Il farsi immagine del mondo, la spaesatezza quale destino, l’abitare poetico, l’angoscia come perdita di significanza di ciò che ci circonda, l’abbandono e la devastazione sono solo alcuni tra i più affascinanti temi sviluppati da Martin Heidegger. È bene dirlo subito: leggere Tecnomagia di Vincenzo Susca equivale in primo luogo a non rinunciare alla tentazione di immergersi in simili interrogazioni. Se il filosofo tedesco propone una riflessione sulla tecnica che non smette di essere suggestiva per quanto almeno non univoca, Susca ne tira sapientemente i fili conduttori per intrecciarli ad alcune delle trame più pregnanti del pensiero filosofico e sociologico più recente. Il tentativo esplicito di questa operazione è fare i conti con gli ampi mutamenti dello scenario contemporaneo.
Se per una certa tradizione, tecno-logico era un discorso o un approccio di pensiero che sulle capacità tecniche fondava la fiducia nei suoi esiti, e se logico o razionale è stato a lungo il dispositivo mediante cui il soggetto ambiva a dominare o a rendere sempre disponibile ed utilizzabile il mondo, oggi la tecno-logia cede il passo alla tecno-magia.
Lontani da ogni finalismo di stampo progressista, privati delle coordinate spazio-temporali che guidavano il nostro riferimento a ciò che concedeva all’ambiente sapore di realtà, assistiamo alla messa in atto di un incantesimo. Il mondo si trasfigura, mentre vorticosamente ci decentra e non smette di con-fonderci tra i suoi frammenti.
Sono quantomai eccedute le opposizioni rassicuranti tra realtà e virtualità che, pur mettendolo in discussione, regalavano all’uomo l’illusione di poter prendere ancora posizione. Così non solo questi si ritrova a essere Heimatlose, uno spaesato a cui non è data alcuna possibilità di radicamento, ma è la sua stessa esperienza vissuta a non appartenergli più. La sua esistenza, quel movimento essenziale di uscita da sé per relazionarsi ad altri e ad Altro, si trasforma radicalmente in estasi.
Se Tecnomagia fosse il resoconto del percorso di analisi dell’uomo contemporaneo, provato sensorialmente dagli eventi notturni susseguitesi negli ultimi decenni (crisi economiche, guerre, pandemie, regimi di sorveglianza, limitazioni di libertà e invasività illimitata delle protesi tecniche), sinteticamente sarebbe questo il referto diagnostico che si leggerebbe alla fine: vissuto come soggetto logico, investito dalle crisi più profonde subite dall’umanesimo, eccolo un passo al di là di quest’ultimo, dove ciò che resta non lo decidono più i poeti, ma pratiche tecnomagiche di confusione e dispersione del sé. L’uomo diventa cosa tra le cose, non abita più il mondo e, anzi, da esso non differisce, unendovisi per diventare egli stesso opera tra le opere, consumato e consumabile come gli innumerevoli prodotti che prima gli erano destinati in quanto merci, informazioni o forme di spettacolo.
Susca, però, non assume il volto di un patologo e Tecnomagia ha il grande pregio di permanere come indagine scientifica appassionata, ma scevra da giudizi di valore più o meno nostalgici nei confronti dell’umanesimo perduto. Se in Un oscuro riflettere, insieme a C. Attimonelli e a partire da Black Mirror, l’autore lasciava aperto l’interrogativo crepuscolare sulle fattezze che avrebbe assunto un’aurora digitale, con Tecnomagia non sembra più il tempo delle domande. È già l’alba, nasce una nuova carne, il corpo si espone e gemmano ovunque miti e riti, culti e danze, costellazioni dis-ordinate di forme di tecnograzia.
Pratiche e immaginari tecnomagici contraddistinguono la socialità digitale: la potenza dell’incantesimo consiste nella sacralizzazione del profano e nella trascendentalizzazione della vita ordinaria. Il divino sociale riappare attraverso e nei media, nuovi totem dell’essere-insieme: dispositivi senza confini che innescano il nuovo paradigma della tele-empatia, un modello esperienziale che dell’ubiquità, della prossimità e della sincronia si nutre e nutre, senza saziarsi e generando sempre nuova fame. Proprio quest’inaggirabile appetito fa sì che i legami contemporanei si saldino attorno a immaginari inediti, non più proiettati al futuro, ma tesi ai massimi livelli per riuscire – come scrive Susca – a farci vibrare all’unisono al presente.
È questo il materiale attraverso cui – quasi del tutto inconsciamente – si rende effettivo il desiderio di una distrazione collettiva quale mezzo di fuga dalla razionalità progressista. Del peso schiacciante della responsabilità del domani ci si libera attraverso il richiamo al qui e ora. Così il soggetto si dissipa in una meta-narrazione continua da cui non intende liberarsi: è la potenza dell’erotismo societale dei nostri giorni che sa gratificarci alleggerendoci di un fardello, mentre ci annichilisce e riempie di desideri incompiuti. Esso ci avvicina e rende interdipendenti, nel momento stesso in cui consegna la nostra esperienza fuori, agli altri che divengono immagini e spettri; anche loro venuti meno alla propria individualità e indiscernibili dai contenuti dello storytelling (Instagram, Tik Tok, Twitch, ecc.) che ri-compone i brandelli messi in evidenza di ciò che resta della loro soggettività.
Questa nuova dimensione di socialità ad alta intensità emotiva, piena di feticci digitali, è dipinta da Susca come effervescente ed essenzialmente mistica, ludica e onirica. L’aspetto importante, però, pare essere questo: le rinnovate forme di comunione e connessione rendono sensibile l’intelligenza e, anche se a discapito dell’individualità, integrano nella cognizione collettiva il grande rimosso della cultura moderna: l’immaginario sacrale e affettivo. Pieno di carica, esso si accende in innumerevoli e incontrollabili micce, feste, danze e messe in scena in cui gli uomini, da tecno-logici divenuti tecno-maghi, sognano di raggiungere finalmente, mediante reiterate pulsioni di piacere, anche solo un mero residuo del principio di realtà.
Ma il sogno è ad occhi aperti e – come nel cortometraggio Cosa sono le nuvole di Pier Paolo Pasolini – non si può far a meno di chiedersi se la verità sia ciò che esteriorizziamo di noi stessi, ciò che ci pervade provenendo dagli altri o ciò che è perso al di là di ogni connessione. Se la verità, infine, permanga dopo la sparizione del mondo e la dissipazione dell’umano.
Forse, se come Ninetto-Otello, qualcosa dentro di noi continuiamo a sentirla, ma non possiamo nominarla perché ad apparire non sarebbe più vera, è perché all’alba del post-umanesimo, insieme a Totò-Iago, dobbiamo riconoscere che è tutta una magia, anzi una tecno-magia, e che anche noi altro non siamo che in un sogno dentro un sogno.