Infodemia: dall’inglese infodemic, info(rmation) + (epi)demic, circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che ostacolano la capacità di orientarsi su un argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili.
Un virus sconosciuto ha generato un tale stato di incertezza da instillare nei cittadini un immediato bisogno di rassicurazione, da ricercare nella conoscenza e nell’informazione. Questo bisogno è rimasto parzialmente insoddisfatto, considerate le tempistiche dettate dalla ricerca scientifica per arrivare alla completa decodifica di un virus nuovo, e tenuta in conto la cacofonia tra media e voci istituzionali e l’opportunità colta da numerosi attori di speculare inondando il web di contenuti dubbi e fake news. Pertanto, la risposta si è tradotta in narrazioni giornalistiche contraddittorie e spettacolarizzanti che non hanno fatto altro che aumentare il senso di smarrimento delle persone, contaminandoci con un virus ancora più pericoloso. Possiamo affermare che l’emergenza COVID-19 ha rappresentato una vera e propria disruption per la comunicazione pubblica, mettendo a nudo le criticità e le resistenze al cambiamento di numerose istituzioni, in un contesto di abbondanza informativa e sovrapposizione tra i diversi livelli dell’informazione. Si pensava che i media e la tecnologia fossero strumenti di per sé neutri, un semplice tramite tra gli arbitri e l’oggettività del giudizio. Si sta invece imparando che essi non sono mai neutri, ma abitano la realtà modificando e plasmando il rapporto dei cittadini con essa.
Uno degli aspetti focali dell’infodemia è la comunicazione allarmistica. Una notizia che ci coinvolge emotivamente è capace di mettere in gioco gli ormoni, come se ci si trovasse di fronte ad un pericolo concreto e visibile, che esige massima attenzione. Le notizie ad elevato impatto emotivo, capaci di generare ansia, tensione, paura o rabbia, tendono ad attrarre di più il lettore o spettatore. Ansia e paura sono emozioni filogeneticamente molto antiche, entrambe finalizzate alla difesa dell’individuo ma, mentre la paura si attiva di fronte ad un pericolo reale e scompare una volta cessata la minaccia, l’ansia può manifestarsi anche in relazione ad una minaccia percepita, ad un pericolo ancora vago, grazie alle capacità cognitive di immaginazione, anticipazione e pianificazione. Essa può perdurare anche in assenza di una reale minaccia e compromettere il normale funzionamento sociale delle persone.
La sovrabbondanza di informazioni allarmistiche, evocando immagini, fantasie e anticipazioni del pericolo, è in grado di innalzare le quote d’ansia a livelli non più fisiologici. Su questa traccia si inserisce anche il fenomeno del doomscrolling, che identifica il compulsare una dietro l’altra notizie drammatiche, deprimenti e tristi. In inglese, doom significa sventura, mentre scrolling è il verbo che identifica l’atto di scorrere la bacheca di un social network. Ciò si lega a precisi algoritmi che sono pensati per tenere le persone incollate agli schermi che potenzialmente si possono scorrere senza mai arrivare ad una fine. Questo fa sì che le persone non si sentano mai completamente aggiornate, contribuendo alla cosiddetta FOMO (Fear Of Missing Out, la paura di perdersi qualcosa). Il doomscrolling costringe le persone in un circolo vizioso di negatività che alimenta l’ansia, dovuto alla scoperta continua di minacce da cui sentiamo istintivamente la necessità di proteggerci.
I titoli, sbagliati, imprecisi o ingannevoli, sono divenuti una costante, con il fenomeno del clickbaiting. Titoli studiati e scritti per andare incontro alla pigrizia del lettore, attraverso i quali ci si illude di aggiornarsi e che invece puntellano e rafforzano il messaggio ansiogeno di cui la notizia è impregnata. Uno scenario triste, in cui a perdere non è solo il cittadino, ma anche la credibilità degli stessi media. E in una democrazia, un’informazione di qualità è un elemento irrinunciabile.
