Nel suo ultimo saggio – L’ingranaggio del potere (Liberilibri, 2020) – il politologo Lorenzo Castellani compie una anamnesi del conflitto tra politica e tecnica, ovvero tra il principio democratico di rappresentanza e quello tecnocratico di competenza. Il potere tecnocratico – definito dall’autore l’altro potere, in realtà unico e solo ad incidere in quest’epoca – affonda le radici sulla certificata competenza tecnica e specialistica degli esperti, senza cioè alcuna legittimazione politica. Un percorso storico secolare ha comportato la supremazia del principio aristocratico (e gerarchico) della competenza sul principio democratico e rappresentativo della politica. Una graduale erosione degli spazi propri dell’autogoverno e della responsabilità è il risultato di una totale abdicazione della politica a favore della competenza, e nella convinzione di aver raggiunto un equilibrio l’attuale assetto ha fuso in unico potere le due forze: la tecnodemocrazia.
La dialettica conflittuale tra kratos e tecnè, osservata innanzitutto come precipitato del rapporto matrimoniale tra lo Stato e il capitalismo, collusione in grado di fornirci spiegazione all’operazione che ha condotto lo sviluppo della grande impresa e la burocratizzazione pubblica a partorire il gigante tecnocratico. All’equazione di razionalizzazione del potere va aggiunta una ulteriore variabile ovvero la scienza ed il progresso tecnologico. L’analisi poggia le basi sull’assunto che le società liberali hanno provato a rispondere alla crescente complessità dei propri meccanismi traslando il baricentro del potere dal politico al tecnico, tentando inoltre di malcelare la permanente contraddizione: ambire all’uguaglianza sostanziale dei cittadini ma ordinarli in un sistema altamente gerarchizzato e basato sul merito.
La progressiva invadenza del potere della competenza basato sulla asserita specializzazione degli esperti ha via via nel corso dei secoli delegittimato il potere politico, esautorando dapprima l’attività legislativa, e l’importanza delle assemblee parlamentari, per poi svuotare di significato anche il potere esecutivo, divenuto mero esecutore di decisioni razionali e scientifiche intraprese in un altrove irresponsabile e non rappresentativo: l’apolide infrastruttura tecnocratica. La ‘rivoluzione silenziosa’ dei competenti si fonda sulla presunzione che all’irrazionalità del dibattito politico può porsi rimedio unicamente con il supporto della tecnica e del metodo scientifico. Depoliticizzare le decisioni e neutralizzare qualsiasi scontro è l’obiettivo primo per la classe tecnica che vede la politica come un problema e non una soluzione. La convivenza di due sfere del potere, politico e tecnico, ha visto soccombere il primo, ormai spossessato dei suoi elementi costitutivi. L’autore non esclude responsabilità della stessa classe politica:
«Nella crescita dello spazio tecnocratico la politica rappresentativa non è affatto esente da colpe. Nello spossessamento del politico vi è certo l’influenza del fattore tecnico, o meglio del tecnicismo crescente dei campi d’intervento dello Stato, ma bisogna fare i conti anche con le debolezze della stessa politica democratica. Sempre più spesso , infatti, la politica è incapace di adottare misure impopolari, di affrontare gruppi di pressione, di selezionare una classe dirigente capace, di realizzare riforme e si riduce ad alienare i propri poteri ai corpi tecnocratici per scaricare altrove le proprie responsabilità. Incapace di prendere una decisione, il politico tenta di mascherare la sua impotenza facendo appello ai competenti»
Lorenzo Castellani
Il fenomeno è in atto da decenni ma nell’anno della pandemia la sua esacerbazione appare solare ad ognuno di noi. Il contenimento del contagio è stato accentrato dai governi, i quali hanno demandato ad organi tecnici l’assunzione di ogni decisione pratica non coinvolgendo neppure simbolicamente il Parlamento. Una filiera normativa in realtà già nota che vede l’ipertrofia burocratica (regolamenti, atti e norme secondarie) espansasi a dismisura negli anni ma controbilanciata dalla delegificazione da parte del potere legislativo a quello esecutivo, a sua volta mandante delle effettive soluzioni ai competenti. I competenti, la nuova élite aristocratica, accedono a questa condizione mediante il riconoscimento accademico. Una somma di individui, più che un gruppo sociale, sradicato dal territorio ed autocosciente solo in quanto detentore di un sapere specialistico, totem da difendere perché marcatore della posizione sociale di potere. Il competente è quindi il primo aristocratico della storia ad esercitare il potere senza coercizione ma con la sola manipolazione. Se nel passato dominavano i leoni con la forza, spiega Castellani, oggi i competenti sono volpi.
