OGGETTO: Il fiato del nemico - atto terzo
DATA: 14 Novembre 2020
SEZIONE: inEvidenza
Il Nagorno-Karabakh, enclave armena in territorio azero, è ritornato ad essere il centro della disputa fra Armenia e Azerbaijan.
VIVI NASCOSTO. ENTRA NEL NUCLEO OPERATIVO
Per leggere via mail il Dispaccio in formato PDF
Per ricevere a casa i libri in formato cartaceo della collana editoriale Dissipatio
Per partecipare di persona (o in streaming) agli incontri 'i martedì di Dissipatio'

C’era una volta in Armenia una rivoluzione, e questa rivoluzione portò al governo un certo Pashinyan togliendo di mezzo l’allora filo-russo Karapetyan che si diceva essere troppo corrotto, dipendente, una pedina nelle mani di Putin. E tutti furono felici, il paese si riappropriò della speranza e iniziò un’era che avrebbe potuto restituire all’Armenia la fierezza di popolo forte e indipendente al pari di molti altri. Oggi, però, a quasi due mesi dalla fine dell’ennesima guerra in Nagorno-Karabakh, le folle si sono riversate nelle strade, seguite dal grido “Pashinyan, vattene”! Sembra allora ripetersi la maledizione della politica, sempre fragile, corruttibile, infedele al proprio popolo. Ma questa volta il motivo di tanto rigurgito è un altro, ed è celato dietro la morte di 2000  soldati (età media 20 anni) e 50 civili nel recente conflitto che si è consumato a 300 km da Yerevan e che a detta di molti è durato poco, “troppo poco” secondo i cittadini più complottisti. Molti infatti, alla luce di un armistizio mediato dalla Russia e siglato da Pashinyan per porre fine alla guerra (che tradotto in altri termini equivale ad una resa a tutti gli effetti) sono convinti che il primo cittadino abbia deciso troppo in fretta le sorti del conflitto e di fatto “venduto” i 3/4 del Nagorno-Karabakh senza opporre la necessaria resistenza di cui il paese sarebbe stato capace. Pashinyan, da trofeo della rivoluzione, rischia di diventare così un infame impostore a cui molti, oggi, vorrebbero tagliare la testa (il presidente dell’assemblea nazionale le ha già prese). La guerra è iniziata il 27 Ottobre 2020 e si è chiusa il giorno 10 Novembre 2020 con la stracciante vittoria di azeri, turchi e perché no anche russi che pure, senza troppo rumore, avranno il loro smagliante introito.

In questi giorni le canzoni che passano in radio nei taxi di tutta Yerevan sono canzoni patriottiche di una tristezza feroce, straziante, velenosa, che morde il collo e nutre il presentimento degli armeni di essere soltanto un popolo sfortunato, solo e incompreso; Una nazione che sogna di essere altrove, in un’altra geografia.

Con la resa siglata all’una di notte del 10 Novembre e la caduta di Shushi si chiude di fatto il conflitto nel Nagorno-Karabakh, una enclave poco conosciuta la cui storia è un caos che si perde fra armeni, Urartu, Argishti, Tigran, persiani, arabi, romani, albanesi del Caucaso, santi, comunismo, leggende, e dove è meglio non invischiarsi pena la maledizione di qualche lamassu mesopotamico. Pashinyan ha descritto la decisione come “estremamente dolorosa e necessaria”, facendo riferimento all’incapacità del paese di affrontare una guerra contro un nemico più armato e più ricco; Un’ora dopo la diffusione della notizia centinaia di cittadini hanno buttato giù il cancello del palazzo governativo e assalito l’aula parlamentare con megafoni e bandiere minacciando una nuova rivoluzione e piangendo l’inutile morte di tanti giovani volontari (le cui foto sono incollate in tutta la città). Pashinyan, dallo schermo, si difende ammettendo di aver agito per il bene dei suoi uomini e di aver evitato un accerchiamento che sarebbe sfociato in un massacro, e poi ancora in un altro massacro. Parafrasando si è voluto evitare il peggio del peggio. Ma cosa era peggio? Accettare la guerra, il male minore. Il peggio del peggio sarebbe stato continuarla, portarla fino in fondo. Quale fondo? Ah, ma come avrebbe reagito il popolo (specialmente il più nazionalista) se Pashinyan avesse deciso di non affrontare la guerra fin da subito? Con due calcoli si capisce che le scelte erano molto poche.

