OGGETTO: Il sultano ad un bivio
DATA: 31 Marzo 2025
SEZIONE: Geopolitica
La Turchia vive l’ennesimo momento di crisi interna, così violenta da riverberarsi veementemente anche verso l’esterno. Il tempo, a fronte di politica e cultura, non ha mitigato le pulsioni politiche neo ottomane, ancora avvinte ad un Gazi forse mai davvero morto, così come ad un deep state ancor più forte e pervasivo. Per Erdoğan questo è il momento della verità contro il kemalismo della piazza e di Ekrem İmamoğlu.
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Che il 2025 sarebbe stato un anno politicamente coinvolgente lo si era inteso con largo anticipo, ma che potesse sensibilizzare così tanti punti di faglia riveste il carattere della più preziosa unicità; un interesse tenuto peraltro desto da avvenimenti geopoliticamente contigui. L’elemento catalizzante, quale evergreen da ascoltare con immutato piacere e con tutti gli scricchiolii più polverosi, è ancora una volta quello elettorale. La forza detonante delle urne, tornata a farsi avvertire prima in Francia poi in Germania, si palesa chimicamente così instabile e temibile da sommuovere, sia pur con largo anticipo, anche gli orizzonti neo ottomani. L’immagine di un pokemon, l’elettricamente dolcissimo Pikachu, in fuga per vie e piazze sotto un diluvio di prosaici proiettili di gomma e nodose manganellate, getta un’aura di irridente paradossalità specie quando proiettata verso la pretesa sacralità dell’immagine di un leader che, a dispetto del tempo che pure solca il suo volto, intende lasciare ad altri il logorio di un potere da cui da più di venti anni si fa passionalmente avvincere. 

Che gli orizzonti politici anatolici stessero mutando, lo si era già avvertito con il crollo dell’istituzionale AKP agli ultimi suffragi amministrativi dove, in competizione con l’alternativa laica ostènsa dal CHP, tutt’ora imputato di indurre un ignaro elettorato a dirigersi verso pericolosi cul de sac, hanno (ri)cominciato a far capolino gli estremismi

Gli eredi (politici) di Atatürk non solo sono riusciti a riconfermarsi alla guida delle amministrazioni di Istanbul, Ankara, lungo le coste egee, ma hanno anche ottenuto inattesi successi in zone di tradizionale appannaggio erdoganiano; inevitabile lo squillo imperioso di centinaia di campanelli d’allarme protesi a lacerare l’aria immota anche nelle più remote stanze del palazzo presidenziale di Beştepe, quali prodromi allarmanti della minaccia di un temuto ed imprevisto regime change capace di incutere un ragionevole terrore per i possibili esiti del voto presidenziale del 2028. 

Se al momento Erdoğan non può (ancora) presentarsi per ottenere l’ennesimo mandato, non essendoci ancora stata peraltro alcuna trasmissione in via dinastico-secolare dei poteri ad un sicuro e rampante delfino, è già palmare che da parte kemalista sarà Ekrem Imamoğlu il candidato del secolare e nazionalista CHP. Forse

Dopo la sconfitta elettorale di misura del 2023, Özgür Özel, succeduto a Kemal Kılıçdaroğlu, sconfitto nelle ultime consultazioni presidenziali ed estromesso dall’ala riformatrice dei giovani turchi del partito, avrebbe dovuto lasciare le redini all’attualmente detenuto Imamoğlu, non a caso provvidenzialmente privato del titolo accademico indispensabile per l’elezione alla massima magistratura dello Stato. Come spesso già avvenuto, le elezioni, presidenziali, amministrative, primarie, hanno stigmatizzato un punto di svolta, evidenziando una polarizzazione dei suffragi e l’ascesa di una pars construens nazionalistica e religiosa che, eteree trascendenze a parte, nulla ha comunque potuto contro una crisi economica tentacolare. 

