L'editoriale

Quei giorni in cui stava per saltare la catena di comando

Attimi fuggenti, piccole e quasi invisibili finestre temporali, dove per qualche ora è saltata la catena di comando. Vi raccontiamo tre date simboliche della storia recente italiana in cui l’ordine democratico stava per sprofondare e con esso la possibilità di sovvertirlo, ma tutte quelle volte, chi ne aveva l’opportunità ha scelto di abdicare o di agire per interessi personali.
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Costruire scenari è fondamentale per anticipare le traiettorie prossime della politica, tuttavia la capacità di capire il presente, o meglio avere la capacità di intravedere il punto di rottura, il grande cortocircuito spazio-temporale del potere, è un’abilità necessaria per chi non si accontenta di guardare fuori dalle finestre. Nelle finestre nazionali (rarissime) o internazionali (cicliche) ci si entra, anche forzandole all’occorenza, altrimenti si resta fuori, fino a quando se ne aprono delle altre. Sono piccole e quasi invisibili finestre temporali, e in Italia, negli ultimi quarant’anni circa, se ne sono spalancate soltanto tre. Hanno un luogo, una data, un contesto estremamente precisi. Dimenticate sciamani e Serenissimi, black bloc e “nazisti dell’Illinois”, piuttosto segnatevi queste date nell’agenda – 11 febbraio 1994, 19 aprile 2013, 9 marzo 2020 – e proviamo a viaggiare a ritroso, con ordine, nella macchina del tempo. Anche perché con Sergio Mattarella, capo dello Stato; Giuliano Amato, presidente della Corte costituzionale e Mario Draghi, premier a Palazzo Chigi, cioè la Prima Repubblica al potere, dei veri professionisti, a certificare il pessimo stato di salute dei partiti tradizionali della Terza, di queste finestre potrebbero aprirsene davvero poche nei prossimi anni.

11 febbraio 1994. Soltanto qualche giorno prima, il 26 gennaio, Silvio Berlusconi ha annunciato la “sua discesa in campo”. E anche se Forza Italia nasce soltanto il 18 gennaio, sono mesi che il Cavaliere prepara questo momento. La candidatura pertanto appare tardiva, c’è poco tempo perché le elezioni politiche sono previste per il 28 marzo. Ma la macchina aziendale applicata alla politica, su scala televisiva, funziona fin troppo bene. Molto velocemente Silvio Berlusconi – sostenuto da tutta la sua galassia manageriale, Mediaset, i fedelissimi della prima ora, gli ex missini di Alleanza Nazionale e la Lega Nord di Umberto Bossi – scala i sondaggi fino a diventare primo, di gran lunga rispetto agli avversari, in primis il Partito Democratico della Sinistra di Achille Occhetto. È l’arte di essere un insider che si auto-percepisce outsider, è il trumpismo prima di Donald Trump, è Trump molto prima di Trump. Tuttavia dopo che “Mani Pulite” ha spazzato via la Prima Repubblica, dopo che la generazione dei “ragazzi del ‘92” son stati incaricati di guidare la transizione col Governo presieduto da Giuliano Amato, il Cav e i suoi uomini, sembrano venire dall’iperuranio. Un network nazionale – composto da Fedele Confalonieri, Gianni Letta, Cesare Previti, Marcello Dell’Utri, Adriano Galliani, Ennio Doris e altri – si è fatto clan, e ora vuole sedersi al tavolo da gioco dove la posta è molto più alta. Il potere è un circolo esclusivo, e il consenso è una carta fortissima, ma non invincibile, soprattutto se gli avversari tengono il banco, e possono tirare fuori l’asso da un momento all’altro. Silvio Berlusconi anche se è un uomo di relazioni – lo si vede in giro a Milano, scende spesso a Roma – fa comunque paura. Il carisma televisivo, la battuta sempre pronta, quel sorriso stampato sul volto, sono armi insidiose perché il suo retropensiero resta indecifrabile. E più Forza Italia sale nei sondaggi, più Silvio Berlusconi sembra voler fare da sé. Chi tiene il banco deve invitarlo a sedersi al tavolo da gioco, prima che sposti la partita altrove, su un altro tavolo da gioco, prima che il mitomane diventi mito.

