli tipicamente federali. Molte materie oltre a quelle non decentrabili (moneta, politica economica, difesa e politica estera) rimangono comunque in capo a Roma. Solo per fare degli esempi, codici civile e penale rimangono unici; la sicurezza del territorio, al di là delle velleitarie polizie locali, rimane saldamente nelle mani del potere centrale; la responsabilità fiscale nonostante la riforma dell’articolo 119 della Costituzione rimane una creatura incompiuta.In altri termini, la riforma sul piano della sostanza c’è, ma fino a un certo punto. Proprio in virtù di questa “via di mezzo” che si è deciso di percorrere, nasce una criticità operativa nella gestione della Cosa Pubblica. Il nuovo impulso dato a istituzioni fino ieri dormienti non fa altro che moltiplicare le scrivanie spesso senza semplificare la macchina politico-amministrativa del Paese. Sulla falsa riga del dogma antiautoritario così importante per il Costituente, si aggira accuratamente ogni possibile dirigismo, lasciando operare spesso i soggetti istituzionali in parallelo con effettive complicazioni e lungaggini senza nemmeno il contrappeso di un potere centrale forte e snello. La procrastinazione di ogni proiezione presidenzialista ne è la prova tangibile. 

A questo appesantimento (non sempre si sa “chidere fare cosa”) si aggiunge la scarsa condivisione presso i cittadini delle riforme attuate. Per fare un esempio, nonostante le competenze degli assessori regionali oggi siano paragonabili a quelle di un ministro di livello locale, è probabile che la percentuale di liguri, pugliesi o abruzzesi consapevoli dei nomi e delle prerogative dei propri “governanti” regionali sia davvero esigua. Il vero federalismo del resto, inteso che spesso è connaturato a realtà geografiche mastodontiche e/o multinazionali (Federazione Russa, Stati Uniti, India, Brasile, Canada…), si attua sempre dal basso, seguendo la direttrice “da comunità locali a Stato centrale” e non viceversa. Le grandi diversità e le relative autonomie dei territori sono sempre bilanciate di solito da principi centrali rigidi e condivisi: una forte identità nazionale e un presidenzialismo rigido ne sono quasi sempre il collante. Laddove questo non succede e il federalismo diventa devoluto dall’alto, si configura una sorta di secessione parziale che risolve le magagne mettendoci un cappello sopra. È il caso dell’assetto federale del Belgio, impostato a posteriori per gestire i crescenti conflitti fra comunità fiamminghe e valloni. Con un po’ di cinismo si può dire che lo strumento federale di Bruxelles serve a tenere sospeso il dilemma storico dell’esistenza effettiva della nazione belga. In Italia dove, folclore a parte, le disomogeneità sono meno drammatiche che in Belgio, la virata federale diventa così una riforma, appunto… all’italiana.

Altro e decisivo fattore del sostanziale fallimento della ristrutturazione del Titolo V è la verifica alla prova dei fatti con particolare riguardo ad alcuni aspetti emergenziali, quando una risposta celere e risolutiva diventa doverosa, opportuna e molto sentita dai cittadini: protezione civile e salute pubblica su tutti. Proprio in campo sanitario, la nuova formulazione dell’articolo 117 prevede una legislazione concorrente fra Stato e Regioni nell’ambito della tutela della salute e lascia a Roma la definizione dei LEA (livelli essenziali di assistenza).  La pandemia a tal riguardo è stato un banco di prova non programmato ma decisivo: ha messo in luce ritardi e inefficienze del sistema sanitario su base regionale, evidenziando soprattutto una disomogeneità territoriale inaccettabileproprio in virtù del dettato costituzionale. La gestione delle erogazioni vaccinali ha accentuato ulteriormente la criticità. Il mix fra sovrapposizione burocratica e inadeguata risposta alle emergenze determina così l’inversione di tendenza. Il regional-federalismo esce dal glossario quotidiano e lentamente diventa meno popolare. Torna nell’alveo delle dizioni costituzionali-amministrative perdendo l’aureola di santità salvifica detenuta per trent’anni. Si passa sostanzialmente dal decentramento “bello per assioma”, al “bello se funziona”.

Giova dire a tale proposito che il contesto macroeconomico ha un peso rilevante presso la pubblica opinione. I fondi europei per la rinascita post-covid passano per gli Stati centrali a prescindere dalle loro articolazioni territoriali. Improvvisamente ci si ricorda che lo Stato oltre che necessario è anche utile e si smorza l’equazione centralismo-inefficienza. Quanto meno se ne parla meno. La Roma ladrona lentamente trasla in Roma erogatrice, da cui bene o male ricominciano a mangiare tutti. Curioso sottolineare come proprio l’Unione europea, attuale strumento indiretto del recupero dell’autorevolezza degli Stati, sia per definizione il nemico storico dei poteri nazionali. Da Maastricht in poi si assiste ad una costante legiferazione in tutta l’Unione a vantaggio delle autonomie locali, disegnando un orizzonte in cui il potere delle singole capitali si erode progressivamente: da una parte verso l‘alto a vantaggio dell’UE favorendo la supremazia dell’ordinamento comunitario su quelli nazionali; dall’altra stimolando proprio le devoluzioni verso il basso, verso i territori. L’azione, volta a depotenziare i singoli Paesi membri, insito nelle finalità stesse dell’Unione, sembra dunque segnare il passo. Gli Stati sovrani, ultimo ostacolo ad un’Europa politica e alla globalizzazione dei mercati, riprendono ossigeno con tutto il bagaglio di realtà che si portano dietro. Su tutti vale il sentito comune secondo cui il lavoro nello Stato e per lo Stato non sia più una scelta residuale e soggetta a biasimo, ma addirittura ambita (la rivincita del leggendario posto fisso).

Le crisi e le emergenze stravolgono assetti consolidati a quanto pare. Roma è tornata, dunque? Difficile quantificarlo. Certamente la città eterna e il senso dell’autorità ad essa storicamente legato hanno avuto nemici peggiori di qualsivoglia forma di devoluzione o ridimensionamento istituzionale. Il tempo, ancora una volta, le torna in soccorso. Per stanchezza, per inefficienze altrui o per semplice decorrenza dei termini, il Potere sembra ritornare nella sua culla naturale. Almeno per ora, la palla si rimette al centro.

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