İmamoğlu, forte dello slogan andrà tutto bene, infangato dalle accuse di corruzione e connivenza con la resistenza curda, ha tuttavia infiammato la piazza riuscendo a suscitare un’ondata di proteste così vibranti da contribuire ad intaccare il tasso di sconto della lira, cosa che induce a ritenere che un Reis troppo sicuro di sé, possa aver dato credito al convincimento che il lato oscuro avrebbe prevalso rapidamente e con contenuto sacrificio, confidente nell’effetto Trump, assurto ad entità transatlantica capace di rendere immuni a condanne sì internazionali ma come tali considerate a tutti gli effetti meramente simboliche. Da quando Imamoğlu è stato preso in custodia, per cercare di stabilizzare la valuta, la banca centrale ha bruciato in appena 72 ore circa il 79% delle riserve valutarie estere accumulate in un anno. Del resto il Sindaco è l’attore più carismatico sul proscenio politico turco, l’unico ritenuto in grado di sconfiggere Erdoğan ad un eventuale ballottaggio, anche perché capace di coagulare e depolarizzare elettorati altrimenti ideologicamente frammentati.

La politica turca si rafforza dunque nella sua instabilità, crogiolandosi nella pretesa dell’ottemperanza ai precetti impartiti dalla riforma costituzionale del 2017 che, di fatto, ha amplificato i poteri di Erdoğan, desideroso di accompagnare in fretta ad una nullificante e polverosa eternità il Gazi Atatürk, ma in cerca di sostegno (udite! udite!) dall’arcinemico curdo del PKK, ed alle prese con un irrisolvibile confronto con l’UE. Prendendo a paradigma l’universo favolistico, Erdoğan ha cominciato probabilmente a scorgere in uno specchio magico ma disattento, un antagonista temuto perché percepito come troppo simile a sé, capace di fare in modo che ogni accusa surrettizia mossagli trovi un ritorno amplificato, esatto e contrario, come quello generato dall’arresto del legale di Imamoğlu, Mehmet Pehlivan e dall’autocratico e violento controllo del dissenso. Un Reis che si credeva prossimo all’eternità, guardando al suo passato, comincia forse a percepire l’arresto del suo giovane antagonista come un errore, come l’improvvida offerta di un viatico per una non desiderata santificazione politica unta dalla sacralità di un’ingiusta detenzione nel penitenziario di Silivri, abominio che già fa gridare al golpe civile. Il fatto che Imamoğlu, laddove non privato definitivamente del diploma di laurea, sarà lo sfidante del Reis, deve far rammentare che il 23 marzo non meno di 15 milioni di votanti, di cui soltanto il 10% iscritti al CHP, con le consultazioni primarie hanno conferito la consacrazione politica al sindaco di Istanbul, in carica dal 2019 malgrado i molteplici lacci e lacciuoli

Roma, Febbraio 2025. XXIV Martedì di Dissipatio

I tumulti di piazza hanno costituito il naturale epilogo di questo che si presenta come il prologo di un’inedita vicenda politica ottomana; a Istanbul, dove il governo ha sciolto il consiglio esecutivo dell’Ordine professionale dei legali, migliaia di persone hanno avuto il Coraggio, ribadiamo, il Coraggio con la maiuscola, di sfidare ogni restrizione nel tentativo di raggiungere Piazza Taksim, luogo d’elezione della resistenza, con Gezi Park e Piazza Saraçhane, mentre ad Ankara la polizia ha utilizzato anche idranti e proiettili di gomma. Nel mentre, l’opposizione si è appellata al temibile boicottaggio di prodotti ed attività ritenuti di marca governativa. 

La reazione del consesso internazionale è stata particolarmente cauta, 2016 docet, e solo pochi governi non hanno mostrato remore nell’esprimere le loro perplessità, mentre gli USA valutano tutt’ora l’accaduto, cominciando a manifestare preoccupazioni, specie dopo l’incontro tra Marco Rubio e Hakan Fidan. Non c’è dubbio che Erdoğan abbia puntato a sfruttare la valenza strategica turca, con la NATO che considera Ankara alleato indispensabile ma difficile, specie alla luce della complicatissima gestione della passata querelle scandinava. Il silenzio occidentale, di fatto, soggiace ad una scelta imposta da interessi geopolitici capaci di legittimare silentemente la repressione del Reis, sempre più desideroso di intestarsi ai confini una nuova marca turco-siriana, incarnante ridestate visioni neo ottomane. 