La grande coalizione

È l’11 febbraio del 1994. È il giorno in cui Paolo Berlusconi, fratello minore di Silvio Berlusconi viene accusato e condannato dai magistrati del pool di Milano che operano nel contesto di Mani Pulite per aver pagato tangenti al fondo pensioni Cariplo – lui stesso, lo ammette quel giorno ottenendo gli arresti domiciliari – in cambio dell’acquisto di tre immobili appartenenti all’Edilnord, di proprietà della famiglia B. È un colpo dritto al cuore – in piena campagna elettorale, quando il Cavaliere è primo nei sondaggi – è un colpo basso al nascente clan Berlusconi. A scorrere è sangue del suo sangue. Il leader di Forza Italia, è di fronte a un bivio. Chiamare a raccolta il suo popolo fuori dalla Procura di Milano, e vincere la guerra, (prima ancora di combatterla) oppure abdicare, per vincere la battaglia elettorale e poi perdere la guerra. Sceglie la seconda. “Sono molto addolorato, ma molto sereno, conosco mio fratello e so come ha lavorato in questi anni, sono convinto che questa vicenda si concluderà in modo assolutamente positivo. Spero proprio di poter continuare ad avere fiducia nella magistratura”, dirà la sera stessa. Un mese e mezzo dopo vincerà le elezioni, poi, il 22 novembre, riceve un avviso di garanzia (annunciato il giorno prima dal Corriere della Sera, una grave accusa di corruzione di finanzieri da cui uscirà assolto soltanto nel 2001), poco dopo cadrà il governo “sulle pensioni”, e trent’anni dopo, firmerà la pace – dunque la resa – con gli avversari, nella grande partita del Quirinale.

20 aprile 2013. Da un paio di mesi si sono svolte le elezioni politiche (25 febbraio). Il Movimento 5 Stelle ha sbancato, contro ogni previsione di opinionisti e sondaggisti, ed è il primo partito in Italia (se scorporiamo le coalizioni). Un trionfo targato Gianroberto Casalggio e Beppe Grillo, eminenza grigia e frontman di una campagna elettorale travolgente – e sottomediatizzata – nel web come nelle piazze. Sono passati cinque anni dalle ultime votazioni, tra il 2011 e il 2012 c’è stato il passaggio dal governo Berlusconi IV al governo Monti, i partiti tradizionali sono letteralmente a pezzi. Chi vota può dare un segnale forte, sottolineare il dissenso nei confronti della tecnocrazia. Dall’oggi al domani il M5S si ritrova una grossa pattuglia di deputati all’interno di un Parlamento che deve essere “aperto come una scatoletta di tonno”. Ma quando hai a che fare con i professionisti del parlamentarismo, l’improvvisazione serve a poco. L’arte del compromesso è più forte di qualsiasi show, anche se viene trasmesso in streaming. Le parole viaggiano nell’etere, arrivano dritte al cuore, alla pancia, alla testa degli italiani che guardano in diretta sui loro smartphone consultazioni, dirette, riunioni parlamentari, conferenze stampa. La sotto-rappresentazione è lampante, ma è la legge elettorale. L’indignazione, che si basa sui sentimenti, viene alimentata dalle larghissime intese, sempre più evidenti. Più passa il tempo, più la strategia per tenere fuori il Movimento 5 Stelle da qualsiasi ipotesi di governo, e così come quella di indicare il prossimo presidente della Repubblica, senza i loro voti, diventa eccessiva, straordinaria, a tratti, grottesca.  Nel frattempo, sul web, nelle chat, sui forum, il passaparola aumenta di volume, e con esso aumenta il volume dello scontro. L’appuntamento è davanti a Palazzo Montecitorio, per impedire la convergenza sulla votazione del Pdr, premessa inevitabile del “governo del piddìmenoelle”. 18 aprile, primo e secondo scrutinio. Sui cartelli di coloro che i mezzi di informazione chiamano “grillini” c’è scritto “Rodotà”. È lui il nome scelto online dagli attivisti, e fedelmente i loro portavoce scrivono il suo nome sulle schede. Alla conta Stefano Rodotà si fermerà a 240 voti. E così sarà fino all’ultimo scrutinio. Gli altri segretari di partito hanno tutto il tempo per trovare un nome condiviso oppure convergere su Giorgio Napolitano, di nuovo. La strategia del M5S è quella di portare il Partito Democratico di fronte alle sue contraddizioni ideologiche e rubargli l’elettorato. Gianroberto Casaleggio ha analizzato più dati elettorali possibili tramite la sua società informatica. La base del Movimento è di sinistra, ma la stragrande maggioranza viene da destra – ma non bisogna dirlo ad alta voce – e dal più grande partito d’Italia, quello degli astensionisti. Per vincere le prossime battaglie elettorali, occorre strappare i voti al PD. 19 aprile, terzo e quarto scrutinio. Nell’aria c’è una strana atmosfera. Pier Luigi Bersani ha fatto intendere che i suoi non voteranno Stefano Rodotà, dunque che è pronto a trovare un accordo con Silvio Berlusconi. I re sono nudi. Davanti a Montecitorio, c’è molta più gente rispetto al giorno precedente. Non c’è più solo la base, sta poco a poco arrivando la maggioranza – né iscritti, né attivisti – che non è più tanto silenziosa. Le manovre di palazzo stancano, e il consenso per il Movimento 5 Stelle cresce in maniera esponenziale, ora che esiste ed è rappresentato in Parlamento. La serata si termina con un nulla di fatto, le posizioni dei partiti non cambiano, peggio, dalle schede il nome di Giorgio Napolitano esce fuori per la prima volta. È il segnale della convergenza. Le chat degli italiani si infiammano, si percepisce una sottile dialettica della violenza: l’appuntamento è il giorno seguente davanti a Montecitorio. 20 aprile, quinto e sesto scrutinio. Dalla mattina si capisce che sarà una giornata complicata. Le forze dell’ordine sono state avvertite con largo anticipo e presidiano tutta l’area. Le persone continuano ad arrivare ininterrottamente, a piedi, e anche sulle autostrade c’è un traffico concentrico: direzione Roma.

