Fin da La fabbrica dell’uomo indebitato (DeriveApprodi, 2011)- saggio sulla relazione fra debito e credito all’interno dei rapporti di potere creatisi all’indomani della crisi finanziaria del 2007 – Maurizio Lazzarato si è spesso occupato di temi che obtorto collo hanno condizionato le nostre vite; specie da quando le fratture sistemiche del capitale hanno preso ad accelerare e avvicendarsi con questa frequenza. Negli ultimi anni, il sociologo padovano di stanza a Parigi – dove da tempo svolge attività di ricerca sulle trasformazioni del lavoro e le nuove forme di movimenti sociali – si è dedicato alla realizzazione di una trilogia il cui terzo capitolo, Guerra civile mondiale? (DeriveApprodi, 2024), è approdato di recente in libreria. Se nei precedenti due volumi al concetto di guerra come modo di accumulazione primario del capitalismo si accompagnavano quelli di moneta e rivoluzione – da un lato, occupandosi dell’ordine imperialistico imposto dal dollaro, e dall’altro, ponendo proprio il conflitto militare al centro del rapporto tra Stato e capitalismo – quest’ultimo sposta l’attenzione sulla cosiddetta guerra civile interna agli Stati declinata come lotta di classe. Da una prospettiva post-marxista, l’autore – già attivo durante gli anni Settanta all’interno del movimento operaio – ne passa in rassegna l’assoluta centralità nella storia dell’Occidente, dai greci ai giorni nostri, quale unica forza capace, ad un tempo, di distruggere e costruire ordinamenti politico-sociali: «Non c’è potenza costituente senza guerra e guerra civile, senza organizzazione della potenza e accumulazione della forza», come tiene a precisare egli stesso.
In questo ampio excursus, la Rivoluzione francese viene eletta a paradigma – essendo evento di rottura con il potere costituito e processo di consolidamento della potenza di una soggettività autonoma – laddove in essa confluirono guerra civile e rivoluzione. Tant’è vero che l’azione giacobina concorse a disegnare la modernità politica di buona parte dell’Occidente, oltreché fornire il modello per molte delle ribellioni che da lì in poi seguiranno: dalla rivoluzione di Haiti ai tumulti del 1848, dalla comune parigina al conflitto russo-giapponese di inizio Novecento, fino al comunismo sovietico e, in parte, al movimento del ’68. Eventi diversi ma che «hanno assicurato il passaggio, o meglio il salto, dalla divisione tra forze produttive e rapporti di produzione alla divisione tra classi in lotta per il potere, per la sua trasformazione e per un’organizzazione diversa della società».
È all’incirca dagli anni Settanta – il momento della sconfitta della rivoluzione mondiale e del soggetto che la portava e la organizzava: l’operaio – che Lazzarato ravvisa un deciso cambio di passo, secondo cui, tutt’altro che scomparsa, la guerra civile veniva adesso condotta in maniera asimmetrica da una parte sola, quella della macchina Stato-capitale, quasi fosse una lotta di classe rovesciata.
Solo dopo la crisi del debito del 2007, la pluralità silente di soggetti appartenenti al proletariato – frattanto cambiata e indebolita – ha infine ripreso la lotta; tuttavia, non in maniera compatta e dando origine a scenari del tutto inediti che lui stesso definisce di caos sistemico. Questa crepa, sviluppatasi dal 2011 con le primavere arabe, e che porta direttamente all’odierno conflitto tra Israele e Palestina – di cui l’autore segnala l’importanza strategica per il destino dell’Occidente -, interessa specialmente il sud del mondo (si pensi a Tunisia, Egitto, Cile, Iran etc.), terreno di scontro senza «un centro sociologico/economico (la classe operaia), ma con un centro politico inventato dai rivoluzionari», dove la posta in gioco è «il nomos della terra, che torna a farsi spartizione e appropriazione primarie, da cui dipenderà la futura divisione del lavoro, della produzione, della riproduzione, del comando sul mercato mondiale e della configurazione delle classi dei lavoratori».
La grande differenza col passato, tuttavia, è evidente. Ai movimenti politici di oggi – a quella molteplicità cui è difficile dare dei confini – manca la forza di interrompere il continuum del potere e innescare processi di accumulazione della forza. Questo perché da un punto di vista strutturale, tale soggettivazione è divisa in «dualismi di potere (uomini/donne, bianchi/razzializzati, padroni/lavoratori)», e incapace di superare divisioni siffatte confrontandosi «con il potere in generale». Mario Tronti – il padre dell’operaismo italiano scomparso nell’agosto dell’anno scorso -, citato da Lazzarato nell’introduzione, parlava a tal proposito di una simbolica ma sostanziale “paura del due” come della difficoltà da parte di chi è subalterno di sostenere il proprio antagonismo verso la realtà data, in quanto «presuppone, insolubile, la polarità, l’opposizione, anzi la contrapposizione. Ed è sempre un positivo e un negativo. Dal saper assumere su di sé, la potenza immanente del negativo, in forme alte, nobilmente distruttive, si riconosce la forza in grado di misurarsi nel destino di cambiare il mondo».
La sfida di tutti i movimenti presenti e futuri, dunque, è e sarà secondo l’autore quella di «passare per il “due” della negazione del potere», emanciparsi dalla sterile micro-politica legata alla dualità (relazioni di potere sessuali, razziali e di classe), e far emergere soprattutto un soggetto rivoluzionario in grado tanto di ricomporre la molteplicità sociale quanto di evitarne la dispersione – ad oggi l’ostacolo maggiore – affinché si interrompa la spirale delle guerre che inermi vediamo furoreggiare da troppo tempo.