Al di là di ogni riflessione razionale ed economicista, il conflitto russo-ucraino ha squarciato il velo di Maya della società umana occidentale della pura ricerca del benessere e della pace, come fine ultimo della storia. Apparentemente fuori da ogni logica, risponde alla proiezione di potenza della Russia che, sacrificando l’economia ai bisogni trascendenti dell’Impero del Katéchon, ridefinisce e sconvolge una percezione già ampiamente (nel caso dell’Europa) o parzialmente (nel caso degli Stati Uniti), post-storica. Ad essere tornata sulla scena è dunque la storia come teatro di illusioni. Troppo impegnata a confrontarsi con un diffuso senso di colpa per un passato imperialista, schiavista, fascista o nazista, il volto dell’Europa Occidentale è quello di un gigante vuoto, in cui l’illusione ha lasciato il posto alla concreta ricerca di un paradiso del comfort consumistico, nella speranza che sia esso il destino ultimo della pacifica convivenza umana sulla terra. Eppure le illusioni sussistono. E se non sono più ritenute vere in Occidente, se non nell’ultima, severiniana, illusione tecnico-scientifica, tuttavia fuori dai suoi confini esse dominano ancora le coscienze collettive, laddove i beni materiali vengono – dopotutto – in secondo piano.
Se si vuol comprendere tale processo, risulta pertanto indispensabile confrontarsi con il pensiero di Giacomo Leopardi e di Emil Cioran, rispettivamente profeta e cantore di una decadenza già in atto. Interpreti distanti, il recanatese perché non ancora in grado di vedere tutta la complessità della Strage delle illusioni (che dà il titolo alla raccolta di scritti politici leopardiani, edita Adelphi); Cioran, perché esterno e straniero rispetto alla civiltà occidentale, come da lui stesso ammesso ne La tentazione di esistere: «Chi appartiene organicamente a una civiltà non può identificare la natura del male che la mina». E di quale male si sta parlando? Leopardi e Cioran parlano ad un mondo svuotato, prossimo al rigor mortis in Leopardi, già in lenta decomposizione in Cioran. Dialogano ad un secolo di distanza. E Cioran sembra il completamento perfetto del pensiero leopardiano, di cui fu un lettore. E in una riflessione congiunta, quasi in uno scambio epistolare aldi là del tempo e dello spazio tra i due intellettuali, si potrebbe immaginare come apertura la spietata definizione che dà Leopardi, nel 1821, della civilizzazione:
«Tutte le forze dell’uomo sono nella natura e illusioni; la civiltà, la scienza ec. e l’impotenza sono compagne inseparabili; vuol dire che il fare non è proprio né facoltà che della natura, e non della ragione; e siccome quesgli che fa è sempre signore di chi solamente pensa, così i popoli o naturali o barbari che si vogliano chiamare, saranno sempre signori dei civili, per qualunque motivo e scopo agiscano.»
E segue una profezia, certo realizzatasi nel corso dei duecento anni che separano il nostro mondo da quello di Leopardi, ma che pur riecheggia nelle orecchie occidentali come un monito sempre valido:
«Ma finattanto però che resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene e persuasive, e costanti, e non ragionate, e grandi illusioni, i popoli civili saranno lor preda.»
Non potrebbe desistere Emil Cioran, dall’assecondare tali previsioni. Lui, uomo del XX secolo, partecipe della tragedia e della dissoluzione del Vecchio Continente, della sua spartizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica. E all’Europa occidentale che – nelle migliori e più nobili intenzioni – desidera un mondo post-storico, proteso alla pace e al benessere per il mondo intero, si sente di replicare, facendo riecheggiare le considerazioni di Leopardi, in questo modo:
«Puntare sulla scomparsa degli istinti guerrieri, credere alla generalizzazione della decrepitezza o dell’idillio significa vedere lontano, troppo lontano: utopia, presbitismo dei vecchi popoli. I popoli giovani al contrario, rifuggendo dalla scappatoia di un inganno, vedono le cose dal punto di vista dell’azione.»
L’indagine e l’analisi dei due pensatori viaggia su un piano da psicologia dei popoli. Un uomo privo di illusioni, di considerazione di sé e convinto dei propri mezzi, è altrettanto debole ed indifeso di un popolo o di una nazione o di una civiltà che ne siano prive. È vuoto ed inetto all’azione. L’amor nazionale è illusione, falsa quanto ogni altra; esso deriva però in Leopardi dalla natura, al pari di ogni altra illusione. Individui senza illusioni formano nazioni senza illusioni, incapaci di agire e di desiderare alcunché (Zibaldone, 1728). L’allontanamento dalle illusioni rappresenta l’ultimo stadio di un allontanamento irreparabile dell’uomo della natura, a cui non può sostituirsi nulla di altrettanto efficace a livello etico o politico. Un popolo è, altresì, una somma spesso indistinta di ossessioni in Cioran, e come tale riflette queste ultime o la loro assenza. Ragione e filosofia, consumano tali ossessioni, rendono i popoli euro-occidentali facile vittima di un mondo che non comprendono più:
«Non potendo difendere le nostre astuzie contro i muscoli, diventeremo sempre meno utilizzabili per un fine quale che sia: il primo venuto ci incatenerà. Osservate l’Occidente: esso trabocca di sapere, di disonore e di flemma. A questo dovevano arrivare i crociati, i cavalieri, i pirati: allo stupore per una missione compiuta.»