Gianroberto Casaleggio, fondatore del Movimento 5 Stelle

La tensione sta aumentando troppo velocemente, i parlamentari hanno finito di votare al quinto scrutinio. Quelli del Movimento 5 Stelle, inconsapevoli di quanto sta accadendo fuori, escono e organizzano un flash mob veloce al grido di Ro-do-tà. Una volta rientrati, qualcosa deve aver spaventato i funzionari del Ministero degli Interni che invitano la Digos ad agire, in qualsiasi modo, per prevenire qualsiasi forzatura, per evitare che le proteste pacifiche diventano un movimento incontenibile. Non sappiamo cosa è successo in quelle ore, possiamo però immaginare il confine che separava i metodi di azione di Gianroberto Casaleggio da quelli di Beppe Grillo. Alessandro Di Battista, il deputato più carismatico (allora non era quello più popolare), scende nuovamente da Montecitorio, da solo questa volta, per dare un segnale ai manifestanti e calmare gli animi. La storia poi la conosciamo. Giorgio Napolitano verrà eletto nel pomeriggio, una settimana dopo verrà formato il governo Letta, sostenuto da Pd e Pdl, e proprio mentre al Quirinale è in corso il giuramento, un uomo, vestito in giacca e cravatta, apre il fuoco con una pistola calibro 7.65 contro i militari dell’’Arma che presidiavano l’area intorno a Palazzo Chigi, ferendo gravemente due carabinieri. Il suo obiettivo, come ha poi confessato, erano “i politici”. Questo era il clima di quei giorni. Per commentare gli accadimenti Beppe Grillo dirà una verità inconfutabile: “abbiamo incanalato tutta la rabbia in questo movimento, dovrebbero ringraziarci uno ad uno: senza di noi l’Italia sarebbe guidata dalla violenza nelle strade”. Gianroberto Casaleggio invece rimarrà in silenzio.

