In principio era l’americanizzazione dei costumi. Pier Paolo Pasolini lanciò l’allarme sulle colonne del Corriere della Sera il 17 maggio 1973 con un articolo dal titolo Il “folle” slogan dei jeans jesus. Nel Dopoguerra la borghesia incarnava per PPP un nuovo spirito, molto più permissivo, che avrebbe sostituito la morale religiosa, per fornire agli uomini una visione totale e unica della vita. Col Piano Marshall sbarcava in Europa anche “l’ideologia del desiderio” (Clouscard) che avrebbe spalancato progressivamente le porte alla società dei consumi di massa, dunque al cosiddetto american way of life. E accanto a un prestito monstre in dollari, il complesso industriale-culturale, portava con sé prodotti e servizi che avrebbero rivoluzionato l’immaginario di un intero continente. Perché in fondo anche gli oggetti, al pari delle ideologie, possono cambiare il mondo. Arrivarono i poster, il juke-box, il rock, i fast food, la coca-cola, i reality show, il rap, i social network, gli smartphone, e appunto, i jeans. È il progresso, dicevano!
Alcune società europee, più fragili, avrebbero accettato questa colonizzazione culturale senza opporre resistenza, altre invece, per storia e tradizioni, inconsciamente forse, sono riuscite a non farsi travolgere del tutto. Quella italiana è tra queste. Del resto Renato Carosone quando scrisse nel 1958 Tu vuò fa’ l’americano prendeva per i fondelli tutti quegli italiani che scimmiottavano con fare provinciale uno stile di vita straniero con i “soldi di mammà”. Quella canzone non arrestò un processo di omologazione ma perculò un’intera generazione tracciando i confini dell’italianizzazione dell’americanizzazione, che a volte diventa folklore, altre arcitalianesimo. Nel solco di un’identità tutta nostra che si definisce per la sua passività alle contaminazioni straniere e dunque alla sua impermeabilità. L’Italia è sì, per storia e geografia, una terra di passaggio, un crocevia di popoli, clan, tribù, che invece di farsi travolgere, le assimila o le respinge, in un processo di integrazione forse unico al mondo. Perché a differenza di Paesi come l’Inghilterra o la Francia, questo non è mai stato delegato (e dogmatizzato) agli intellettuali, ma è stato lasciato alla strada e allo spirito del luogo, senza intermediari, affinché si auto-regolasse. Infatti i movimenti anti-razzisti, quanto i gruppuscoli suprematisti bianchi, non hanno mai attecchito nella nostra cultura popolare.
Se prima il nostro futuro sembrava negli Stati Uniti, ora nel 2020, pare che si scriva in Cina. Ce la siamo in parte scampata all’american way of life, e leggendo Red Mirror (Laterza) di Simone Pieranni, risulta davvero complesso per l’Impero Celeste esportare il suo modello sociale articolato su app, algoritmi, big data, smart city, intelligenza artificiale (grazie al sostegno tecnologico del 5G) in un Paese refrattario alle nuove tendenze come l’Italia, con poche metropoli, considerato troppo antico secondo l’ufficio anagrafico. Basti vedere il risultato fallimentare di Immuni, l’app nata per “tracciare” i contagi da Covid-19, che non ha raggiunto al momento la soglia minima di download (che significa l’impossibilità di mappare e tenere sotto controllo l’evolversi dell’epidemia). Ed era pure un’emergenza sanitaria!
L’Italia è un Paese che per tradizione ha sempre chiesto aiuto allo straniero pur disprezzandone la sua autorità morale, e nel tempo è rimasta sempre fedele alle sue specificità territoriali, culturali, linguistiche. Siamo una civiltà, seppure decadente, con un’identità fortissima, che è passiva e non aggressiva, anti-giacobina per definizione, anarchica per temperamento, reazionaria per vocazione. Siamo sopravvissuti ai McDonalds, non moriremo di abbrutimento nemmeno su WeChat con lo smartphone Huawei in mano. Con buona pace di chi in Italia vuole dare caccia ai coloni del passato, e chi, con fare profetico, senza essere Céline, avverte di un presunto imperialismo cinese che cambierà radicalmente le nostre vite.