Non c’è dubbio che il governo turco abbia reso sempre più usuali i suoi violenti giri di vite, a cominciare da Gezi Park, passando per il tentato golpe del 2016, fino a giungere alla repressione permanente dell’insorgenza curda e dei movimenti di sinistra. Anche il partito curdo Dem ormai parla apertamente di un colpo di stato civile realizzato da governo e magistratura e paventa il fallimento del negoziato tra il PKK e lo Stato. Quanto pesa il deep state, eterno moloch politico turcoMolto. Se è vero che Erdoğan è necessario al sistema di potere post 2016, è altrettanto vero che il costo della detenzione di Imamoğlu può diventare insostenibile. Devlet Bahçeli è il tessitore, neanche troppo occulto della trama ancirana, che vuole Erdoğan al potere fino al 2031, sfruttando le distrazioni americane e la riscoperta europea della funzionalità turca a fini anti russi. Questo, almeno fino al piccolo crack finanziario determinato dalla detenzione di Imamoğlu, involontaria causa dell’arresto della decrescita dei tassi di interesse. 

Bahçeli è conscio non solo del disdicevole fatto che il governo non gode né godrà più del consenso popolare più o meno incondizionato finora fruito, ma anche di poter giocare al rilancio continuando a rimanere al potere pur senza Erdoğan, visto che il CHP può avvalersi di una presenza politica interna agli apparati del potere e che l’innocente ma ingiustamente vessato İmamoğlu potrebbe costituire il passe partout utile a spalancare le porte dei palazzi del potere, mercè l’acconsenziente permesso del deep state; un abisso politico cui anche il Reis deve render conto per consegnare il legato imperiale ad Hakan Fidan, uomo dei servizi, politico abile e, particolare non trascurabile, di padre curdo. Di chi fidarsi in uno Stato dove il parametro di riferimento rimane ancora il Gazi Mustafa Kemal? L’arresto del sindaco di Istanbul Imamoğlu costituisce sia il punto di svolta politico della Turchia, sia il contestuale consolidamento dell’autoritarismo governativo capace di porre politiche interne e dinamiche internazionali su un sentiero impervio e privo di possibilità di ritorno. 

Le proteste in corso appaiono trasversali data l’eterogeneità dei partecipanti, favorita dalla degradazione delle condizioni economiche e dal sempre più diffuso malcontento alimentato da un livello di autoritarismo sempre più elevato. Nel momento in cui la mobilitazione sociale del CHP porta una minaccia esistenziale al cuore dell’esecutivo, avvinto alla sua rodata strategia del divide et impera, i rischi connessi all’alterazione dello stato di diritto hanno spinto i kemalisti a convocare un congresso straordinario per il 6 di aprile, volto a sventare la minaccia della mancata validazione delle primarie. Gli sviluppi della situazione si avvicinano sempre più ad un apparente punto di non ritorno, che trascende il contesto interno. Da Bruxelles le critiche rimangono condizionate dal rilevante ruolo rivestito dall’apparato industriale turco inserito nel contesto del piano di riarmo europeo, ma senza dimenticare né le difficoltà politiche indotte dalla deriva autoritaria, capace di compromettere le relazioni economiche con i paesi dell’UE, né il ridimensionamento della credibilità di Ankara in qualità di mediatrice politica sui fronti ucraino e siriano. 

La situazione rimane aleatoria, in un precario gioco di equilibri in cui è lecito attendersi che la Turchia vivrà ancora una paralizzante incertezza, con un regime in calo di consensi e che cerca di sopravvivere aprendo al PKK, variabile capace di far saltare il banco con un gesto inconsulto, puntando sull’identità religiosa e sulla riconquista di Iraq e Siria settentrionali. Di fatto la Turchia è un esempio di regime autoritario competitivo, in cui l’abuso del potere da parte governativa sposta l’inclinazione della competizione a suo favore. C’è da comprendere se l’azzardo repressivo di Erdoğan avrà successo o se la pressione interna ed internazionale costringerà ad un’inversione di rotta. Se il regime può contare nel permissivismo internazionale associato all’influenza esercitata sulle istituzioni, c’è tuttavia da considerare la portata delle proteste di massa che hanno colto d’infilata il regime turco. Pikachu compreso.

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