È il 1907. L’Impero Asburgico vive, frenetico e malinconico a un tempo, i suoi ultimi bagliori prima dell’Apocalisse. Il cuore della Vecchia Europa, prigione di popoli per alcuni, Austria felix per altri, è il crogiolo culturale della Mitteleuropa. Mentre le ombre avanzano sull’Europa, ad essere scossa in quello stesso anno è la vita dell’illustratore e disegnatore, già piuttosto noto al pubblico austriaco, Alfred Kubin. La sua psiche – già scossa nel 1903 dalla morte della ragazza di cui si era follemente innamorato – viene messa nel 1907 definitivamente in crisi con la morte del padre. Gli incubi e le visioni lo tormentano. Intuisce allora, più da aspirante asceta che da seguace delle nascenti intuizioni freudiane, di doversi liberare del proprio tormento e comincia a tramutare il proprio dolore in scrittura. Nasce così L’altra parte, romanzo di 300 pagine con annesse 52 illustrazioni: tangibile rappresentazione di un incubo, la cui trama si sviluppa a partire da un messaggero che invita il narratore e protagonista a trasferirsi su richiesta di un certo, eccentrico, Claus Patera nel “Regno del Sogno”. Il protagonista e narratore, dopo una breve esitazione, decide di partire in compagnia della moglie. Ciò che si manifesta ai suoi occhi, mentre gradualmente esplora il Regno, è una costruzione voluta a immagine e somiglianza dello stesso Patera: la condensazione di un’atmosfera nostalgica– dal vestiario, agli edifici, al modo di pensare anti-moderno del proprio fondatore- e crocevia di culture e lingue. Le stranezze si susseguono. Perla, la sua capitale, è città di opportunità incredibili (in cui per fare soldi e lavorare basta desiderarlo), ma in cui l’illusione del benessere può tramutarsi in completa rovina finanziaria nel giro di pochissime ore. Soprattutto è il progresso ad essere fortemente avversato e tenuto fuori dalle solide mura del Regno:
«Patera nutre un’avversione eccezionalmente profonda per ogni tipo di progresso in genere. Ripeto, per ogni tipo di progresso, soprattutto in campo scientifico […]. Nel Regno del Sogno, rifugio per gli insoddisfatti della civiltà moderna, si provvede a tutti i bisogni materiali. Il sovrano di questo paese è ben lontano dal voler creare un’utopia, una sorta di stato del futuro.»
Lontani da sguardi indiscreti, nel cuore dell’Asia centrale, tra gli imperi cinese, britannico e russo, Patera edifica un mondo nuovo e lo riempie di disadattati e nevrastenici. La distinzione di classe è su base psicologica: uomini dalla sensibilità delicata fino all’eccesso si trovano al vertice della catena. Dilaganti sono la mania del collezionismo, la febbre della lettura, il demone del gioco, l’iper-religiosità e – tra le donne – l’isterismo. La plebe stessa entra a far parte del Regno stante determinate caratteristiche: sono alcolizzati, disgraziati in rotta con il mondo e con se stessi, ipocondriaci e spiritisti. Completano il quadro un gran numero di vecchi avventurieri, profughi politici, assassini, falsari e acrobati, nonché le persone deformi, con gobbe gigantesche o gozzi enormi.
Tra l’Inferno dantesco e la Russia dostoevskiana, il Regno del Sogno rappresenta un’umanità di dannati, “uomini del sottosuolo” lontani dalla “normalità” del mondo esterno. Patera popola con questi uomini il proprio Regno, dopo averlo edificato con le vecchie case e gli abiti ormai fuori moda che si fa spedire da tutto il mondo. Vuole anche il protagonista e narratore, suo ex compagno di classe, dato che ha in lui intravisto delle particolari qualità come illustratore e disegnatore. Ma chi è Claus Patera? Egli è etereo ed irraggiungibile, protetto da un muro di pratiche burocratiche – pletoriche quanto inutili – necessarie per poter avere il privilegio di colloquiare con lui nel suo grande palazzo. È una forma pura, indefinibile. Lo stesso governo del Regno del Sogno sembra non esistere. Nelle parole di Kubin riecheggiano gli spettri di un distopico universo spettacolare debordiano:
«Perciò, nello Stato del Sogno, l’autorità era una pura commedia. Se fosse stata soppressa, le cose non sarebbero andate né meglio né peggio. Tutte quelle montagne di pratiche – accumulate acquistandole in ogni paese del mondo – non avevano niente a che fare col Regno del Sogno.»
Nonostante ciò, la statura e il potere di Patera sono riconosciuti a prescindere. A lui sono devoti, senza esitazione, tutti gli abitanti del Regno. Egli è la sintesi e la reincarnazione del Destino e del Tempo. Perla e tutto il Regno sono in effetti sottoposti al grande incantesimo dell’Orologio. Folle di fedeli si adunano per accedere ad una grande torre nel cuore di Perla e per rendere onore ad una piccola cella vuota, con disegni enigmatici, accompagnati dal suono di un pendolo, con l’acqua che scorre lungo le pareti. Si rende così omaggio al Tempo e al suo incedere inarrestabile: «Signore, eccomi qui davanti a Te!» ripetono tutti i Fedeli in successione. Così, mentre il Tempo scorre, la popolazione del Regno cresce mano a mano che nuovi reietti lasciano il mondo esterno per rifugiarsi a Perla. Da fuori si susseguono le voci dei progressi sensazionali che il mondo sta intanto compiendo. Invenzioni grandiose e temibili che sembrano toccare soltanto marginalmente lo spirito degli abitanti del Sogno:
«- Sì, sì, sarà così. – e cambiavano argomento. Per noi, il Regno del Sogno era grandioso e incommensurabile, il resto del mondo non contava, lo si dimenticava. Nessuno che si fosse acclimatato lì voleva uscirne, il mondo di fuori non era che un inganno, non esisteva.»
