OGGETTO: Una Siria mondiale a pezzi
DATA: 23 Aprile 2025
SEZIONE: Geopolitica
FORMATO: Analisi
La crisi siriana si sublima dopo cinquant'anni di regime baathista. La guerra civile continua a mietere vittime secondo principi politici, religiosi e settari che lasciano sul campo migliaia di caduti. Ma la geopolitica non si arresta, ed anzi ravviva l’instabilità di contesti ove tornano attori globali e regionali che si inquadrano in stilemi che sembrano rinnovare temi e dinamiche propri della Guerra Fredda. Ad un declinante Iran si contrappone una Turchia volitiva che, tuttavia, deve fare i conti con le asperità israeliane.
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Il collasso siriano ha confermato la sostanziale affinità della scoperta dell’acqua calda associata al dinamismo dell’ecosistema mediorientale. La regione, proprio come l’acqua, prende costantemente la forma del bacile in cui è versata, dove storia, religione ed ideologia ravvivano le lingue di fuoco di un incendio mai domo, che non conosce, né può farlo, una progressione lineare stabile, divampante in un ecosistema che trova nella precarietà la sua ragion d’essere; basta lo sbilanciamento del potere di Hezbollah in Libano, per creare uno squilibrio nell’intero sistema del MENA. Le relazioni internazionali siriane non fanno eccezione e, mercé il battage pubblicitario occidentale, sono riuscite a trasformare un atavico jihadista in tuta mimetica, in uno statista in giacca e cravatta, pronto a scuotersi di dosso la pur tenace polvere di Idlib. 

La Siria è pressata da Israele, votato al Golan ed alla protezione della comunità Drusa; è condizionata dai commerci che hanno il captagon quale centro attrattivo di interessi elevatissimi; è soggetta alle ormai attempate seduzioni ancirane. Sullo sfondo odi e vendette vecchie di decenni infrangono qualunque ostacolo, mentre gli Alawiti, secondo un copione privo di limitazioni confinarie, sono oggetto di una caccia genocida, nell’assordante silenzio della comunità internazionale. La pulizia etnica è ed è stata violenta, irrefrenabile, operata da milizie fuori da qualsiasi controllo. L’esultanza siriana post Assad richiama alla memoria l’euforia libica esplosa alla caduta di Gheddafi, poi disfatta e polverizzata da un conflitto che ha frantumato qualsiasi e pur primitiva forma di istituzione statuale coerente. Anche qui non si è poi così lontani dall’alveo del rivo delle possibilità, immaginando una Siria preda di lotte intestine e scorrerie operate dalle più disparate milizie; il pessimismo non è incongruo, se è vero che la Siria deve combattere contro asperità decisamente più ardue di quelle libiche. Tertium non datur, a Damasco o ci si schiera con il nuovo regime, o ci si dirige verso una restaurazione che non può che essere settaria e sanguinosa; non c’è alternativa: dirimere i problemi interni rimane l’obiettivo più critico per il nuovo regime. 

Con la caduta del cinquantennale regime baathista, Hayat Tahrir al-Sham ha inferto un durissimo colpo all’Asse della Resistenza, riuscendo ad introdursi con perizia nei varchi creati dalle conseguenze di un 7 ottobre che ha impresso un segno indelebile. La guerra siriana non ha di fatto mai trovato soluzione, con l’accordo turco-russo-iraniano che ha blindato la regione avendo nel settentrione il bastione curdo e, sullo sfondo, l’asimmetria tra Tel Aviv e Teheran, ravvivata dall’invasione libanese da parte di Tsahal. Ma tutto ciò che esaltava il sostegno sciita è stato violentemente depotenziato, con il ridimensionamento di Hamas e lo smantellamento di Hezbollah. Politicamente esiste un vuoto tra Iran-Libano-Siria, e nelle relazioni internazionali i vuoti, fisiologicamente, non sono ammissibili; tutto secondo dinamiche che si riverberano nel tempo, e che riportano alla memoria il golpe che, nel 1963, portò al potere il partito Baath in un Paese che, già allora, aveva fatto dell’instabilità la sua patologia cronica, conteso com’era tra Est ed Ovest.