In questo agone così complesso che è la modernità, la casta competente ha dovuto neutralizzare ogni partigianeria politica per poter espungere dalla società l’incertezza ed imporre i propri dogmi razionali, cancellando, nelle parole dell’autore, il politeismo dei valori proprio della politica. L’indagine sottolinea il primo paradosso dell’era tecno-democratica: ad una apparente apertura di un sistema fondato sul merito si nascondono schemi intellettuali ben più ristretti.
L’inevitabilità del sostegno tecnico al vivere civile ha le fondamenta in due fenomeni storici: il primato dell’economia e lo sviluppo tecnologico. Con l’homo œconomicus diventa preminente nell’organizzazione sociale l’attività economica, che diventa più complessa ed articolata dalla Rivoluzione industriale in poi. La ‘divisione dei lavori’ tra gli uomini si tramuta in ‘divisione del lavoro’, la società si fraziona e l’individuo entra in un rapporto di dipendenza con il sapere scientifico prima sconosciuto. L’era della calcolabilità, dell’elemento quantitativo relega l’irrazionale e l’onirico all’insignificanza, e con essi anche il giudizio di valore, architrave del politico, in quanto non misurabile. Riecheggia Burke quando afferma «L’età della cavalleria è finita. Quella dei sofisti, degli economisti e dei contabili è giunta; e la gloria dell’Europa giace estinta per sempre».
Il processo di totale razionalizzazione del pensiero mira a oggettivare il tutto, uniformare ed omogeneizzare la conoscenza riconducendo al fine dell’efficienza ogni parametro di valutazione. Annullati i giudizi di valore ed impoverita la politica, la tecnocrazia ha potuto trionfare con l’avvento della post-ideologia e la compiuta secolarizzazione. La tecnodemocrazia è quindi per l’autore una sorta di nichilismo politico e giuridico, che funzionalizza tutti gli aspetti dell’amministrazione e li informa in una visione meccanicistica dello Stato.
Il metodo scientista e il neo-positivismo non si limitano quindi a stabilire i mezzi ma definiscono anche gli scopi, assumendo decisioni immanentemente politiche. Ma nel costante confronto tra potere politico e tecnico, rileva l’autore, il contemperamento degli interessi deve rimanere prerogativa del primo, come aveva di già intuito Weber malgrado l’enfasi per la burocrazia riposta nel suo pensiero. Così come Schmitt che evidenzia l’utopia di ridurre ed esaurire il ruolo politico nella gabbia tecnico-scientifica, perché mai la tecné sarà neutrale e apolitica e soprattutto, rileva con attenzione Castellani, non esiste una ‘competenza delle competenze’ che sappia sedare i conflitti interni al sapere scientifico. La visione olistica e l’indole sintetica della politica non sono superabili.
Il saggio ripercorre la storia dell’arcanum imperii tecnocratico, scandagliando nella storia moderna le speculazioni teoriche e le attuazioni pratiche del potere dei competenti. Dall sofocrazia platonica alla Nuova Atlantide di sir Francis Bacon, passando per le società idrauliche agro-manageriali studiate da Wittfogel e l’esperienza comunale italiana del podestà, fino al Leviatano di Hobbes. L’ingranaggio del potere enuclea brevemente il processo storico di insediamento della tecnica nel potere, concentrando l’indagine sugli scritti di Saint-Simon e Comte, primi ad intuire il crescente e decisivo ruolo del manager a scapito del capitalista negli assetti produttivi, e sulle Rivoluzioni industriali. Se la prima è stata contrassegnata dall’avvento della macchina, la seconda è stata la rivoluzione dell’organizzazione.
La rivoluzione manageriale di Burnham è il testo cardine del pensiero tecnocratico – centrale anche nelle analisi del coevo Radical choc di Ventura, lettura gemellare al saggio di Castellani – nella corretta previsione sul consolidamento del rapporto tra Stato e capitalismo e soprattutto nell’aver intuito che il metodo organizzativo proprio dei manager avrebbe permeato per sempre il modo d’agire pubblico. L’ingranaggio del potere prosegue la sua analisi storica sul Novecento, incentrandosi sul ruolo delle università come ‘certificatori delle competenze’ e sui processi di agencification regolatoria che hanno condotto lo Stato a perdere qualsiasi aura di autorità in favore di agenzie, comitati, istituti indipendenti e paralleli al potere giuridico statuale. Lo Stato-arcipelago, ridotto a broker di interessi e finalità individuate altrove dai competenti, diviene un semplice attore di una governance reticolare più estesa e plurale dove i competenti hanno il peso specifico maggiore nel processo decisionale, in quella che ad occhio nudo par essere una rete ma è nella realtà una piramide gerarchica con a capo gli esperti.
