Vista la disinvolta gestione dell’erario (assimilato ad una finanza personale) e la diffusa corruzione che lo caratterizza, il regime di Dbeibeh è stato da molti definito una cleptocrazia. La realtà è però, come sempre, più articolata delle metafore con cui la si rappresenta.
Abdul Hamid Dbeibeh guida il Governo di unità nazionale libico da quanto è succeduto a Fayez al-Sarraj nel 2021. La popolazione gli è in larga parte ostile, nonostante le sovvenzioni statali per mantenere controllato il prezzo di carburante e generi alimentari di base il costo della vita è in costante aumento e da tempo Consiglio di Stato e Parlamento spingono per nuove elezioni. Ciò nonostante il suo governo è stabile. In Tripolitania ad avere un peso politicamente significativo sono solo le milizie di Tripoli e di Misurata e il governatore della Banca Centrale: tutti sostengono Dbeibeh.
La società libica è intrinsecamente votata alla divisività. Più che in qualunque Stato arabo i rapporti interpersonali in Libia sono mediati dall’appartenenza a tribù e clan familiari, e proprio le tribù sono state, storicamente, l’interlocutore fondamentale della politica e dei governi. La caduta di Gheddafi è stata per lo Stato nordafricano un fenomeno talmente distruttivo da sconvolgere i paradigmi politici del Paese.
La dissoluzione dell’impianto securitario si accompagna necessariamente ad una militarizzazione del tessuto sociale e, nel caso libico, delle tribù, che si sono dotate di milizie private in difesa dei loro territori. Il fenomeno è poi degenerato ulteriormente visto il perdurare della situazione di instabilità: le milizie hanno preso il sopravvento sulle rigide gerarchie tribali. I leader militari si sostituivano ai rappresentanti dei clan familiari, brigate delle medesime milizie si contendevano il potere sullo stesso territorio e mentre in Cirenaica il Generale Haftar egemonizzava il consenso consentendo un, seppur debole, inquadramento delle brigate locali nell’esercito; in Tripolitania nessuna figura ha fatto altrettanto.
Ad oggi le tribù non sono più l’interlocutore fondamentale della politica del Paese. Il governo centrale tripolitano è una sintesi dei rapporti di forza tra le milizie.
Di questo cambio di paradigma la principale conseguenza è l’acuirsi della distanza Stato-popolazione. Le tribù producono identificazioni forti nel relativo sostrato sociale, sono portatori di interessi reali e permettono l’instaurarsi di rapporti politici. Le milizie invece rispondono a logiche economicistiche e la mediazione politica gli è estranea. L’unica forma di estrinsecazione del potere in Tripolitania è diventata la proiezione di potenza. Volendo riassumere: è il caos.
Dbeibeh non ha interesse a cambiare le cose, è legittimo presumere che finchè sarà al potere la situazione in Tripolitania resterà la stessa. Non è un leader carismatico come Haftar o Gheddafi, sarebbe completamente inadatto a rapportarsi con il sistema precedente a base tribale. In una Libia unitaria non avrebbe posto e in un sistema democratico non otterrebbe consensi.
Il governo di Dbeibeh è sostenuto da un consistente numero di milizie tra loro in competizione per il controllo del territorio. Al Primo Ministro è richiesta una delicata opera di mediazione e di dirottaramento della maggior parte delle finanze pubbliche verso le milizie stesse. La sua autorità copre le grandi città di Tripoli e Misurata e le zone circostanti, ma vaste porzioni di territorio, in particolare la costa occidentale, sono in balia di trafficanti e organizzazioni criminali. Proprio quest’incapacità di controllare l’intero territorio su cui nominalmente esercita la sua sovranità il Governo di Unità Nazionale è l’unico problema che il Primo Ministro deve necessariamente risolvere: innanzitutto perché il traffico illegale di carburante dalla raffineria di Zawiya comporta grandi perdite per lo Stato, ma soprattutto perché riprendere controllo del nordovest del Paese permetterebbe di intensificare lo sfruttamento del bacino di Ghadames, ricco di idrocarburi.
Diverso l’approccio del Primo Ministro al contenimento del potere delle forze irregolari: dal suo punto di vista non solo non è un problema di impellente risoluzione, non è proprio un problema. Muoversi in quella direzione sarebbe deleterio per il suo potere e contrario alla logica di governo della Tripolitania oggi. Dbeibeh, più del suo predecessore al-Sarraj, ha colto la rilevanza del cambio di interlocutore avvenuto nella politica libica del post-Gheddafi. Si è attivato fin da subito per favorire la proliferazione di ulteriori nuove milizie, consapevole che il suo ruolo perderebbe di significato nel momento in cui un comandante militare riuscisse a replicare l’impresa compiuta da Haftar in Cirenaica. Dbeibeh favorisce l’interposizione militare nel rapporto governo centrale-governo periferico perché impedisce alla popolazione di avanzare pretese nei suoi confronti. La struttura dello stato tripolitano rasenta logiche di tipo feudale, con un apparato coercitivo fornito dalle milizie finanziate dallo Stato in proporzione alla loro forza. La pubblica amministrazione è minima e limitata alle grandi città, la maggior parte dei servizi è erogata attraverso una rete di accordi di natura personalistica più che a base territoriale e gli interlocutori di tali accordi sono gli alti ufficiali delle stesse milizie a cui ormai le tribù rispondono non solo per ottenere rappresentanza ma anche per ricevere l’assistenza che dovrebbe essere pubblica. I presupposti perché la situazione precipiti in modo incontrollato non mancano.