“Manifestanti chiedono le dimissioni di Pashinyan la mattina del 10 Novembre davanti al palazzo del parlamento, Yerevan”

Adesso gli accordi parlano chiaro, tre quarti del Nagorno verranno consegnati agli azeri sotto la supervisione delle forze di pace russe che hanno già preso il loro posto sugli spalti delle montagne attorno a Stepanakert e nel corridoio Lachin (e dove resteranno per almeno 5 anni con proroga di altri 5). La restante misera parte sarà a disposizione dell’Armenia per permettere il rientro degli sfollati ma dovutamente accessibile anche ai cittadini azeri che saranno liberi di circolare ovunque e metter su famiglia in qualsiasi angolo decidano sia il nido migliore. In questo modo forse l’Azerbaijan si aspetta di controllare il trancio restante sfruttando il potere moltiplicatore di madre natura.

Per gli armeni però l’aspetto più agghiacciante sembra essere il punto secondo cui all’Azerbaijan verrà concesso anche un collegamento diretto con il Nakhchivan (e quindi, ovviamente, con la Turchia) attraversando direttamente il territorio armeno sotto la sorveglianza di guardie di confine russe (una vera e propria cicatrice geografica che taglia in due l’Armenia). Un dato, questo, che ha fatto ribollire il sangue dei più nazionalisti e agitare il nichilismo dei più intellettuali dando sfogo alle teorie più apocalittiche e disponendo il seme di una lontana ma ancora probabile guerra civile. Considerando l’inferiorità militare armena che ha di fatto sofferto perdite di gran lunga maggiori rispetto alla controparte azera, l’accordo di pace mediato dalla Russia è stato comunque un “salvagente” offerto in mare al momento giusto. Inoltre, sebbene i due vincitori de-jure sarebbero rappresentati da Turchia e Azerbaijan, nei fatti la Russia non sembra concedere ai turchi alcuna possibilità di presenziare al monitoraggio dell’area né di influire al tavolo delle trattative.

Oltre a ciò, in questi giorni, emergono paure ataviche legate a vecchie discordie religiose. In Armenia si teme per le sorti del monastero di Dadivank e della cattedrale di Shushi che nessuno vorrebbe vedere riconsacrati in moschea. Si teme per i rapporti che gli sfollati armeni, una volta rientrati a Stepanakert, avranno con i futuri vicini azeri. C’è chi incendia i propri immobili per evitare di consegnarli al nemico. Si ha paura di venire schiacciati da est e da ovest mentre i rapporti con la Georgia a nord sono esasperatamente peggiorati (la Georgia viene accusata di aver reso possibile il transito di mercenari jihadisti diretti in Azerbaijan). A sud però qualche speranza persiste.

In tutto questo Lavrov preme per coinvolgere l’UNESCO al fine di assicurare la salvaguardia dell’eredità culturale del Nagorno-Karabakh durante le fasi di assestamento. Ma la cosa sinistra e stridente e che già, sui social, si intravede il sibilo nervoso di chi legge il futuro e intravede, come una vecchia strega nella sfera di cristallo, l’esplosione che darà vita al prossimo conflitto vendicatore.

I più letti

Per approfondire

«La Russia non necessita di nessuna alleanza: le questioni cruciali per il suo futuro sono di carattere interno». La valutazione di Timofej V. Bordačёv

Intervista a tutto campo con il politologo russo, esponente di spicco del Club Valdai, sulle potenziali prospettive che attendono Mosca nelle relazioni con le altre potenze, regionali e non.

Spazio traumatico postsovietico

Con TraumaZone, Adam Curtis invita a rivivere il devastante collasso dell’URSS (e della democrazia) per arrivare a comprendere, di riflesso, la Russia attuale.

Oriente e destino

L'ultimo libro di Salvatore Santangelo è un viaggio alla ricerca delle origini e delle ragioni della guerra sulle pianure ucraine. E la destinazione finale è il futuro.

A Nord di Putin

Viaggio in Čukotka, l’estremo oriente russo. Tra centrali nucleari trasportabili, miniere d’oro, e la lenta agonia dei mandriani di renne. Dialogo con Marzio G. Mian

TrumpAmerica – Atto terzo

Si avvicina il fatidico 3 novembre ed è giunto il momento di fare un bilancio complessivo di quattro anni di presidenza Trump. Cerchiamo di capire quali risultati sono stati raggiunti in politica estera, ossia di rispondere alla domanda: l'America è stata resa di nuovo grande?

Gruppo MAGOG