Roma. L’aumento dei contagi (e la piscosi) a cui si aggiunge il calo improvviso delle temperature – che si è portato via i pochi turisti e gli ultimi residenti del centro storico – ha trasformato la città in un deserto di pietra. Ma nel triangolo delle trame e dei pettegolezzi – quello che collega Piazza Navona (Bar del Fico), Piazza di Pietra (Enoteca Spiriti), e piazza delle Coppelle (Le Coppelle) – c’è vita. Un movimento intenso, sottotraccia, promiscuo, dove giornalisti incontrano politici, politici parlano al telefono con altri politici, giornalisti si scambiano informazioni con altri giornalisti. È arrivata la stagione del Quirinale, è giunta la settimana decisiva, quella in cui i segretari dei partiti si giocano tutto. E in tempi di Covid, sul piano narrativo, sembra di stare in Afghanistan durante la caduta di Kabul. Da noi non sono tornati i talebani, gli Haqqani, i seguaci del Mullah Omar, pertanto i network di potere sono più o meno gli stessi di venti, trent’anni fa. La terra sotto i piedi trema, anche se l’impeto, l’impatto, è molto meno violento che lì ad Oriente, dove il caldo ha portato la fame, e il freddo si sta portando via gli affamati. Qui si gioca un’altra partita. Altrettanto decisiva, per i canoni occidentali.
Se fino a qualche settimana a contendersi la presidenza della Repubblica erano Mario Draghi e Sergio Mattarella, la nuova discesa in campo di Silvio Berlusconi – , che al potere ha sempre preferito il sabotaggio – ha letteralmente sparigliato le carte. In realtà il Cavaliere non crede di poter essere eletto alla quarta votazione, la sua apparente fissazione nasconde la volontà di fare finalmente i conti con il passato, di mettere la parola “fine” una volta per tutte, a uno scontro epocale e generazionale, che solo venti, trent’anni dopo può terminarsi con una tregua. Lo ha lasciato intendere anche Giuliano Ferrara, tra le righe, in un articolo intitolato “E i poteri forti?” pubblicato qualche giorno fa sul Foglio, con un chiaro riferimento ai “ragazzi (non più ragazzi) del 92”, coloro che inaugurarono la Seconda Repubblica, per poi essere travolti politicamente dal Belusconismo, e infine tornare in massa nelle “places to be” con la nomina di Mario Draghi a capo dello Stato, e una visione del mondo in parte mutata col mutamento del contesto storico. Giuliano Amato (attualmente vice presidente della Corte Costituzionale), Franco Bernabé (Presidente delle Acciaierie d’Italia), Francesco Giavazzi (consigliere economico di Mario Draghi), Gianni De Gennaro (presidente del Centro Studi Americani), Paolo Scaroni (attuale presidente del Milan), e in parte anche Romano Prodi e Massimo D’Alema, tutti figli di quell’epoca, il 1992, grande spartiacque della Repubblica Italiana.
Così Silvio Berlusconi, all’età di 85 anni, in piena sfida quirinalizia, torna, non per fare la guerra, ma per firmare l’ultimo trattato di pace. Da qui, la sua strategia di tenere altissima la pressione su tutto il centrodestra per far passare sottotraccia la candidatura di Gianni Letta (86 anni), “Zio Gianni”, colui che fu nominato suo ambasciatore personale nella “Repubblica Romana”, quel sottobosco trasversale di consiglieri di Stato e uscieri, vertici Rai e giornalisti, Cardinali e piccoli parroci di città, banchieri e impiegati. A suggerircelo sono anche le nostre fonti: “tra i corridoi si bisbiglia un nome forte Gianni Letta”, ci suggerisce un certo “Corazziere”). Se Gianni Letta ha un problema – dice chi lo conosce e frequenta – è che nella sua vita ha detto tantissimi “Si” e pochissimi “No”. Questo è sia una forza che una debolezza per l’eminenza azzurra, soprattutto in un momento in cui, tra alcuni di quei “No“ c’è qualche leghista che ora conta qualcosa in più di trent’anni fa e durante i governi Berlusconi preferiva le cene con Tremonti (guarda caso rispuntato tra i quirinabili dell’ultim’ora) rispetto a quelle con la “ditta” (Gianni appunto e Gigi, Bisignani ndr). Staremo a vedere, se il suo nome uscirà fuori dalla quarta tornata in poi.
Di sicuro alla conta il Cavaliere perderebbe, nonostante la rubrica telefonica di Vittorio Sgarbi, ma Gianni Letta qualche speranza in più, ce l’avrebbe. Gianni Letta del resto sarebbe una candidatura gradita al Partito Democratico, Italia Viva e quella parte del Movimento 5 Stelle che risponde a Luigi Di Maio, il quale appoggiando indirettamente questa strategia, si garantirebbe un destino politico ben oltre il destino elettorale del suo partito. Ma soprattutto potrebbe essere condivisa persino dai “ragazzi del 92”, qualora la sua presidenza durasse il tempo della legislatura per poi spalancare le porte del Quirinale a Mario Draghi. Ecco allora che il cerchio si restringe e i nomi più papabili rimangono in questo ordine: Sergio Mattarella (bis, come suggeriva Luigi Bisignani sul Tempo), Gianni Letta (et similia), Mario Draghi, per ultimo, Dario Franceschini.