9 marzo 2020. La Cina non sembra così vicina, e intorno al caso del paziente zero di Codogno, manca la stessa chiarezza che invece c’è su Wuhan. E poi qui ci vuole più tempo: occorre mettere tutti d’accordo: il potere centrale e le regioni, i vari pezzi dell’establishment, i servizi di sicurezza e quelli segreti, gli operatori finanziari e il Mef, Roma e Bruxelles. Occorre infine scrivere la circolare e fare approvare il decreto dal Consiglio dei Ministri. E il tempo, alimentato dalla paranoia massmediatica e dei social network, è una pistola puntata alla tempia. Così si entra in una fase di stallo e di incertezza, in cui l’OMS non dà spiegazioni, sottovaluta il contagio, i supermercati iniziano ad essere presi d’assalto, le scuole vengono apparentemente chiuse, gli uffici svuotati, l’Unione Europea non è pervenuta. Viene firmato il primo decreto ministeriale ma aggiunge caos al caos: è incomprensibile agli occhi dei cittadini. Lunedì 9 marzo è un giorno che dovrebbe rimanere nei libri di storia: l’Italia è un Paese che per 24 ore non ha nessuno al comando, dove regna l’incertezza in tutta la Penisola. La Borsa Italiana chiude gli scambi con un pesante ribasso: meno 11% punti percentuale. Il peggiore dato dal 2016, e considerando il periodo dal 10 febbraio al 9 marzo 2020, il totale del ribasso netto, è un numero shock: meno 25% punti percentuali, ovvero sono bruciati in un mese i guadagni dell’anno precedente.

La rivolta nelle carceri, marzo 2020

Le maglie della sicurezza sono larghissime, le strade deserte, i programmi televisivi sospesi, le redazioni giornalistiche e radiofoniche disertate, i palazzi del potere abbandonati, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dal Quirinale, resta in silenzio. Non a caso è in questo preciso istante che partono le rivolte, in simultanea, da diverse carceri italiani, che vanno letteralmente a fuoco. Vengono distrutti e devastati, oltre 70 istituti penitenziari, a cui si aggiungono 30 penitenziari che hanno avuto manifestazioni pacifiche, su un totale degli Istituti sul territorio nazionale pari a 189 prigioni. Anche le celle si svuotano. È in quelle 24 ore ci sono tutti gli elementi insieme alle congetture nazionali e internazionali per un colpo di Stato. Lo Stato profondo è perfettamente consapevole di questo vuoto di potere e il potere ha paura del vuoto. Per scongiurarlo, nell’arco delle 24 ore successive riprende in mano tutto, cambia tutto, forza radicalmente la narrazione della realtà perché nessuno in quelle ore è in grado di spiegarla e di dare le risposte che qualcun altro, nel panico diffuso, potrebbe offrirle. Così in poco tempo arrivano i primi reportage dalle terapie intensive, coi giornalisti in assetto di guerra, l’OMS dichiara “pandemia” e il governo Conte è il primo governo occidentale a far passare un decreto che ferma il tempo e sigilla lo spazio. È un decreto della paura, inquadrato dal frame della psicosi dei mezzi di informazione, con i bollettini serali a scandire le lancette del “lockdown”, con la polizia che dà caccia agli untori. Da quel giorno, l’Italia, contro ogni pronostico, è diventata la sentinella occidentale dello Stato che si è fatto smartphone.

In copertina: i Serenissimi che assaltarono clamorosamente Piazza San Marco nel maggio del 1997 con un rudimentale carro armato per portare avanti la causa dell’autodeterminazione della città di Venezia e della regione del Veneto.

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"Ho nostalgia del cielo terso di fine giugno, delle chiacchierate infinite davanti al tè o alla vodka. Ho nostalgia del treno, sono stato due volte in treno in Urss, due volte in nave. Da Odessa c’era un servizio di linea Odessa-Venezia. Era impressionante ai tempi fare quella lunga traversata, con quegli ambienti e quelle situazioni quasi da romanzo. Ho nostalgia del treno, di quei tempi lunghi, come di quei sapori e odori che sono spariti anche nella Russia di adesso. Ho nostalgia dell’odore di quelle Papirosi (marca di sigarette, ndr), con quel tabacco di infima qualità che era diffusissimo nel Paese. Un Paese al quale sono indissolubilmente legato, e di cui continuo a studiare la storia".

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