Come allora, Damasco è al centro della ristrutturazione geopolitica mediorientale, prodromica alla nuova ed imminente guerra fredda sino-americana. Il passato, storicamente nobile e glorioso, non ha fatto guadagnare alcun riguardo per Damasco, punto obbligato di transito tra Anatolia e Mecca ed eterno crocevia di conflitti, come quello che nel 1516 ha incoronato la Sublime Porta ottomana, mai davvero persuasa nel lasciare la briglia sciolta ai suoi vilayet, piegati solo dopo secoli dalle forze imperiali britanniche, precedute dalle truppe arabe di Amir Faysal I ibn Hussein del Hijaz, effimero monarca siriano dal 1920; un re che, costretto a deporre la corona per lasciare spazio alle truppe francesi operanti su mandato della SdN, che trovò corona e scorta con l’indennizzo del trono iraqeno. L’Impero Ottomano ha governato la Siria per quattrocento anni, estendendo la propria influenza sugli odierni Libano, Israele, Giordania; come non comprendere Ankara, preda di un ingannevole onirismo imperiale. Di fatto, è la Grande Siria ottomana quella che si estende fino alla Terra di Israele, una creazione geopolitica bramata dalla Turchia, ma che deve confrontarsi con lo storicismo persiano secondo stilemi che fortificano una realtà confinaria a suo tempo stabilita da Sykes-Picot, forse ignari delle conseguenze della loro cartografia. Del resto, è la terra delle 1000 e una notte: i sogni non svaniscono, al limite aleggiano, anche se oggi le loro spire devono confrontarsi con le rocciose aspirazioni ebraiche. 

L’Hay’at Tahrir al Sham, dopo una fulminea conquista coincisa con la tregua tra Israele e Hamas, ora deve gestire uno Stato lacerato da anni di guerra civile, passando dal jihadismo all’islamismo politico, teso a conservare il potere in una Siria che, nella sua novità, risulta tuttavia poco presente nell’immaginario di una società poco incline alle acrobazie dialettiche. HTS si è gradualmente evoluta da fazione di lotta e salafismo a partito in cui l’aspetto del governo, tecno-islamista-presidenzialista senza bilanciamento assembleare, assume una rilevanza inedita secondo un’adattabilità che procede pragmaticamente in senso top down, e che intende integrare le minoranze rassicurando gli osservatori esterni. Ma chi dovrà tranquillizzare coloro che, dal 2011, auspicavano una rivoluzione democratica, dopo 50 anni di regime? 

Gli scontri a Latakia e Tartus hanno contemplato non meno di millecinquecento morti, in gran parte alawiti, ingenerando così il convincimento che la nuova leadership abbia inteso punire la popolazione civile, rimarcando un’incapacità governativa volta sia a pacificare le aree popolate dalle minoranze etniche, sia a gestire le relazioni settarie. Nel frattempo è stato sottoscritto un accordo tra Stato e Forze democratiche siriane curde (SDF), che implica il riconoscimento dei curdi come parte integrante dello Stato siriano. Poco dopo aver raggiunto l’intesa con i curdi, al-Sharaa ha aperto ai negoziati con i Drusi del governatorato di al-Suwayda, secondo dinamiche che vedono la compartecipazione del libanese Walid Jumblatt, in competizione con il leader spirituale della comunità drusa israeliana, lo sceicco Mowafaq Tarif. Intanto, togliattianamente e con pragmatica preveggenza politica, al Bashir, ex premier a interim, si è materializzato al dicastero dell’energia, garantendo con altri due ex assadisti, una continuità volta a scongiurare il reiterarsi dei drammatici collassi iraqeni, indotti da distorsioni cognitive a stelle e strisce. È un governo di transizione fondato su compromessi pragmatici in contesti fragili, ma rimane l’unica soluzione possibile per rispondere alle emergenze più immediate, senza contare la necessaria riedificazione infrastrutturale e la ben più complessa riesumazione di un’economia il cui PIL è sceso da 37,1 miliardi di dollari nel 2022 a 29,3 nel 2024. Nel 2010 le stime del FMI indicavano un ammontare del tesoro dello Stato pari a 18,5 miliardi di dollari; oggi sembra non arrivino a 200 milioni, a cui vanno aggiunte 26 tonnellate di oro (presunte), equivalenti a circa 2,2 miliardi di dollari. La parola d’ordine è: governabilità, ma con un ritorno alla costituzione del 1950 ed all’uso giurisprudenziale islamico,pur concedendo libertà di credo affine alla libertà individuale di coscienza come intesa estensivamente dal termine i’tiqad.