«l’economia, lo sviluppo, la crescita economica producono la sovranità politica attraverso l’istituzione e il gioco istituzionale che fanno funzionare questa economia. L’economia produce legittimità per lo Stato che ne è il garante»
Michel Foucault
Le istituzioni si legittimano dunque per il risultato economico e amministrativo e non sul principio di rappresentanza elettorale. Una volta neutralizzato il conflitto e svuotato dei giudizi di valore il dibattito, il ‘primato della politica’ si trasforma in ‘primato delle politiche’, incubate da esperti dentro e fuori il perimetro dello Stato. Il sistema di governance rappresenta dunque la perfetta pietra angolare tra Stato e mercati, burocrazia e imprese, politica e tecnica. Il potere politico quindi si legittima ancora per via elettorale (principio democratico) ma è sulla competenza (principio aristocratico) che vive, mantenere l’equilibrio tra questi due ‘geni’ è «la sfida più complessa della politica di oggi e di domani», spiega Castellani.
L’Unione europea rappresenta in questo senso l’epitome tecno-democratica. Una istituzione sovranazionale geneticamente disposta come struttura tecnocratica, causa ed effetto della tecnocrazia stessa dice l’autore, e come apparato impermeabile alle istanze popolari, un ‘mostro buono’ «liberatosi della politica attraverso la politica» nelle parole del sociologo Streeck. Le istituzioni europee hanno esplicitamente posto in primo piano il principio di competenza su quello politico, disegnando una architettura istituzionale mista, dove organi esecutivi e tecnici come la Commissione dispongono del potere di iniziativa legislativa o ancor di più una unione monetaria in assenza di unione politica. Il tutto in assenza di un adeguato sistema di controllo delle responsabilità, non soddisfacendo nemmeno formalmente il principio di legalità della separazione dei poteri. Così come l’obiettivo costituzionale di applicare sussidiarietà e devoluzione concorrente, platealmente eluso dalla crisi finanziaria del 2010-2 in poi. Mentre il processo di integrazione europeo entra in crisi, la chimera federalista si arena e le vere decisioni politiche sono prese a livello diplomatico ed inter-governativo, la macchina normativa dell’UE aumenta a dismisura la propria capacità in quello che l’autore definisce felicemente come ‘paternalismo tecnocratico’.
E proprio sulla mancanza di legittimità politica e sul deficit democratico si è riuscito ad imporre il principale attore tecnopolitico di quest’era: la BCE e più in generale le banche centrali indipendenti, non più regolatori della lex monetae imposta dai ministeri del tesoro bensì player politici in grado di imporre in totale autonomia e irresponsabilità decisioni politico-monetarie, svincolati totalmente dal circuito rappresentativo. ‘Istituzioni osmotiche’ tra pubblico e privato e finanche centri di ricerca in grado di elaborare nuovo sapere e nuove competenze. Nella banca centrale moderna si attua dunque la massima aspirazione del matrimonio tra tecnica e politica, con il metodo scientista che si impone per carisma e moral suasion, attributi tipici delle istituzioni statali, senza traumi od effetti collaterali. La competenza tecnica si veste dell’auctoritas più pura e diventa incontestabile.
L’impianto diagnostico che Castellani compie sul Leviatano 3.0 è ineccepibile, l’equilibrio tra le due fonti di potere è saltato. Viviamo un’epoca di tirannia degli esperti. La pandemia ha però reso evidenti altre e più profonde verità: non esiste una ‘competenza delle competenze’, la faglia interna al complesso della tecnica esiste e la neutralizzazione dei conflitti è un miraggio. Stiamo dunque realizzando che aver demandato totalmente al principio aristocratico della competenza la risoluzione dei problemi ha generato ulteriori problemi, gli esperti e i detentori del sapere specialistico non erano, in fin dei conti, oi aristoi. Una élite fallibile che ha generato l’effetto paradossale, sostiene Castellani, di un’aspirazione egualitaria, delle pari opportunità che finiscono per creare una diseguaglianza basata sul merito. La classe tecnica autodefinitasi superiore, incline a smarcarsi dalla comunità e dal territorio e a segregarsi nel proprio milieu educazionale. Questa casta si è progressivamente alienata dal resto della società, conformandosi a principi ideologici omogeneizzati e conformati dagli stessi esperti, escludendo il resto. La classe istruita è prettamente razzista e classista e vive nell’isteria pedagogica e, con le parole dell’autore, ‘perfettismo’, ansiosa di ‘raddrizzare il legno storto’, gli altri, quelli che non fanno parte della classe dei competenti.
