Intervista

«Qualcuno ha scoperto che sono tornati gli imperi, ma gli imperi non hanno mai smesso di esistere». A lezione da Domenico Quirico

Storico inviato e caporedattore Esteri de La Stampa commenta i principali avvenimenti del presente attraverso la lente dell'informazione. Un girotondo sul mondo che cambia e si rigenera.
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Walter Benjamin, nel suo celebre saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, scriveva che le caratteristiche di un’epoca intervengono sulla politica in maniera molto più diretta di quanto si possa credere. I movimenti in cui le masse conquistano il primo piano della scena storica rendono necessarie trasformazioni profonde sia nell’ambito estetico che in quello politico: trasformazioni sociali anzitutto e quindi «campo di battaglia per le lotte politiche del presente». A partire dalla guerra in Vietnam, la guerra mediatica per eccellenza, passando attraverso il terrorismo islamico internazionale sino ad arrivare al conflitto in Ucraina dei giorni nostri e alla presunta rivoluzione in corso in Iran, un filo rosso unisce la narrazione di questi scontri politici e militari. Il pubblico. Abbiamo voluto interpellare in questo caso non un esperto di media, ma un grande giornalista ed inviato di guerra di lunga data, Domenico Quirico, caporedattore alla sezione esteri de La Stampa, che ci ha restituito il suo punto di vista dei principali avvenimenti del presente.

Il 29 settembre del 2010 Malcolm Gladwell scriveva un pezzo sul Newyorker riguardo i disordini in Iran di quell’anno. Il titolo era Small change: why the revolution will not be tweeted e rifletteva lo scetticismo dell’autore circa l’eventuale successo di una rivoluzione dal basso in Iran. Lei crede che questo articolo abbia fatto il suo tempo, oppure no?

La situazione iraniana è molto complessa. Partendo dal principio che si tratti di una rivoluzione, una rivoluzione contro un regime teocratico è molto più complicata e di esito assai più incerto che di una contro un regime laico. Questo perché le possibilità di repressione del regime teocratico non conoscono limiti, mentre quelle di un regime laico ne conoscono eccome. Basta fare un confronto tra la rivoluzione contro lo Scià e contro gli Ayatollah (e il loro braccio armato, oggi a dire il vero sono solo una parte del sistema di potere). Contro lo Scià, che pur disponeva di un’organizzazione repressiva estremamente potente ed efficiente, la rivoluzione ha avuto successo e questo ha rinunciato ad applicare la totalità della propria potenza repressiva, perché era un regime laico. Ad un certo punto ogni regime di questo tipo si deve fermare. La teocrazia no. I ribelli sono i nemici di Dio e contro di essi si può fare qualsiasi cosa. La situazione iraniana mi sembra molto complicata e mi auguro, certo, che il regime in questione ad un certo punto decida di trattare, ma le teocrazie non hanno modo di attenuarsi. È impossibile per costituzione interna. O è così, o non è più.

-Potrebbe spiegarci che ruolo hanno avuto in passato i media e gli strumenti di comunicazione di massa in questo genere di “rivoluzioni”, se così le vogliamo definire?

Nelle “rivoluzioni” arabe hanno avuto una funzione pratica due cose: il telefonino, come strumento tecnico di assembramento, ad esempio “ci vediamo alle 5 in Rue Bourguiba e andiamo ad attaccare il ministero degli interni, le galere di Ben Alì”; in secondo luogo Al Jazeera, sottofondo permanente delle insurrezioni arabe. Questa generò effetti decisamente paradossali. Io sono stato prigioniero di elementi gheddafiani che alla televisione guardavano su Al Jazeera quanto accadeva nel quartiere di fronte in mano ai ribelli. In questo senso Al Jazeera ha condizionato e diretto le insurrezioni arabe e in certa misura le ha anche portate al disastro, perché era espressione del Qatar e delle sue mire di politiche nel mondo arabo e musulmano. Per quanto riguarda Twitter, Facebook e simili, non sono un esperto. Forse sono strumenti che hanno cambiato la storia del mondo e non me ne sono accorto. Sarò forse fermo ad una visione marxista… io considero l’economia, le personalità della storia. Musk per altro mi sembra un personaggio ai limiti del paradosso antropologico. Non si è ancora capito se sia un idiota o un genio, ma certamente non posso stabilirlo io. In secondo luogo non ho ancora mai cercato di decifrarne la natura economica e la sua importanza nella storia mondiale. Non riesco a capire se sia una catena di sant’Antonio a livello planetario o se sia effettivamente un imprenditore del nuovo capitalismo di rapina, tanto di moda oggi.