Il conflitto post-Assad ha di fatto assunto le sembianze di una competizione multilivello, dove molteplici attori, istituzionali e non, animano la contesa per la conquista degli spazi di potere; in questo senso la teoria dei giochi può decrittare le posture strategiche adottate dai soggetti politici coinvolti, visto che il concetto di Equilibrio di Nash conduce a considerare come ogni attore cerchi di massimizzare i propri vantaggi, nella considerazione delle scelte altrui. I giochi iterativi, dove ogni decisione incide sulle mosse successive, emergono nelle dinamiche regionali; ogni passo compiuto crea opportunità e rischi, dove alleanze aleatorie trasformano la Siria in un maelstrom di instabilità geopolitica. Tre i possibili scenari: una frammentazione prolungata con divisioni in zone d’influenza con attori esterni; un consolidamento costante con una lenta stabilizzazione negoziale; un’escalation regionale foriera di ulteriori conflitti. In quest’ottica, diventa più comprensibile sia la presenza militare israeliana con un auspicato rafforzamento delle iniziative diplomatiche, sia il dialogo strategico con la Turchia, mentre Teheran da un lato apre a nuovi legami politici e dall’altro si concentra sulla creazione di centri di potere alternativi in regioni ad alta valenza strategica. Se il massacro alawita consente all’Iran di sfruttare le divisioni settarie è pur vero che, al contempo, Teheran si è proposta come attrice capace di impegnarsi con i curdi quale bilanciamento alla pervasiva presenza turco-israeliana. Se i negoziati condurranno ad una revisione peggiorativa dell’autonomia curda, Ankara, traguardando le elezioni del 2028, potrebbe rivendicare un significativo successo politico interno. 

All’indomani del collasso del regime baathista, le forze corazzate con la Stella di Davide, hanno oltrepassato le alture del Golan, estendendo il controllo su una zona d’interposizione nella Siria meridionale, misure precedute dall’affondamento della flotta siriana, con l’occupazione del Monte Hermon, a 60 km da Damasco. Israele ha impietosamente chiarito che, mai e poi mai, permetterà che la Siria del sud si trasformi in una riedizione del Libano meridionale, una postura che chiarisce le motivazioni del bombardamento israeliano della base di Tiyas (T4), dove Ankara intende stanziare una struttura militare permanente. Superfluo dire che entrambi i Paesi puntano al mantenimento in un limbo di una Siria debole e frammentata, cosicché qualsiasi accordo, per quanto provvisorio, possa sempre garantire i reciproci interessi. Facile immaginare che, come anticipato dal Jerusalem Post, Ankara e Tel Aviv stiano effettivamente negoziando in Azerbaigian, secondo una linea che privilegia la più proficua politica delle telecamere spente, per creare una procedura di coordinamento che allontani il rischio di escalation, con l’incentivazione di dinamiche che consentirebbero una troppo pervasiva presenza turca in forma di pseudo protettorato. 

A fronte dei caveat israeliani, laddove la Siria consentisse l’accesso a forze ostili allo Stato ebraico, Erdoğan desidera capitalizzare gli investimenti effettuati sulle forze che hanno rovesciato il governo Assad. Il neo ottomanesimo ancirano rafforza dunque interessi strategico-energetici tuttavia in contrasto con gli obiettivi di Tel Aviv, impegnata nella sua avanzata in Siria. L’esplosivo messaggio israeliano a Tiyas ed il probabile intervento americano, hanno fatto sì che Erdoğan ponderasse una revisione dei progetti posto che, anche alla luce di una fin troppo fluida situazione economico-politica interna, sembra evidente, al netto della retorica, uno scarso appeal guerresco vs Tsahal. Insomma, ad una contrazione russo iraniana dovrebbe corrispondere un’influenza turca a nord, il perdurare non privo di attriti di un’autonomia curda in aree già oggetto di influenza, un meridione sotto controllo israeliano, ed il centro ovest nelle mani del governo di transizione. La posta in gioco per Ankara, in concorrenza con una fiaccata Teheran ora tentata dalla valutazione delle proposte nucleari americane, è comunque alta e soggetta alle interdizioni israeliane a sostegno di curdi e drusi: la stabilità siriana non passa per un gioco a somma zero, ma attraverso una cooperazione sicuramente non amichevole ma pragmatica, la stessa che potrebbe animare i rapporti con i Paesi del Golfo, sì ricchi di risorse, ma scettici, eccezion fatta per il Qatar, circa l’ideologia repubblicana e islamista del nuovo corso siriano, e comunque interessati al depotenziamento sciita. 