Così i competenti hanno messo sotto tutela la democrazia e ne hanno tracciato limiti e confini, le libertà e i giudizio di valori permangono solo se inseriti in un questo schema. Le stesse elezioni altro non sono che un rito liturgico per sancire la legittimità della competenza a governare i governanti, per imporre conoscenza e sapere sul sistema. Dispotismo epistemico che afferma una conoscenza oligarchica, inevitabilmente parziale, incompleta. Allora la frattura con il popolo può diventare insanabile, lo straniamento da fenomeni lontani ed incomprensibili ai più tale da generare nuovi conflitti, tra campagna e città per esempio, tra chi trae un vantaggio dagli effetti della globalizzazione e chi li subisce. Una società fratturata, individui privati di corpi intermedi come famiglia e comunità esposti ad istituzioni lontane ed inafferrabili.
Qui sta tutto il paradosso dell’epoca che viviamo: la crisi della politica invoca la tecnica per risolvere conflitti ma la tecnica finisce per produrne di nuovi e forse peggiori. Contestiamo l’assenza di legittimità della tecnica che nel frattempo ha occupato il potere in maniera così pervasiva da sembrare impensabile un modello alternativo. Una terribile declinazione anaciclotica inimmaginabile anche per lo stesso Polibio.
Dice l’autore:
«Livellatore delle istituzioni locali e intermedie, implacabile aspiratore delle leggi verso luoghi immateriali, pretenzioso neutralizzatore di conflitti politici in nome della tecnica e dell’oggettività scientifica. Sistema procedurale, labirintico, impalpabile e senza volto. Lo Stato e i suoi derivati tecnocratici e burocratici non sono mai stati così estesi, mai così compromessi col potere economico, ma mai così a corto di fiducia da parte dei cittadini. Ecco, dunque, il paradosso finale dell’ingranaggio del potere, che più si espande e diviene sofisticato e più si indebolisce nella legittimazione, cioè nella fiducia e nell’obbedienza degli individui»
Lorenzo Castellani
Come uscirne? La soluzione di Castellani è quella di un comunitarismo liberale, facendo leva sul pensiero di Olivetti, che riporti centripetamente il potere e la responsabilità politica nei territori, applicando con forza il principio di sussidiarietà. Ripensare uno schema ormai ineluttabile, decentrare questo potere ed immaginare una classe dirigente ancorata alla comunità che sappia guidare ed ispirare i consociati. Per realizzare ciò la politica deve rafforzarsi ed uscire dall’isolamento pena subire l’altro pericoloso isolamento, quello della classe degli esperti, refrattaria a qualsiasi cambiamento.
“Lo spirito della politica e della burocrazia sono diametralmente opposti, dal momento che l’essenza della politica è la sua contingenza e il suo successo dipende dalla correttezza di una stima che in parte è congettura. L’essenza della burocrazia è invece la ricerca di sicurezza e il suo successo è la calcolabilità. Il tentativo di gestire la politica in modo burocratico si traduce in una ricerca di calcolabilità che tende a rimanere sotto scacco degli eventi.”
Henry Kissinger
Il vecchio adagio dell’abate Sieyès ‘fiducia dal basso, autorità dall’alto’ si è rotto, sostiene l’autore, ed è oggi ‘populismo dal basso, tecnocrazia dall’alto’. Se il velo di Maya è squarciato, sappiamo altrettanto bene che senza competenza tecnica non si può sopravvivere in un mondo integrato dalla tecnologia e innervato di complessità. Riportare alla prossimità il potere, decentralizzando e riaffermando il ruolo cardinale della comunità può essere una soluzione più praticabile di responsabilizzare il principio di competenza ed inserirlo nel circuito democratico. Il governo della globalizzazione di tipo sussidiario invocato da S.S. Benedetto XVI nella lettera enciclica Caritas in veritate. Ad un problema di equilibrio politico non si può che rispondere con più politica.
“L’ingranaggio del potere” di Lorenzo Castellani verrà presentato oggi, lunedì 30 novembre alle ore 21 sulla Pagina Facebook di Libropolis insieme ad Alessandro Aresu, moderati da Alessandro Mosti.