-Lei crede vi siano dei punti un comune tra la narrazione delle rivoluzioni arabe e la guerra in Ucraina?

Bisogna anzitutto capire chi sia il destinatario di questo tipo di narrazione. Prendiamo ad esempio il Vietnam, che è stata la guerra della televisione per eccellenza. La narrazione dei telegiornali era indirizzata agli americani, non ai vietnamiti. La guerra è stata raccontata talmente bene e così liberamente che gli americani hanno perso. Ovviamente questo non è stato l’unica causa della sconfitta di Washington, ma certamente un aspetto rilevante. La società statunitense, guardando la televisione tutte le sere a cena (rigorosamente a base di tacchino) si accorse che quella era una guerra incongruente con quanto l’America avrebbe dovuto rappresentare almeno dal punto di vista retorico e immaginativo. Al racconto e alla comunicazione terroristica di matrice islamica possiamo applicare lo stesso ragionamento. Andando con ordine. Al Qaeda era ferma ad un livello quasi primitivo dal punto di vista dei videomessaggi e analoghe forme di comunicazione. I risultati li ha certamente ottenuti, ma la comunicazione è stata fatta dagli americani. La conseguenza, l’attentato per antonomasia: le torri gemelle, la metafisica del terrorismo. Per quanto riguarda il califfato e i film girati da questi ultimi sui delitti, le esecuzioni, i destinatari non erano tanto gli occidentali, ma i musulmani. Lo scopo era quello di mostrare che si erano rovesciati i ruoli della storia e che gli occidentali erano in ginocchio aspettando il loro destino di fronte al grande guerriero jihadista. Non più come in passato quando i musulmani erano ridotti a servi presi a calci dalla forza dell’Occidente. È qui il punto chiave. Se vogliamo allineare questo discorso all’ultima guerra, la più recente, la più apparentemente narrata, quella dell’Ucraina, qui vi è un problema. L’effetto della moltiplicazione delle immagini, dovuta alla moltiplicazione degli strumenti di visione dell’immagine. Un carro armato russo distrutto dall’eroico ucraino, lo vedo una volta, dieci volte, cento volte, un milione di volte perché questo continua a girare sotto forma di immagine ovunque attraverso tutti i canali di comunicazione. L’impressione è che siano stati distrutti dieci milioni di carri armati russi, mentre invece è sempre lo stesso. Sarà dunque sempre più difficile capire chi sta vincendo e chi sta perdendo. Se invece io racconto, come giornalista, sulla carta stampata, di un’imboscata riuscita agli ucraini nei confronti di una colonna corazzata, questa sarà stata distrutta una volta soltanto perché abbiamo la data, l’ora, il luogo. Se invece decidessi di caricare sulla rete l’immagine di un drone ucraino che fa saltare un carro armato russo, di nuovo questa si moltiplica al suo diffondersi insieme alla notizia che pare dunque ingigantita quantitativamente. L’unica cosa che però non è ripetibile, moltiplicabile, è ad esempio la resa di Mariupol. Non possono esserci milioni di rese di Mariupol, perché la fabbrica è quella, il volto degli sventurati che si arrendono e che vengono fuori son sempre le stesse.

