Stile Alberto. Nel titolo dell’ultimo libro di Michele Masneri – classe 1974, bresciano, fogliante – edito da Quodlibet, è prodigiosamente condensato quello che potremmo definire il pianeta Arbasino. Alberto Arbasino era infatti il re Mida dello stile, aveva la capacità di contaminare qualunque cosa toccasse con il suo innato buongusto, con classe, eleganza, raffinatezza. Stile Alberto racconta il dietro le quinte, ciò che non è dato leggere nei libri dell’intellettuale “nato a Voghera, rinato a Roma”, dell’ardito dandy la cui penna ha ritratto personaggi divenuti leggenda, come Cocteau, Céline, Gadda e infiniti altri. Tutto in AA era rigorosamente bespoke, custom-made, dettagliatamente rifinito, dalle camicie di popeline ai reportage culturali redatti in giro fra America ed Europa, dopo aver definitivamente abbandonato la carriera di giurista specializzato in diritto internazionale.
È un rapido voyage, Stile Alberto, in un mondo ormai estinto, eternato solo nelle pagine dell’opera-mondo arbasiniana, un Satyricon composto da frammenti di vita di contesse e poeti, ministri innamorati dei camerieri, tenutarie di salotti e principesse romane, e brandelli di quella “piccola, piccola piccola borghesia” di cui, oggi, non resta che una certa “pacchianeria facilona”, per utilizzare le parole del fitzgeraldiano Le piccole vacanze.
Masneri ci restituisce l’immagine di un alchimista letterario, con i suoi esperimenti narrativi – tipiche forme di espressione del Gruppo 63, di cui era parte – la lingua rarefatta, inafferrabile, con cui costruiva, in maniera ricercatissima, i suoi “articoli che poi diventavano saggi che poi diventavano romanzi”. Apre le porte del salotto romano di casa Arbasino, a via Gianturco, dove, tra un dente di narvalo e una Waste Land autografata da Eliot, nascevano i suoi tormentoni – la casalinga di Voghera, la gita a Chiasso, le tre fasi dell’intellettuale italiano (brillante promessa, solito stronzo, venerato maestro) – mentre gli altri scrittori italiani, a sua detta, erano troppo occupati a farsi la guerra fra loro, invece di aspirare ad essere tradotti all’estero.
Arbasino, infatti, nel frattempo sperimenta, si libera dagli schemi ingessati del romanzo nostrano, si sbottona la giacca, contesta la grave disfunzione delle patrie lettere, quella “lingua scritta falsa per definizione”, affrancando se stesso e una generazione futura di autori, che proseguiranno la ricerca da lui avviata sulla parola, per reinventare “il miglior sound dell’italiano parlato (che è veloce e divertente perché fitto di gesti e ammicchi, senza far pesare troppo le fatiche e le pene), conservandogli quel certo ‘agio naturale’ (o diciamo grazia?) che lo riconnette al milieu e al momento dov’è stato prodotto, e solo vestendolo con camicia disinvolta e pantaloni letterari d’aspetto appena un po’ mondano, di vita: l’unica strada per andare dentro nel racconto e non star sempre chiusi in classe” (da L’Anonimo Lombardo).
Il culto arbasiniano verrà infatti professato dai suoi adepti sino ad essere perpetuato da alcuni atipici intellettuali quali, ad esempio, Tommaso Labranca – autore di Estasi del pecoreccio o Chaltron Hescon – fustigatore dei costumi con il suo “barocco brianzolo” – nirvana della volgarità – le sue colte esagerazioni, il racconto, ancora, di quelle nobildonne, ma discese alla quotidianità televisiva negli anni Novanta, il desiderio di un ingannevole egualitarismo con conseguenti atteggiamenti antiaspirativi da parte del proletariato, l’esegesi di testi musicali di icone pop come gli 883.
Ed ancora Pier Vittorio Tondelli, con cui AA ebbe un rapporto controverso, di manchevole frequentazione. “Aveva una grazia molto tenera” disse Arbasino dell’aulico ed esplicito autore emiliano-romagnolo dalla scrittura emotiva, le cui rispettive opere erano unite da una sagace mescolanza di elementi alti e bassi, dall’inclinazione a raccontare la società, dalla critica alla cultura della propria epoca, alla middle class europea. “Ma perché, poi, scrivere? E soprattutto perché pubblicare? Perché rendere questo dolore, così privato e così essenziale, un piccolo oggetto limitato da buttare al macero o nella polvere?” scrive Tondelli in Camere separate, che avrebbe forse meritato maggiore entusiasmo da parte di colui ch’egli considerava maestro. Del resto, “Negli anni Ottanta facevo il deputato full time. […] Non seguivo la letteratura” disse AA, in maniera tranchant, riferendosi alla produzione letteraria giovanile dell’epoca. Ed ancora, quella forma giornalistica tanto cara ad Arbasino, viene tramandata attraverso le pagine di opere contemporanee, come Atlante ideologico-sentimentale (GOG) dell’eclettico, elegantissimo Stenio Solinas, un amalgama di articoli, reportage, letture, interviste, mostre, tutti rivisti, rivisitati, come da tradizione arbasiniana.
