Da sempre, essere umani significa abitare un paesaggio e disporre di linguaggio, equivale cioè a soggiornare in un territorio che non è solo fisico, ma diventa simbolico. Il rapporto umano con la realtà circostante è contraddistinto dalla richiesta di senso, dalla tendenza umana all’interrogazione e all’interpretazione. Questa dinamica che si pone come una caratteristica di specie non si sviluppa in modo completamente lineare, ma è costantemente influenzata dai sistemi tecnici e comunicativi che abbiamo storicamente generato e che sono tutto fuorché produzioni neutrali.
La storia dei media ed il loro sviluppo hanno favorito di sovente riflessioni sul rispecchiamento fra comunicazione e vita quotidiana. A partire dall’influenza reciproca fra immaginario e società, Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale di Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca analizza da un punto di vita estetico e strutturale il lavoro di produzione, realizzazione e diffusione della serie tv britannica. Per chi intenda soffermarsi sul destino della cultura digitale e sullo statuto di un’umanità attraversata dalla tecnica, il prodotto cinematografico targato Netflix sembra, in effetti, un passaggio cruciale. Il testo non si presenta come una disamina dei pur fondamentali contenuti degli episodi che compongono la serie e riesce a porsi come uno sguardo complesso e capace di constatare alcuni limiti costitutivi dell’universo Black Mirror. Non si tratta di una critica, ma di un approccio diverso ai medesimi problemi su cui si incentra la serie tv, a partire dall’interazione di differenti piani interpretativi che arricchiscono il punto di vista del lettore/spettatore.
Dallo sviluppo delle metropoli e dalla nascita del cinema in poi, l’esperienza e la percezione umana hanno subito profondi mutamenti che non hanno mancato di alimentare immaginari e pensieri talvolta distopici o apocalittici. Il termine medium ha assunto un significato sempre più ampio e si è impresso nell’immaginazione collettiva come quel ponte fra l’umanità e le sue capacità tecniche e tecnologiche, spesso sintetizzate nelle potenzialità di un dispositivo. È proprio sul concetto di potenza che bisogna riflettere: si tratta di un ampliamento delle nostre possibilità in direzione costruttiva o distruttiva? Regge ancora un paradigma a tal punto dicotomico?
Black Mirror si presenta sotto forma della visione di uno schermo nero in frantumi e richiama, fin dall’inizio, l’idea di un uomo che sorregge un suo prodotto inquietante a tal punto che, guardandoci attraverso, egli vede infrangersi la superficie in cui si aspetterebbe di trovare riflessa la propria immagine identitaria, sostituita da una tonalità scura in cui non è consentito alcun riconoscimento. Quest’impossibilità finale e già evocata nella sigla della serie tv resta costante in ogni episodio; Black Mirror mette in scena la catastrofe insita nelle trame del desiderio collettivo ed il mancato happy ending, che lo spettatore insieme rifugge e persegue, prende le mosse da una circostanza fondamentale: la duplicità di dimensioni su cui si basa l’idea di medium non è più attuale. Non solo reale è virtuale e viceversa, ma la differenza stessa come condizione di possibilità dell’umanità è venuta totalmente a mancare.
Fruendo del serial televisivo prodotto da Charlie Brooker, quello a cui si è chiamati ad assistere è la messa in scena di un futuro distopico di cui lo spettatore comprende di essere protagonista già nel suo presente e che gli sembra talmente apocalittico da risultare irreale, ma così coerente da essere vero. Proprio la forte e sottesa causalità della trama di ogni episodio dona al prodotto cinematografico delle sembianze epifaniche: chi guarda si vede svelate delle dinamiche che riguardano lo svolgimento della sua vita: le consuetudini che lo spettatore credeva proprie o quelle che considerava come sue scelte sono rappresentate in quanto fatti in fondo predeterminati, previsti, automatizzati mediante i sistemi mediali complessi e controversi di cui si sentiva padre – o almeno consumatore – fino a qualche attimo prima, fin quando, effettuato l’accesso alla piattaforma Netflix, ha deciso di visionare una puntata di Black mirror. È stata davvero una decisione? È lo spettatore ad aver consumato il prodotto cinematografico o è sempre lui a sentirsi consumato una volta spento il dispositivo?
Come evidenziano gli autori, la percezione di questa dissonanza rientra fra gli obiettivi di Black Mirror che ha come principale finalità la produzione di uno choc: la verità che ci viene mostrata ci sciocca principalmente perché rivela che l’ingresso dei media nella vita quotidiana non è del tutto pacifico come potrebbe sembrare. Di più, lo choc ci impone di mettere in discussione l’idea di possesso, di controllo o di stabilità in riferimento ad elementi che dovrebbero definirci quali l’identità, la volontà,, la paura, la privacy e finanche il corpo, il nostro corpo. È questo uno dei temi ricorrenti posti al centro di alcuni episodi della serie tv: il corpo in relazione allo sviluppo dell’intelligenza artificiale, alle tensioni societali o alle dinamiche di potere. In qualsiasi forma sia declinato il problema del corpo e della sua trasformazione a contatto con i sistemi mediali, esso riguarda i personaggi del serial e anche gli spettatori che, proprio a causa dell’aderenza di ciò che guardano a ciò che vivono quotidianamente, sono portati a sentirsi come corpi immersi dentro Black Mirror. Ancora meglio, è Black Mirror che appare come ciò che già è, come la nostra realtà resa solo più irrimediabile.
È a partire da qui che l’eccezionalità che nel testo viene riconosciuta a Black Mirror consiste proprio nell’aver reso effettiva la diagnosi sociale da cui l’intero prodotto trae ninfa vitale: attraverso operazioni di marketing mirate e mediante lo sfruttamento del paesaggio tanto urbano quanto digitale, Black Mirror ha neutralizzato la soglia fra i due ambienti rendendo palpabile la frattura epistemologica che ne diviene. Ancora, con Bandersnatch quest’operazione si è raffinata concedendo allo spettatore l’illusione di controllare un’esistenza. Nonostante ciò, Black Mirror sembra caratterizzato da una sorta di determinismo oscuro; il retrogusto di catastrofe che lo spettatore reitera ad ogni finale di episodio, così come in molteplici circostanze della sua vita, sembra non lasciare chance. Saturando il reale ad ogni livello e riportandolo ad un’unica dimensione tragica e ludica, la serie tv non ammette resto né argomenta rigorosamente sulla fine, piuttosto rispetto ad essa sancisce il trionfo di una dipendenza.
La tesi di fondo, la consapevolezza a cui sembra giungere più di un personaggio della serie, è che lo spettacolo che nutre il nostro desiderio di intrattenimento, così come lo spettacolo di cui facciamo parte con i nostri corpi, non sia più in grado di soddisfarci e, anzi, rappresenti proprio ciò che ormai limita la nostra libertà. Anche quando, alla fine degli episodi, lo spettatore ha l’illusione di poter scegliere e di interagire in modo nuovo con il prodotto cinematografico e con l’ambiente digitale, ogni sua scelta non è che il prodotto di possibilità già calcolate. Non resta, dunque, che puntare al cuore del sistema stesso e, come suggerisce il titolo dell’ultimo capitolo: distruggere Black Mirror, spegnere i dispositivi, chiudere con una tradizione di pensiero bloccata nell’impasse fra umanità e tecnica.
Cosa resta, dunque, dell’uomo? Che cosa della sua esperienza? Un oscuro riflettere pone proprio queste domande e, a partire dalle visioni offerte da Black Mirror, propone un ripensamento più profondo del destino digitale dell’uomo così come della possibilità o meno di una nuova aurora.