Sillogismi dell’amarezza
Missione compiuta, dunque. Una traiettoria storica drammatica e sanguinosa, costellata di conflitti e di incomprensioni, di devastazioni e di rovina. Di splendori artistici nutriti di quella stessa scomodissima civiltà dell’intolleranza e della sopraffazione, costellata di sovrani ambiziosi e di una tendenza all’espansione e al predominio globale, che fu l’Occidente. Così guardando ne La tentazione di esistere ai quadri della National Gallery di Londra, i ritratti di quegli uomini del passato, così belli e dai volti delicati, esprimono nondimeno l’energia, la fermezza e l’arroganza de «i bruti, il canagliume» che concorsero alla formazione dell’Impero britannico.
Oppure si pensi alla Chiesa cattolica, laddove i papi «fintanto che fornicavano, si davano all’incesto e all’assassinio, dominavano il secolo». Princìpi di una drammatica imperfezione. Nell’imperfezione e nel bisogno maturano tali e tante imprese, suggellate dalle violenza della conquista militare e dalla successiva autodistruzione dell’Europa con le due guerre mondiali. Anche in Leopardi, incapace di prevedere tante e tragiche deflagrazioni, si respira un cordoglio nei confronti della natura umana “più autentica”, come scrive a Pietro Giordani:
«Io tengo che la società umana abbia principii ingeniti e necessari d’imperfezione, e che i suoi stati sieno cattivi più o meno, ma nessuno possa esser buono.»
Siamo ben lontani, sebbene tali possano apparire i pensieri tanto di Cioran quanto di Leopardi dal pensiero vitalistico di Nietzsche e da qualsiasi annuncio di una umanità finalmente libera dalle illusioni. Invero le illusioni, proprio perché naturali, e la brutalità – che pure ha dei limiti cronologici insiti nella vita di un individuo o di un popolo – non fanno più parte dell’orizzonte di pensiero occidentale. E se Cioran taccia come inverosimile un avvizzimento generalizzato del mondo, al pari del Vecchio Continente, Leopardi arrischia una previsione nel 1821, in cui già sembra di intravedere la decomposizione tenuta in piedi dalla tecnica, la liquidità mortuaria di Di Dario, il ritorno a stadi primitivi di Spengler:
«Quando à son tour la civiltà divenuta oggi sì rapida vasta e potente conquistatrice, non avrà più nulla da conquistare, allora o si tornerà alla barbarie, e se sarà possibile, alla natura per una nuova strada, e tutta opposta al naturale, cioè la strada dell’universale corruz. Come ne’ bassi tempi.»
All’uomo non resta dunque che la rinuncia. Quella che Cioran e Leopardi intravedono in un Oriente, percepito ed immaginario. Leopardi che come «ragionevole usanza dei Turchi e degli altri orientali» preferisce alla politica il sedere sulle proprie gambe tutto il giorno «e guardare stupidamente in viso questa ridicola esistenza». Cioran che guarda con fascinazione al Taoismo, pur ritenendo l’occidentale incapace di percepirne l’essenza. Barbarie e misticismo, come nell’Impero romano d’Occidente, sul quale ironicamente Cioran si sofferma, invidiando «meno quelli che, avendo visto Roma sprofondare, credevano di godere di una desolazione unica, non trasmissibile».
Prima di questa fase sono però altri i popoli barbari da temere. Ad oggi l’immagine di una guerra nel cuore dell’Europa scandalizza e mette in allarme le cancellerie occidentali, riesumando paure che sembravano sepolte entro la nostra civiltà del benessere, già profondamente turbata dall’emergenza pandemica. Spaventose nubi si addensano sul mondo occidentale, e già Cioran le intravide esaminando la Russia, incardinata nell’illusione di un destino profondo ed ancestrale, mascherato da comunismo in salsa nazionalista e disvelatosi nella Federazione post-sovietica di Putin follemente lanciatasi alla conquista della vicina Ucraina. Vale la pena di citare le parole di Cioran, da La tentazione di esistere, profezia allucinante e drammaticamente percepibile nelle crescenti incertezze di un mondo che sussulta e teme il collasso, dinanzi allo sforzo illusorio e “barbarico” del vicino orientale:
«I Russi sentono ciò che pensano; le loro verità, come i loro errori, sono sensazioni, stimoli, atti. In realtà essi non pensano, deflagrano. Ancora fermi allo stadio in cui l’intelligenza non attenua né dissolve le ossessioni, ignorano gli effetti nocivi della riflessione, così come quegli eccessi della coscienza nei quali quest’ultima diventa fattore di sradicamento e anemia. Possono dunque incamminarsi tranquillamente. Cos’hanno da affrontare se non un mondo linfatico? Non c’è nulla davanti a loro, nulla di vivo col quale possano scontrarsi, nessun ostacolo: non fu uno di loro a usare per primo, in pieno XIX secolo, la parola “cimitero” a proposito dell’Occidente? Presto arriveranno in massa per visitarne le spoglie. I loro passi sono già percettibili a orecchi fini. Chi potrebbe opporre alle loro superstizioni in marcia anche solo un simulacro di certezza?»