Arbasino poi, sottolinea Masneri, era anche espressione di una gayness avanti per i suoi tempi, il ritratto che ne confeziona è quello di un omosessuale “bien”, a cui le etichette calzavano come una scarpa di fattura scadente, scomoda, che lo portava a rifiutare la definizione di gay, disapprovandone i matrimoni e contestando apertamente i pride degli anni Duemila, definendoli in maniera sprezzante “orgoglio del sedere”. Stefano, il fidanzato di una vita, fu sempre, per AA, “l’amico Stefano”, coerentemente con la sua linea di pensiero: “finché una cosa non viene nominata non esiste e rimane invisibile anche se la si fa” (da Super-Eliogabalo).
L’omosessualità scapestrata e outdoor – così come la definisce l’autore di Stile Alberto – di Arbasino era anche parte integrante della sua opera, con Roma e la sua dolce vita a far da sfondo agli “allegri marchettoni”, o, per dirla alla Pasolini, di quelle “lucciole”, che allietavano noti personaggi come Capote, Gore Vidal, Auden, Nureyev.
Arbasino e Pasolini, eterni nemici-amici che – racconta Masneri – prima ancora di divenire sodali e compagni di scorribande sulle loro auto sportive, ebbero un rapporto in qualche modo conflittuale, circostanza rinvenibile facendo un salto all’indietro, fino agli esordi di AA, con L’Apprendista Tebaide, sulla rivista Officina, grazie a PPP, che scelse di pubblicarne alcuni versi. In una lettera, riportata in Stile Alberto, Pasolini non esitò infatti a stroncare l’allora giovane, snob, pensatore lombardo, accusandolo di provincialismo, con le seguenti parole:
“La Sua lingua è fredda, chiara, e, malgrado le abnormità, molto corrente. Sicché il suo pastiche (che richiede per definizione doti contrarie alle Sue) riesce bene finché l’intelligenza e la facoltà mimetica l’assistono (e con grande fervore, direi), mentre ha vuoti addirittura liceali e vere ingenuità quando mostra la corda: il che avviene abbastanza spesso, dato il vizio sostanziale di questa Sua operazione. Tale vizio, poi (scusi la mia assoluta sincerità) Le proviene da un certo provincialismo (questo Le darà un gran dolore, lo so: se ne sentirà offeso, e io duro) e dalla giovane età”.
Ed ancora – in relazione al rapporto fra i due – Michele Masneri, facendo riferimento a un famoso romanzo perduto di Arbasino, mai portato a termine, getta la luce su una “strana” parte della terza edizione di Fratelli d’Italia, del 1993 (Adelphi), che – curiosamente – tratta il medesimo tema di Petrolio, il libro postumo di Pasolini, edito un anno prima, nel 1992.
Stile Alberto è, in definitiva, un’incursione cortese, non invadente – altrimenti AA non avrebbe gradito – in una vita che sembra essa stessa uscita da un romanzo, piena di situazioni meta-arbasiniane, una traversata nell’esistenza dell’uomo la cui “spicciola dannazione è la frivolezza”, per utilizzare le parole del critico Paolo Milano, un’esperienza godibile non solo da parte dei collezionisti di arbasini, ma da chiunque abbia voglia di assaporare il doceur de vivre d’un tempo ormai andato.
La struggente copertina in cui Arbasino piange gli occhi di Maria Callas e le foto d’archivio di Paolo di Paolo, che accompagnano armoniosamente la narrazione di Michele Masneri, con scatti di fastosi balli, feste, salotti, vacanze all’Argentario, vaste librerie, lettere, le cartoline ch’egli amava inviare agli amici da luoghi remoti, rendono un notevole omaggio all’intellettuale più eccentrico del Novecento, la cui recente fine – “manzoniana, nel mezzo della pestilenza” – avrebbe meritato un più ampio tributo.
Anche se forse la parola fine non è quella che avrebbe scelto Arbasino. «A pvesto, a pvesto», avrebbe detto lui.