L’influenza israeliana si è accresciuta mentre quella iraniana si è erosa, scatenando infinite querelle su sovranità e politica nei Paesi del Levante, coinvolti altrimenti nelle proiezioni israeliane o neo ottomane. Di fatto, la Turchia sfrutta l’instabilità damascena per raggiungere i propri obiettivi strategici, che contemplano il contenimento curdo e l’espansione dell’influenza regionale anatolica nel mondo islamico. Le posizioni verso Tel Aviv non sono ancora chiare, ma non c’è dubbio che sia troppo pericoloso lasciare che le armi rimangano disponibili, aspetto che va associato al controllo curdo del confine siro-libanese, gradito da Israele, proteso a prevenire il contrabbando di armi iraniane verso Hezbollah. Rimane il fatto che Ankara confida nel suo potere specialmente al nord, mirando a trasformare la Siria in un satellite alla stessa stregua della Repubblica turca di Cipro nord, magari spingendo per un’alleanza militare ancor più vincolante con il nuovo regime. Il concetto neottomano dell’AKP, almeno nelle intenzioni, punta al ripristino dell’influenza regionale in aree di passata pertinenza imperiale e dove, in concreto, Russia e Iran hanno fallito; la proiezione turca va oltre la questione palestinese, benché risenta ancora delle mai assunte responsabilità per il genocidio armeno. I rischi incombono su tutti gli attori; per Israele, in questo nuovo contesto, sussiste la minaccia della presenza di una forza sunnita sui confini; per detenere il controllo su un’area strategica come quella delle alture del Golan, punto di osservazione privilegiato su vicini inquieti, Tel Aviv ha lanciato la campagna aerea Freccia di Bashan, che ha distrutto il 70% delle infrastrutture strategiche di Damasco. L’Iran, al momento il vero perdente della competizione, ha visto crollare il corridoio terrestre pro Hezbollah. Un definitivo ingresso turco sul proscenio sancirebbe la perdita ultima della Siria come partner iraniano; le rivalità tra gli attori siriano, turco, israeliano, iraniano, non potranno che acuire l’instabilità, anche alla luce dell’intento ancirano di rinnovare, per quanto possibile, i fasti ottomani a suo tempo sviliti dagli accordi di Sykes-Picot e dalle successive vedute d’insieme del Presidente Wilson.

In cauda venenum, ultime note geopolitiche. La Turchia di fatto torna a minacciare l’esistenza dell’amministrazione autonoma a maggioranza curda a nord est, da inquadrare alla luce sia degli appelli al disarmo lanciati da Ocalan, sia del prevedibile disimpegno americano, sia del sostanziale supporto israeliano che potrebbe provocare una rinnovata presenza anatolica nella Siria meridionale, luogo d’elezione gerosolimitano. Problema da non sottovalutare, le divisioni interne tra le fazioni curde ed il sostegno offerto da Tel Aviv a formazioni curde nel nord iraqeno che si oppongono alla resistenza. Da notare come viga ancora il principio israeliano della politica periferica basata sulla ricerca di amici non arabi, che infrangano il cerchio ostile dei vicini; ecco dunque che tornano in voga drusi e curdi, poco intenzionati a deporre le armi laddove privi di adeguate garanzie. L’ultimo attore rimane dunque l’esecutivo damasceno, ondeggiante, sostanzialmente ancora indefinibile, in una situazione complessiva che esalta un costante stato di caos controllato.

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