Un lunedì da incubo conclusosi con un pareggio che non sta bene a nessuno, e poco importa se la partita alla fine abbia dato ragione al premier in carica, perché la presidente del Senato Casellati ha riammesso sul fotofinish i senatori Ciampolillo e Nencini, quest’ultimo simulacro della rottura di Renzi con il PD risalente a due estati fa. L’esito del voto di fiducia al governo Conte II conferma il pessimo stato di salute della politica romana. Un tira e molla dove la presa non la vuole mollare nessuno, e le ragioni sono, sotto certi aspetti, piuttosto semplici.
Matteo Renzi si è dimostrato ancora una volta scaltro attore. Riesce a fare leva sul suo risicato 2%, lasciando ampio spazio di polemica ad un’opposizione con poche idee, ma che ha gioco di facile arroccamento sulle proprie posizioni, di fronte al difficile momento che vive il Paese e i sempre più complessi dossier sul tavolo. Lo stesso Renzi, che pare voler proporre soluzioni, ha tutto l’interesse di riuscire a far proseguire la legislatura almeno per altri 18 mesi, agevolando poi la sua candidatura alla NATO. Orizzonte sicuramente non impensabile, se si tiene in considerazione l’opportunità di congelare lo stato dell’arte a partire dalla fine di luglio di quest’anno, quando inizierà il semestre bianco del mandato del presidente Mattarella. D’altro canto Renzi, con il 2%, difficilmente riuscirebbe a ricostruire il mosaico per riprendere la strada della Presidenza del Consiglio, e l’astensione di Italia Viva al Senato si colloca proprio nell’ottica renziana di logorare Conte e il suo consenso.
Ma si sa, l’elettorato italiano ha la memoria corta, e in un momento confuso e disorganizzato come quello attuale, occupare e presidiare i vuoti potrebbe essere una chiave vincente per il riposizionamento di tanti attori dello scenario attuale. Conte, nemesi di Renzi, è oggi il leader politico più amato dal popolo votante e spettatore della crisi, lo vede come un diligente pater familias, ed egli stesso si sarebbe reso conto essere un peccato depauperare il consenso ad oggi costruito. Le recenti indiscrezioni – immediatamente smentite – rispetto alla bozza del logo di un movimento politico nascente con l’attuale premier al timone, con una quanto mai certa collocazione in quel terzo polo che per decenni in tanti hanno provato invano ad occupare, trovano spazio concreto nelle analisi di scenario.
Oggi, forse, è già quel domani. L’arco parlamentare da fine Prima Repubblica che vediamo oggi, soprattutto alla luce della Riforma Costituzionale e della sforbiciata di parlamentari, necessita di una profonda riorganizzazione. Alcune esperienze politiche sembrano al bivio e si avvia la riorganizzazione delle insegne. Forza Italia comincia a perdere pezzi, alcuni meno pregiati di altri, ma tanti sotto la non più protettiva ala del Cavaliere sono pronti a fare le valigie, chi direzione Lega, chi verso un polo moderato che ad oggi non c’è, ma di cui si possono immaginare future possibili espressioni. Anche lo stesso Movimento 5 Stelle non sembra in salute, e le numerose defezioni degli ultimi mesi, degli Stati Generali che non hanno condotto alla sostituzione del segretario reggente Crimi, sembrano segnali di una rottura inevitabile, con la conseguente ricognizione delle correnti maggioritarie. Quanto scritto da Nicola Biondo sul Riformista di mercoledì 20 gennaio forse un anno fa sarebbe stata fantapolitica, ma allo stato attuale forse una realtà abbastanza prossima. Conte e Di Maio tengono in piedi a fatica una maggioranza dove tutti soffrono l’anarchia insita nella natura del Movimento stesso, mai riuscito ad essere monocratico ed equilibrato nella sua struttura interna, e gli ultimatum al governo si susseguono ad ogni ostacolo sul cammino. Il casus foederis potrebbe proprio essere un governo politico in cui Conte non sia più il Presidente del Consiglio (Franceschini e lo stesso Di Maio potrebbero essere dei nomi nell’urna), eventualità che lascerebbe a molti la possibilità di lavorare a nuovi progetti politici con maggiore serenità e senza il peso di decisioni impopolari rispetto alla pandemia e al piano di ripresa di un’economia allo stadio terminale.
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— L’Intellettuale Dissidente (@IntDissidente) January 15, 2021
Esiste la possibilità di un nuovo Centro moderato? La risposta è inevitabilmente affermativa. La narrativa politica recente e le tornate elettorali degli ultimi anni ci hanno consegnato ad un elettorato esigente, severo, sofista e avido, che domanda risposte concrete ed immediate nel brevissimo periodo. Ciò ha reso più diretto il rapporto tra votanti ed eletti, generando correnti politiche afferenti al civismo: un nuovo fronte popolare geograficamente prossimo ai cittadini, che risponda ad esigenze di carattere locale, di vicinato, e che sia portavoce di istanze di sistema. Potremmo ricondurre a tale visione tanti neoeletti governatori regionali, che negli anni hanno tessuto le loro tele di consenso attraverso movimenti politici locali ed associazioni: i vari Emiliano e Zaia, o anche i Bonaccini e i De Luca sono oggi il prodotto di questo nuovo paradigma glocalista della politica. Sarà impossibile appaiare tutti questi nomi sotto la medesima insegna, ma tra questi vi sono alcuni che durante gli ultimi mesi hanno costruito importanti rapporti con Conte e Di Maio, e che sicuramente non vedrebbero in Renzi il subalterno ideale per portare avanti questa visione sistemica centrista, verso la quale il Presidente del Consiglio resta più gradito punto di riferimento rispetto al leader di Italia Viva.
Renzi ha alzato la posta in gioco, de facto relegando l’opposizione ad un ruolo marginale nello scenario, candidandosi a comporre questo dualismo centrista con Giuseppe Conte. D’altronde Calenda, per quanto “sul pezzo”, stenta a far decollare Azione, con un atteggiamento sempre paternalistico e poco accondiscendente con qualunque altro leader di partito, mentre come detto, l’esperienza moderata di Forza Italia sembra essere al capolinea, e non tutti sono disposti ad abbracciare il nuovo progetto politico della destra italiana. Sebbene la Meloni abbia guadagnato moltissimo terreno, uscendo dalla dimensione di partito ad una sola cifra, ma che di fatto cresce erodendo il consenso stagnante della Lega, che continua a pagare lo scotto di una crisi di governo dalle tempistiche e dalle modalità completamente sbagliate. Un riscatto potrebbe giungere a seguito delle partite elettorali sui grandi centri metropolitani, contemporaneamente al voto quest’anno, dove si giocherà un’importante partita in trincea.
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