-Lei come vive questa “nuova informazione”?

Io sono dell’idea che uno debba fare solo quello di cui è capace e per cui si è documentato, su cui è cresciuto e maturato. Io non saprei fare il podcast, non saprei fare il film maker, per cui non lo faccio. È come se mi inventassi di parlare di astrofisica. Lo possono fare quelle persone, diciamo, “costruite” per quel tipo di informazione.

-A proposito di narrazione, la postura diplomatica tra USA e Russia, con l’avvento dell’inverno sembra essere cambiata. Viste le posizioni irremovibili di Zelensky e l’effetto dei suoi messaggi, che mobilitano il suo popolo e impressionano il pubblico occidentale, come pensa che si possa risolvere questo stallo militare e mediatico?

Bisogna anzitutto vedere quanto sia recitata la parte in commedia. Ad ogni modo il cambiamento di postura credo sia dovuto al fatto che nell’amministrazione americana vi siano due tendenze opposte: una che vuole fare la guerra a Putin senza se e senza ma – magari sino vederne la scomparsa dalla scena geopolitica mondiale – e un’altra più cauta, che pensa il vero rivale sia la Cina. Io non credo che questa evoluzione sia avvenuta a causa del “generale inverno” di cui molto si è scritto in queste settimane… al riguardo ho qualche piccolo dubbio. La principale vittoria di Federico il Grande, re di Prussia, quella di Leuthen (5 dicembre 1757), fu una battaglia combattuta sotto la neve in pieno inverno. Anche a Stalingrado si è combattuto in inverno. Che in questa stagione gli eserciti si rincappuccino con il termosifone e la stufa è un’idea che solo gli imbecilli sui giornali, quelli che non hanno mai visto una guerra in vita loro, possono raccontare. Anzi, addirittura d’inverno si combatte meglio, perché il terreno è duro e quindi si avanza più rapidamente che non nel fango della primavera e dell’autunno: ne sanno qualcosa i russi, quando hanno attaccato a fine febbraio. Il cambiamento ad ogni modo è dovuto, secondo me, alla minaccia nucleare. Gli americani si sono accorti che la bomba atomica è passata da strumento di deterrenza ad arma “normale”, e questo credo li abbia fatti riflettere. Zelensky, invece, legittimamente vuole tutto dopo quanto l’Ucraina ha subito da febbraio a oggi (centomila morti tra i militari, ventimila civili, cinque milioni di sfollati). È un paese ridotto alla condizione della Siria. Ci vorranno più di trent’anni, oltre a capitali immensi, perché l’Ucraina torni ad essere un paese non da medioevo. Le infrastrutture sono state completamente distrutte, è tutto da ricostruire, oltre al terribile bilancio umano, incalcolabile e inesprimibile. Ma Zelensky vuole la Vittoria. Non conosco bene i meccanismi interni del potere ucraino – per altro ora sospesi dalla legge marziale – ma vi sono evidentemente all’interno di questo sistema, gruppi che non accetterebbero la trattativa con Putin. Il destino politico di Zelensky potrebbe diventare più ipotetico e problematico di quello che oggi appare dal suo simbolo, dalla sua voce, dal suo sguardo fermo, dalla eroica resistenza ucraina. Cosa può venir fuori da tutto questo? Secondo me una guerra lunga trent’anni. Non esiste spazio di trattativa perché nessuno vuole trattare la pace. Ogni qualvolta vien fuori qualcosa che vi assomiglia questa viene impallinata come un cinghiale in una battuta di caccia. Credo che questa guerra, purtroppo, durerà ancora a lungo. La Russia non “collassa” mentre l’Ucraina è in grado persino di contrattaccare e i mediatori sono spariti. Erdoğan ha fatto il pieno di tutto ciò che poteva ottenere, il Papa si è (auto)messo fuori gioco – non capisco chi gli abbia sciaguratamente suggerito – nel momento in cui sembrava venire fuori un’ipotesi concreta di una sua “discesa in campo”. I cinesi invece… lei si immagina gli americani accettare una pace in Ucraina mediata dai cinesi? Una catastrofe! Il sigillo del passaggio delle consegne del controllo del mondo dagli Stati Uniti alla Cina. Un’eventuale mediazione cinese non si è mai concretizzata in niente se non in abili chiacchiere con gli ospiti di Pechino, i quali amano sentirsi parlare di “suprema armonia”.

