Luigi Di Maio è camaleontico, fulmineo, onnipresente. È entrato in Parlamento a 26 anni nei panni di vice-presidente della Camera dei Deputati, diventa col passare del tempo capo del Movimento 5 Stelle, regista assoluto dell’alleanza gialloverde; a 32 anni, poi, vice presidente del Consiglio nonché Ministro dello Sviluppo Economico del Governo Conte I, infine protagonista del mutamento antropologico del suo partito, al punto da sopravvivere alla ricomposizione della maggioranza, con l’incarico di Ministro degli Affari Esteri nel Governo Conte II. Una decisione tutt’altro che casuale. Dalla Farnesina, roccaforte dello Stato Profondo, si tiene lontano dalle guerre interne del Movimento 5 Stelle quanto dalle discussioni in seno alla maggioranza con il Partito Democratico. Si costruisce una visione del mondo, ricuce un immaginario di sé, accreditandosi in Italia con i suoi omologhi stranieri e, soprattutto all’estero, come rappresentante di una potenza del G7; parallelamente, in patria, gioca a fare l’eminenza grigia, nei corridoi dei Palazzi, negli ingranaggi del potere. Tra un viaggio e l’altro, studia l’inglese, firma carte, approfondisce i dossier di sua competenza, detta l’agenda della politica estera italiana, incontra a porte chiuse Mario Draghi, Massimo D’Alema, Gianni Letta, il Presidente Mattarella e altri boiardi di Stato. Rilascia interviste e trova persino il tempo di firmare editoriali in prima pagina su tutti i mezzi di informazione. Scrive 10 punti su Il Foglio, prospetta una visione dell’Italia su La Repubblica, pubblica un panegirico di Enrico Mattei, uno dei più grandi patrioti che l’Italia abbia mai conosciuto dal Dopoguerra ad oggi, su Civiltà delle Macchine, rivista della Fondazione Leonardo.
In Italia per sopravvivere politicamente devi fare i conti con te stesso, con la tua attitudine: o giochi il tutto per tutto (e vinci una volta sola) oppure stai nell’ombra (e vinci per sempre). Luigi Di Maio ha capito, prima di Matteo Salvini, prima di Giuseppe Conte, prima di tanti suoi colleghi del Movimento 5 Stelle, che nel Belpaese, conservatore per temperamento, tribale per storia, fondato sulle relazioni pubbliche ma anche sui rapporti umani, non si governa unicamente con il consenso popolare ma con la dissimulazione, che i musulmani chiamano taqiyya. Cioè, la capacità di avere un atteggiamento accondiscendente e non antagonista, all’interno di una comunità ostile. È una strategia sottile, che richiede pazienza, memoria, auto-controllo. Richiede un linguaggio del corpo composto, una mimica facciale indecifrabile, un’eloquenza inequivocabile. Del resto, Di Maio appare molto più a suo agio a Porta a Porta, intervistato da Bruno Vespa, che paparazzato sulle riviste patinate. Persino nei colloqui internazionali il suo physique du role mente meno che nelle piazze, tra gazebi, striscioni, bandiere e palcoscenici. Il Potere ti chiude le porte, poi ti deride, infine, se sei abile nel grande gioco delle relazioni e delle negoziazioni, te le spalanca. È la parabola di Luigi Di Maio, trattato da “bibitaro” nei primi anni di vita politica, considerato oggi uno statista anche da coloro che lo hanno sempre trattato come un dilettante allo sbaraglio. Lo stesso Renato Brunetta, esponente del partito forse più antitetico al Movimento 5 Stelle delle origini, Forza Italia, lo ha definito “un vero leader”. Chi lo sfotteva ora deve farci in conti. È pur sempre un membro del Governo. Il più amato di sempre dai depositari del Bene.
Di recente sono usciti i Diari segreti di Giulio Andreotti che raccontano la storia d’Italia in “post it”, dalla torretta di un osservatore speciale. Ben più interessanti degli appunti, molto asciutti e stringati, sono le dichiarazioni di uno dei suoi curatori, Stefano Andreotti (il figlio) che in un’intervista, alla domanda Se suo padre fosse vivo, cosa penserebbe della politica attuale?, risponde: “Guardi, è un modo completamente diverso di fare politica. Non credo avrebbe avuto in simpatia il modo di intendere la politica di oggi in generale, e in particolare del Movimento 5 Stelle e di Salvini”. È paradossale, ma invece è proprio il Movimento 5 Stelle ad aver riprodotto, con tutto il rispetto per “Il Divo”, su piccola scala e con le categorie politiche del nostro secolo, la personalità più simile, nei modi come nel metodo, allo statista più longevo del Dopoguerra ad oggi.
Il giorno della morte di Giulio Andreotti, il giornalista Filippo Ceccarelli, scrisse: “Eterno testimonial, divenuto quasi un elemento del paesaggio politico, senza farlo mai assomigliare, come succede spesso oggi nella politica degli esibizionismi, a un fenomeno da baraccone, Andreotti non si lasciava ingabbiare negli schieramenti, era un politico empirico, c’è un video in cui dice che ‘quando uno si volta quello che c’è a destra diventa di sinistra’. Oggi lascia il ricordo di uno stile politico ormai scomparso: buona educazione, salda imperturbabilità, spontanea ipocrisia, vocazione allo sminuzzamento, anche alla banalizzazione”. A Luigi Di Maio mancano ancora quegli elementi imprescindibili per durare “mezzo secolo” come l’ironia, la devozione a Dio e una cultura profonda encomiabile, eppure le parole di Ceccarelli sembrano cucirsi addosso al suo carattere. Il nostro è un Paese che non ha memoria, dunque riesce a eccedere nei ricordi, perché tutto viene assolto, glorificato e alla fine beatificato. Se Silvio Berlusconi viene considerato oggi, da tutto l’arco parlamentare, un “uomo responsabile” di fronte all’epidemia, è probabile che anche l’attuale Ministro degli Esteri, se sarà in grado di conservare il potere non per il potere ma per ingannare la morte, divenga un “sopravvissuto”. Il Movimento 5 Stelle passerà, Luigi Di Maio difficilmente. In fondo, nemmeno Giulio Andreotti, da giovanissimo, indossava quegli occhiali divenuti simbolo di magnificenza, e come insegna Jung, il mito si costruisce nell’inconscio, e soprattutto, nel tempo, in vecchiaia. O post-mortem.