“Pasolini non si sarebbe mai inquadrato negli schemi del politicamente corretto lui militava per la sua verità, sempre libero, controcorrente, corsaro e luterano”.
Pasolini resta una forza del passato, il custode di un mondo divo e perduto, crudele e vitale, di cui fu l’ultimo cantore e testimone. Un mondo ciclico, eterno, primordiale, di una provincia originaria lontana dalle messe in scena della vita borghese, da un’esistenza retorica e formale in nome del regno dei paletti di gelso, delle nenie contadine, delle borgate violente e sanguigne ritratte nelle sue opere. Un paradiso lontano che andava protetto dalla civiltà dei consumi, che invadeva quei luoghi e quei riti in odore di pubblicità, non attraverso divise o popoli in armi, ma tramite le folle solitarie delle metropoli, i neon accecanti dello spettacolo. Contro quel mondo insonne e frenetico Pasolini si fece il guardiano del sonno, dell’atemporale eternità delle sue piccole patrie, riscoprendo in antitesi alla lingua burocratica e mediocre diffusa dalla televisione, l’antica dignità del dialetto ripulito dal folklorismo e la purezza della parola alta e raffinata, svecchiata dalle pose delle accademia, combinandoli in una lingua nuova, vitale, rivoluzionaria, capace di far brillare le lucciole delle campagne contro le luci delle città, i riti del mondo popolare contro la religione della società opulenta. Un compagno di strada eretico, polemico e corsaro del Patito Comunista e del movimento autonomista friulano. Luterano, rivoltoso, fu il contestatore globale anarchico e apocalittico del 68, dei falsi miti del progresso del nuovo fascismo consumista e del vecchio sconfitto, della vita borghese, dei colonnelli clericali del potere. Ma Pasolini non è solo lo scrittore corsaro contro il potere per il mondo contadino. Fu anche l’autore del grande commiato funebre della provincia sacra e originaria, delle litanie dei vinti del genocidio culturale, che poi furono raccolte ne La nuova gioventù, in cui l’eden contadino si trasforma in una waste land prosciugata da sogni e vitalità, dove il progresso e i suoi intellettuali progressisti hanno svegliato quelle terre dal loro sonno e non gli resta altro scandalo che affidare quella sua eredità di disperazione e sacralità a Fedro, il ragazzo fascista di Saluto e augurio, a cui affida il suo testamento: “Difendi, conserva, prega”. Scandaloso, irriconoscibile, tormentato Pasolini resta un poeta maledetto in un secolo in cui sono maledetti la poesia e i poeti, come ha scritto nel suo necrologio Rodolfo Quadrelli, un uomo del popolo e del passato in una società di monadi consumiste dell’eterno presente.
Per ricordare questo grande cattivo maestro oltre le maschere farsesche dei suoi ierofanti abbiamo intervistato Alessandro Gnocchi, autore di “PPP. Le piccole patrie di Pasolini” (edito da “La Nave di Teseo”). Un itinerario straordinario nei luoghi della mente dell’autore del Pianto della scavatrice che porta l’autore a ricostruirne la vita tramite l’evocazione dei luoghi della sua infanzia cremonese, della formazione a Bologna, delle esperienze nel lodigiano e della permanenza a Casarsa. Luoghi che come sottolinea Gnocchi “hanno un profondo significato esistenziale, culturale e politico. Le piccole patrie sono la verità della vita, della lingua, dei rapporti sociali”. Una ricerca di un Pasolini sconosciuto in cui Gnocchi riscopre le sue piccole patrie, da Cremona al lodigiano, ultimi scenari di quel mondo piccolo che anche lui vuole difendere, conservare e pregare. In questi paesaggi l’autore, responsabile della pagina culturale de Il Giornale, trova le corrispondenze nascoste nelle sue opere, gli echi dei passati perduti di cui Pasolini si cibava mentre si rivoltava contro il presente, contro la morte, contro la guerra. Indaga nuovamente quel mondo piccolo che aveva già rivelato nei suoi testi precedenti su Guareschi, Antonio Delfini e Giuseppe Berto, rendendoli nuovi, vivi, inediti e miracolosi. Trasformando Casarsa e il suo paesaggio in una madeline delle opere pasoliniane che affiorano come animiste presenze tra le pagine di questo diario di viaggio, tra le analisi filologiche dei testi delle ultime raccolte che mostrano, come aveva sottolineato la Fallaci anni addietro, che in realtà Pasolini non era un uomo, ma una luce. Una luce che non si è ancora spenta.