Che tipo di informazione si può dire di aver ricevuto in questi mesi? Se pluralismo e indipendenza sono i due concetti cardine per analizzare lo stato di salute della comunicazione, si può affermare che il quadro emergente non è affatto rassicurante. Il complesso del sistema mediatico si è difatti omologato ad una visione “terroristica” della pandemia. La narrazione ha privilegiato una visione pessimistica, il racconto è univoco, le fonti accreditate sono quasi sempre le stesse, le voci critiche vengono isolate o silenziate, le vicende interpretate per dar corso ad una descrizione catastrofista. La linea rigorista è l’unica che passa, le voci discordanti sono poche ed isolate dal coro. La gerarchizzazione delle notizie privilegia un racconto a tinte fosche, dietro cui si cela la convinzione che il terrore venda meglio della rassicurazione. La cronaca è orientata quasi esclusivamente alla ricerca a-critica delle notizie negative. La critica è rivolta solo verso chi mette in discussione la narrazione mainstream. Esemplificativo il trattamento riservato alla Svezia, che ha scelto strategie differenti da quelle chiusuriste: poche notizie, elaborate in chiave negativizzante, e tese a rafforzare la narrazione patriottica dell’Italia, in cui tutto era stato fatto nel migliore dei modi.
Quanto visto in questi mesi è stato quasi sempre una ripetizione parossistica delle informazioni ufficiali fornite dalle autorità. È mancato quel lavoro di inchiesta e di analisi che sarebbe alla base del giornalismo, al fine di fornire un’informazione obiettiva, documentata e veritiera. Si assiste alla tendenza ad urlare qualsiasi notizia arrivi dai laboratori, presentando risultati non ancora validati come verità assodata. Di fatto, l’informazione si è trasformata in una sorta di bollettinizzazione, avendo per lo più i giornalisti abdicato al lavoro di verifica e confronto che dovrebbe caratterizzare il loro operato. Un’informazione sciatta e approssimativa, che al cittadino fornisce un servizio indegno di una società evoluta, per di più noncurante dell’impatto che ha sulla percezione del contagio da parte delle persone, vero driver dell’epidemia. A che servono le misure restrittive, specialmente quando protratte per mesi, se al cittadino viene fornito costantemente un feedback distorto? Emerge stridente la totale e pervasiva asincronia tra l’effettiva circolazione virale e la sua narrazione.
Un’informazione indipendente non può esistere senza un pubblico consapevole e proattivo. È per questo che la qualità dell’informazione è strettamente connessa con quella del dibattito scientifico e del processo politico e democratico. È proprio questa la nota dolente. Quello a cui si è assistito nell’ultimo periodo è un fallimento del rapporto di fiducia reciproca tra il cittadino e le istituzioni. L’uno non si fida dell’altro: non c’è interesse ad educare le persone e a renderle decisori informati, sulla base di dati e informazioni che vengono loro fornite. Il dramma – e qui si annida il cortocircuito – è che l’epidemia dipende strettamente da ciò che fanno le persone, e i comportamenti sono determinati dalla consapevolezza di quel che ci accade attorno. Pertanto, per uscire dall’epidemia ci vuole qualcosa in più di un sistema calato dall’alto, attraverso imperscrutabili algoritmi, che ci dice se si può uscire di casa o meno. Ci vuole collaborazione vera, coinvolgimento attivo delle persone. Si pensi a quanto è cambiata la partecipazione emotiva rispetto a marzo 2020, che ora è sfociata in una sfiduciata e sfinita accettazione delle misure restrittive che ci vengono imposte.
A perdere credibilità è la stessa fondatezza della battaglia con la conseguenza che, se durante il lockdown i cittadini sono stati disposti ad accettare le misure restrittive e la compressione dei diritti, ora si fa fatica ad accettare le regole più basilari, poiché è stato eroso il capitale di fiducia che aveva caratterizzato la risposta corale all’emergenza. Continuamente in ritardo sui movimenti del nemico, i nostri comandanti combattono una guerra disordinata e frastornata, che spreca munizioni e manca molto spesso il bersaglio. È solo grazie alla perseveranza dei soldati che il fronte resiste. Delle nostre preziose energie, stremate da tanti mesi, si potrebbe fare un uso ben più accorto e si potrebbero motivare in modo più efficace gli sforzi ancora richiesti. Seminare il panico non è un buon servizio per nessuno, e sarebbe auspicabile che chi si occupa di stampa e di comunicazione si fermasse a riflettere sul significato più nobile del proprio mestiere.