Quando Amleto incontra lo spettro di suo padre – che gli rivelerà la tragica verità relativa alla sua morte – nello spirito del principe danese si consuma un’insanabile frattura del proprio io, dalla quale non potrà più tornare indietro, confinato a vivere in una terra di mezzo, attanagliato da quei dilemmi che lo condurranno alla perdita del proprio equilibrio interiore. Shakespeare aveva compreso l’elemento politicamente tragico del suo tempo, trasponendolo all’interno del dramma di Lord Hamlet, figura su cui concentrerà le proprie riflessioni, trecento anni dopo, Carl Schmitt, il giurista e politologo tedesco per lungo tempo inviso ai liberali, reo di aver amoreggiato con il partito della croce uncinata, poi riscoperto da filosofi e pensatori contemporanei, fra cui Gianfranco Miglio, Giorgio Agamben, Massimo Cacciari, Jacques Derrida, Walter Benjamin.
La storia, per Carl Schmitt, si riconosce dalle catastrofi, dalle rotture interiori di ogni epoca, da quelle fratture – amletiche – da cui è impossibile retrocedere e che spingono verso la creazione di un nuovo ordine mondiale, di quel nomos della terra che il filosofo politico di Plettenberg aveva individuato nell’equilibrio fra le potenze di mare e quelle di terra.
Che forse la sua “amletizzazione dell’eroe” non fosse altro che la previsione di una amletizzazione dell’Occidente? Una torsione interna del suo stesso essere, delle sue istituzioni, che dall’ordine concreto dello ius publicum europaeum sarebbero passate al caos e alle finzioni liberali della globalizzazione, lasciando quindi una parte del mondo in preda a quei dubbi, talvolta insormontabili, tali da trovare risposta solo col tramonto di un’epoca, come in quella rinascita sublimata nella morte dell’eroe shakespeariano.
Al pari del drammaturgo di Stratford-upon-Avon, Carl Schmitt aveva infatti compreso il tragico portato della sua era, e, soprattutto, le debolezze del potere. Quel potere così interessante da lontano e così spaventoso ed incontrollabile da vicino. Con il Terzo Reich era andata male. Il potere turpe, nefando, di Hitler aveva richiesto la sua scienza giuridica e la sua teoria della decisione si era rivelata essenziale mentre saltavano tutti gli schemi del passato e si apriva quella sospensione del diritto in cui la decisione avrebbe fondato la nuova sovranità.
Lo stato d’eccezione che Schmitt aveva inventato e teorizzato non avrebbe infatti smesso di agitare gli incubi di una generazione d’intellettuali. Giorgio Agamben, oggi, continua a vedere questa teoria ovunque: uno stato d’eccezione permanente per governare società complesse. Forse neanche Schmitt stesso sarebbe arrivato a tanto.
Ad ogni modo, la decaduta legittimità della Repubblica di Weimar aveva lasciato spazio a quella della dittatura nazista e con la stessa era arrivata una nuova e spietata legalità. Nel mezzo, la gestione dello stato d’eccezione e i poteri d’emergenza. Le sue teorie decisioniste avevano trovato un inveramento nella storia. Aveva consigliato Hitler ed il suo epigone prediletto, Hermann Göring. Tre anni, poi era stato messo da parte, accusato dalle invasate SS, capaci soltanto di obbedire, riverire dei pagani e fare giuramenti di fedeltà al Führer. Lui, cristiano e presidenzialista, non aveva rinnegato il proprio credo per compiacere gerarchi smodati e senza nerbo. La decisione e l’eccezione avrebbero dovuto ricostruire lo Stato, non farlo retrocedere a una dinamica tribale, come era accaduto. Carl Schmitt, sotto il Terzo Reich, non era più allineato al pensiero dominante ai tempi di Weimar.
Ma il suo pensiero non si è eclissato con la fine del nazionalsocialismo. Oggi, rivive in altre forme e in altri stati, in particolare in Cina, come rilevato anche da una interessante disamina di The Hedgehog Review.