Quali sono le “Piccole patrie” del tuo testo e che legame aveva Pasolini con esse?
“La prima piccola patria è stata Cremona, nella quale ha fatto il ginnasio, dove è rimasto tre anni. Anni che hanno lasciato un profondo legame in Pasolini con Cremona, il cui ricordo è rintracciabile nel testo postumo Operetta marina, in cui emerge il fascino per questa città, per il fiume Po. Un altro luogo è Bologna, una città in cui è tornato in un momento fondamentale della sua formazione, poiché non è solo dove ha concluso gli studi liceali ed iniziato il percorso universitario, ma soprattutto perché è lì che avviene l’incontro con uno dei suoi fondamentali maestri: Roberto Longhi. Bologna però è anche la città in cui nasce l’amore per il calcio, le letture dei grandi poeti contemporanei, dove scopre la sua lontananza dal fascismo, manifestata su L’architrave, testata dei GUF, che ha ospitato articoli in cui si esprimeva una garbata, ma netta opposizione. Centralissima è poi Casarsa, il paese in provincia di Pordenone da cui proveniva la madre, ed in cui si era rifugiata la famiglia Pasolini per allontanarsi dalla guerra e in cui rimarrà dal 1943 al 1950. Casarsa è un luogo fondamentale perché lì non nasce solo il grande poeta, ma nasce il poeta friulano, innamorato dalla lingua dialettale che decide di trasformare in una grande lingua lirica, che non collega tanto al folklore di quelle terre, ma più a quella tradizione duecentesca e trecentesca, provenzale e in volgare. Lì nascono le Poesie a Casarsa e tutti quei testi che saranno raccolti ne “La meglio gioventù”. Questo periodo friulano coincide anche con la nascita dell’impegno politico diretto del poeta.”
Come si caratterizzò il suo impegno politico?
“Non molti sanno che Pasolini fu l’astro nascente del movimento autonomista friulano, poiché riteneva che il processo unitario fosse stato una guerra di conquista del Piemonte che si imponeva sulle altre culture locali, mentre per lui la ricchezza dell’Italia era nella sua diversità e varietà. In quegli anni ci fu un forte dibattito su quale statuto dovesse adottare il Friuli, che veniva ancora considerata come una provincia di Venezia, mentre gli autonomisti volevano che essa fosse riconosciuta come Regione a statuto speciale. Tale punto di vista affonda le sue motivazioni nella volontà di proteggere e preservare la lingua e la cultura profonda friulana, che poteva essere per lui difesa solo tramite l’autonomia. Sempre in quegli anni uscirà dal movimento autonomista, che vedeva troppo vicino alla DC, per scegliere il Partito Comunista, da cui verrà poco dopo espulso a seguito dei fatti di Ramuscello, che accusarono Pasolini di atti osceni in luogo pubblico e corruzione di minori, e che lo costrinsero a lasciare Casarsa alla volta di Roma, a seguito della perdita del lavoro conseguente al processo, in cui peraltro verrà assolto…”
Che cosa trovò Pasolini in quel Friuli popolare e originario, nel dialetto, lontano dalla vita retorica della borghesia e che cercherà di riscoprire di fronte alla società opulenta portata avanti dal consumismo?
“Trova la verità della vita. Viene folgorato dalla vivacità della lingua e dalla vitalità di un mondo premoderno che rischia di essere spazzato via dallo sviluppo e che invece deve essere protetto e salvaguardato. Scopre una visione ciclica del tempo e dell’esistenza che si associa ai ritmi e alle ritualità della vita nei campi e che toglie al poeta l’angoscia della morte, incarnata dalla guerra, dalla perdita del fratello Carlo, e che gli restituisce una dignità, un valore profondo che non riesce a trovare nella retorica borghese. Il vero dramma di Pasolini, infatti, sarà vedere questo mondo travolto e calpestato dall’omologazione e dall’industrializzazione”.
Eretico, antimoderno e nazionalpopolare, chi è il Pasolini politico? E quanti volti, contraddizioni e sfaccettature concentra in sé stesso?