-Come crisi internazionale pare molto una crisi “bismarckiana”, portata al limite del conflitto mondiale con obiettivi indiretti, qual’è la sua opinione al riguardo?

Diciamo che qualcuno ha scoperto che sono tornati gli imperi, ma gli imperi non hanno mai smesso di esistere. Le esigenze di reciproco equilibrio sono sempre lì. Nell’epoca a cui lei si riferisce c’era Bismarck, che riunì a Berlino una grande Conferenza ove si disegnarono equilibri, come sempre temporanei, e che ressero fino al 1914, quando la Germania prese strade molto più pericolose, come ad esempio il confronto con il Regno Unito. Oggi francamente un nuovo equilibrio, andato in frantumi il 24 febbraio, dovrebbe essere ricostruito dagli americani. Un grande Congresso di Vienna delle tre superpotenze, nel quale appunto ridisegnare un equilibrio capace di reggere per un po’ di tempo, ma gli americani non lo faranno mai. Dovrebbero riconoscere alla Russia un ruolo di potenza – ed è quello che Putin chiede da vent’anni – che loro non potranno mai concedere perché significherebbe automaticamente un riconoscimento della propria debolezza. Un posto in più a tavola significa che la torta va divisa in fette più piccole e lo stesso vale nei confronti della Cina. Non è possibile una pace tra Zelensky e Putin, perché sarebbe una pace priva di senso. Alla pace devono partecipare Biden, Putin e Xi Jin Ping. Non tanto per ridurre Zelensky ad un mero oggetto di contesa, ma perché senza di loro non può esserci la pace.

-In questo momento di incertezza, lei vede un qualche spazio per un nuovo “giro di Valzer” – per dirla alla von Bülow – della politica estera italiana? C’è stata di recente la proposta italiana per un Piano Mattei per l’Africa e la firma per la partnership con il Marocco.

Per fare un giro di valzer ci vuole il partner giusto, magari uno che abbia nell’Italia qualche interesse. L’attuale governo mi sembra più atlantista persino di Stoltenberg, alleato con gli Stati Uniti più di qualsiasi governo precedente. Questa questione del “fronte sud” per uno che si occupa di Africa da trent’anni alle volte diventa un po’ irritante. Sapessero i nomi delle capitali dell’Africa, della sua geografia, poi potrebbero occuparsene. Prima di tutto capiamo da chi sono composti i regimi africani di cui si vorrebbe diventare partner. Sono le peggiori canaglie della scena geopolitica universale. In confronto persino Putin è una brava persona. Che peso e che futuro hanno? Da quelle parti un golpe da parte di un sergente, un maresciallo, può rovesciare il regime da un giorno all’altro. Le casse di questi paesi controllati, più o meno, da questi regimi sono alla stregua di una debole cassaforte in ghisa. Prima capire cosa sia l’Africa e poi forse parlare del “fronte sud”. Ci sono soldati italiani in Niger, ma cosa ci stanno a fare? Non credo ci sia mai stata una discussione su cosa sia il Niger, il suo regime, sul perché i francesi si trovino lì, quale autonomia abbia questo paese rispetto a Parigi. Andiamo a fare gli ascari dei francesi che non hanno più soldi e vogliono scaricare le spese dell’impero su qualche volenteroso alleato? È un discorso interessante, sì. L’Africa è lì. Ma non sappiamo di cosa si tratti.

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