La rivoluzione maoista ha infatti aperto le porte ad un nuovo esperimento. Nessun fronzolo occidentale, nessuna repubblica democratica, nessun maldestro tentativo liberale di imbrigliare la politica con il diritto. “Chi dice diritto vuole ingannare, chi dice potere vuole smascherare”, diceva il giurista tedesco. Il regime cinese è un dispotismo orientale antichissimo, pura managerialità e gerarchia. Legittimità forte e legalità stringente, senza l’ingombro del contratto sociale su cui poggiano i regimi europei. Certo, anche da queste parti un impero è collassato, ma la storia ha sempre una durata che supera le aspettative. Il comunismo cinese non è che la continuazione dell’Impero con altri mezzi. E poi, anche la Cina ricerca il suo spazio vitale, come la Germania degli anni Trenta. È potenza regionale, vuole estendersi oltre i suoi confini. Verso nord, verso sud e verso ovest. Deve proteggersi dal mare – questa ennesima potenza di terra – e conquistare il suo grande spazio. Russia, Corea del Nord, Taiwan, Vietnam sono potenziali obiettivi di alleanze ed espansione.
Quando ha scritto Il nomos della terra era forse alla Cina che pensava Carl Schmitt, al suo respiro imperiale e al dominio dell’Estremo Oriente. Alla potenza della tecnica e all’industria, alla tecnologia che crea nuovi spazi anche dove non ce ne sono. E poi, a Pechino, le categorie del politico si distillano in purezza, come nell’era premoderna in Europa. Il nemico è esterno, l’amico interno. Non c’è il problema della guerra civile come in Occidente né quello di fazioni che si sfidano apertamente per il potere.
Qui c’è il partito che tutto può e tutto controlla. Nessuno cerca di neutralizzare il potere con le leggi, i trattati internazionali, le corti e le istituzioni tecnocratiche, poiché in Cina il potere interno è già neutralizzato. C’è il partito sovrapposto allo Stato: i mandarini si dispongono gerarchicamente e organizzano con efficienza un puro potere post-ideologico. All’esterno, invece, è guerra. L’impero cinese è defensor pacis et dominus belli. I trattati internazionali, le istituzioni globali, gli standard legali non contano. C’è il commercio, la finanza, la tecnologia. Su ogni dossier si trova di volta in volta l’accordo con il resto del mondo. Paese di imprenditori e scommettitori, la Cina. Tutto si negozia e si viola, prova di astuzia e prova di forza. Niente acque limacciose e formule ipocrite come quelle a cui l’Occidente deve sottostare per mascherare il vero potere, quello anglo-americano. Marittimo, capitalista, moralista, miseramente finto-democratico, civilizzatore, pedagogico. Qui, invece, il potere è nudo. Non deve nascondersi, indottrina direttamente, non si scherma dietro il diritto. Non cede al capitale, ma lo dirige.
E lui, Carl Schmitt, ha contribuito a realizzare tutto questo. D’altronde, oramai, non esistono più le guerre civili da quando l’antica sovranità è spirata. Il novo ordo seclorum ha sostituito lo ius publicum europaeum. Il mare ha vinto sulla terra, almeno fino ad oggi. Resta soltanto un grande conflitto civile mondiale. E la Cina è una delle due principali potenze, aveva ragione Kissinger. Henry è un tedesco come Schmitt, che gioca per l’altra squadra, quella a stelle e strisce, ma le loro analisi sono tanto simili da risultare inquietanti. Il realismo è la porta per l’inferno e l’immortalità. Tucidide, Machiavelli, Hobbes, Weber, Schmitt e Kissinger: cinici e irrinunciabili. Sia Carl che Henry sono entrambi convinti di essere al principio di una nuova guerra fredda. Con le potenze di terra che tornano e reclamano il proprio spazio sullo scacchiere mondiale.
Hong Kong è presa, il potere economico e tecnologico di Pechino ha eroso i margini di manovra dei vicini e presto potrebbe essere la volta di Taiwan, l’avamposto strategico degli americani. Neutralizzazione del potere interno e il “politico” nella sua essenza disordinante e conflittuale all’esterno. Amico e nemico su scala planetaria, la Cina è l’eccezione che il mondo occidentale ha per troppo tempo trascurato e alimentato con le politiche di globalizzazione.
Carl Schmitt oggi ne riderebbe, esiste al mondo una potenza più schmittiana?
Ma forse il suo spirito è lì, che vaga, erratico, nell’alba livida di Pechino, avvolto nella nebbia fredda e silenziosa di una spettrale Piazza Tienanmen, la spilla del Partito Comunista Cinese appuntata sul bavero del pastrano, in attesa di incontrarne gli alti burocrati. Per l’ennesima volta, in omaggio a quanto descritto nel suo libello Dialogo sul potere, si appresta ad entrare nell’anticamera del sovrano. Ad accompagnarlo, i modi da modesto impiegato germanico, il sorriso sardonico di chi è consapevole del potere di chi governa, ma ancor di più del demiurgo che lo crea.