Interpreti di un tale sentire comune e al culmine dell’intellighenzia del Sogno, vi sono i custodi della sapienza del Regno: gli uomini dagli occhi azzurri che vivono nei sobborghi di Perla. Questi hanno fatto dell’indolenza e dell’indifferenza la propria religione. Incarnano la vera purificazione dalla nevrastenia degli abitanti del Sogno e dall’illusione di quelli del mondo di fuori. Il mondo è da questi concepito come immaginazione-forza, l’energia nascosta che alimenta il Regno del Sogno e che permette di comprendere Patera e tutto il suo cosmo, che sprigiona dalla comprensione del nulla. Il palpitare di Patera è quello del suo potere d’immaginazione, laddove il desiderio del mondo e del nulla è simultaneo:
«Il nulla era inflessibile, non voleva niente, e così la forza d’immaginazione cominciava a ronzare e a vorticare, assumeva forme, suoni, odori e colori a tutti i livelli: ed ecco il mondo. Ma il nulla inghiottiva di nuovo tutto il creato, e il mondo si faceva debole e pallido, la vita si arrugginiva, ammutoliva e si disgregava, era, di nuovo, nulla; e poi tutto ricominciava daccapo.»
Ciò ha delle ripercussioni sulla vita di ogni singola creatura:
«Quanto più si cresceva, tanto più profonde dovevano essere le radici. Se voglio la gioia, devo volere insieme anche il dolore. Nulla o tutto.»
Queste riflessioni, forse l’apice filosofico dell’intero romanzo, esistono come interpretazione dell’enigmatica mente di Patera e, al tempo stesso, giustificano ogni sofferenza che il protagonista e narratore – e dunque lo stesso Kubin – hanno provato e stanno provando mentre si svolge l’epopea del Regno del Sogno. Quest’ultimo è destinato al collasso. È il mondo esterno a provocarne la morte, ma è il Tempo ad avallarlo, quando a sconvolgere la vita degli abitanti sopraggiunge un americano, un certo Hercules Bell di Filadelfia che riempie il Regno di denaro e si fa promotore di una rivolta anti-Patera. Il suo arrivo si contraddistingue per un linguaggio nuovo. Si predicano apertura, innovazioni e democrazia. Il proclama di Bell è un demoniaco invito all’insurrezione: «Siate, tutti, figli di Lucifero!».
Sull’onda di questo bacillo, l’epidemia si diffonde. Si fa devastante. Si traduce nel collasso biblico di questa nuova Sodoma, nella punizione e nel Castigo dal cielo. Immagini raccapriccianti descrivono l’acme delle visioni di Kubin, rese efficaci anche dall’apparato illustrativo ideato a supporto del proprio racconto:
«Braccia e gambe contorte, dita aperte, rigide, e pugni serrati, ventri gonfi di animali, crani di cavalli con la lingua tumefatta e bluastra protesa fra i lunghi denti gialli, così si faceva avanti, inarrestabile, la falange dello sfacelo. Crudi bagliori illuminavano e animavano quest’apoteosi di Patera.»
Perla si dissolve, con il suo demiurgo. I soldati russi, chiamati da Hercules Bell per infliggere il colpo di grazia al Regno del Sogni, non trovano dunque nessuno da affrontare. In questa sublimazione dell’universo tradizionale della Vecchia Europa, scosso dall’incedere del progresso, il denaro di un americano, la materia che uccide lo spirito, costituisce l’elemento perturbante e distruttivo. Si tratta di un’allegoria prodigiosa. Il Regno del Sogno diviene dunque una parentesi effimera ma densissima, come ogni esperienza onirica. Un luogo in cui fuggire e dissolversi, prima di rinascere a nuova vita. In cui far esplodere le proprie paranoie per poi lasciarle crollare sotto l’incedere della realtà materiale.
La sua decomposizione è l’atto finale con la quale Kubin rinasce e riemerge. Lo fa riempiendo di mostruosità l’esplodere progressivo delle proprie tensioni psichiche, che volano via negli aridi altipiani dell’Asia Centrale. La storia incede, il progresso reclama il suo spazio, mostruoso quanto le visioni dell’illustratore. Il Tempo non si può arrestare, nemmeno mentre travolge le strutture e le meccaniche del Regno e dell’umanità stessa. Alla fine della storia non restano che i liquami di una civiltà isolata, in cui gli unici a sopravvivere sono gli apostoli del Nulla e chi, come Kubin e le Avanguardie che tanto a lui si ispireranno, sono in grado di esorcizzare la depressione e l’angoscia di un mondo in dissoluzione mediante la raffigurazione artistica, accompagnando il Secolo Breve verso la sua violenta Palingenesi