“I tesserati in realtà sono solo due, quello autonomista e quello comunista. Anche se credo che lui si sia sempre sentito un compagno di viaggio del PCI, senza mai aderirvi completamente o richiederne la tessera, ed anzi lasciandosi la massima libertà di critica verso esso, arrivando anche a polemiche spaventose. Verso la fine della sua vita si avvicinò al Partito Radicale. Possiamo definirlo come un uomo di sinistra, nonostante il suo anticonformismo.”
Marcello Veneziani lo definì un “reazionario senza grazia”, concorda con questa definizione?
“In parte sì. Effettivamente l’ultimo Pasolini, mostra la sua repulsione all’avvento del consumismo, che considerava un totalitarismo ben peggiore del fascismo, per la capacità di colonizzare le menti delle persone e di distruggere quel mondo rurale che nemmeno il movimento mussoliniano era riuscito ad estirpare. Di conseguenza possiamo definirlo un autore antimoderno, come testimoniano le poesie de La nuova gioventù e gli ultimi scritti”.
Cosa è cambiato nel giovane poeta friulano de La meglio gioventù, speranzoso e capace di ascoltare ancora gli echi dei passati perduti, che poi si fa l’autore apocalittico e scandaloso di “Saluto e Augurio“?
“Pasolini mette insieme La nuova gioventù per dire che quel mondo fatato e sacro, delle sue prime opere, non esiste più e lo porta alla disperata confusione del pensare che forse quel mondo non è mai esistito ed è stato tutto un suo sogno. In Saluto e Augurio nello specifico, egli si rivolge ad un ragazzo fascista, Fedro, lasciandogli come testamento, il compito di rappresentare quel mondo perduto e profondo se lui desiderasse accogliere una “destra sublime” capace di difendere, conservare, pregare. Una poesia certamente dai toni reazionari, ma che non basta ad arruolare Pasolini in questa categoria, poiché quella destra sublime era possibile, ma non esisteva”.
Pasolini, come Berto, Delfini e Guareschi fu un protagonista di quel mondo piccolo che riassumeva la provincia italiana?
“È stato un protagonista che ha saputo portare quella dimensione nella grande cultura, spogliandolo del folklorismo, facendolo entrare nella più alta letteratura. Soprattutto con il dialetto friulano”.
È il Caravaggio della letteratura e del cinema italiano?
“È sicuramente il Caravaggio del cinema italiano, soprattutto alla luce della lezione di Roberto Longhi, che ha fatto rinascere il mito artistico di questo artista, e che non ha mai abbandonato il baglio culturale pasoliniano. Ad esempio, il modo di inquadrare i volti dei sottoproletari dei suoi film deriva dal modo di proiettare i personaggi di Masaccio e Caravaggio simili ad icone. Ne La ricotta le parti a colori sono delle ricostruzioni del grande Barocco di Longhi e del suo assistente arcangeli. Tra questi due artisti c’è una ulteriore corrispondenza che è biografica. Entrambi hanno avuto una vita scandalosa, entrambi si sono formati nel mondo crudele delle borgate romane, entrambi sono morti in maniera sospetta. Come Caravaggio riusciva a trasformare una prostituta annegata nel Tevere in una immagine sacra, Pasolini raffigurava i ragazzi delle borgate in simboli delle sue poesie e dei suoi romanzi. Per questo fu anche un Caravaggio della letteratura italiana”.
Cosa ne pensa del santino progressista che viene inscenato dall’egemonia culturale e quanto tale mistificazione è lontana dal vero volto, inclassificabile e complesso, di Pasolini?
“È una immagine lontanissima, perché nelle poesie pasoliniane ci sono delle critiche fortissime all’intellettuale progressista incapace di domandarsi qualsiasi cosa e il carattere atipico e irrequieto di Pasolini non lo avrebbe mai portato ad inquadrarsi negli schemi del modello conformista. Pur rimanendo un uomo di sinistra, lui militava per la sua verità, sempre libero, controcorrente, corsaro e luterano”.
Ha in mente un altro libro?
“Credo non mi allontanerò molto da Cremona e mi concentrerò su Ugo Tognazzi, mio concittadino, che fu una delle maschere più capaci, poliedriche e complesse del cinema italiano”.