Quando, verso la fine degli anni ’70, i decisori politici di Taiwan intrapresero la strada della conversione industriale, non si aspettavano che con quella scelta, rivelatasi poi grandiosa, avrebbero contribuito a fare dell’isola l’arena d’elezione degli attriti fra le grandi potenze del secolo successivo. Non lo pensava certo Li Kwoh-Thing, ministro incaricato allo sviluppo industriale di Taipei, quando, nel 1985, corteggiò e convinse Morris Chang, manager visionario della Texas Instruments – e di lì a poco fondatore di TSMC – a ricoprire il ruolo di direttore dell’Industrial Technology Research Institute (ITRI), un centro di ricerca sulle applicazioni della tecnologia avanzata, nonché punta di diamante della Silicon Valley taiwanese, il polo di Hsinchu.
Da queste premesse si intuisce come Taiwan sia un’isola dalle ambizioni esuberanti, in cui ogni successo è trampolino di lancio al successivo e dove l’intraprendenza economica resta sempre pronta a rompere il cielo del possibile. Ma partiamo con ordine. Il 1971 è l’anno della normalizzazione nelle relazioni diplomatiche fra gli Stati Uniti di Richard Nixon e la Cina comunista ma antisovietica di Mao. Da quel momento gli americani abbandonarono la teoria delle «due Cine», che riconosceva a Taiwan la legittimità a rappresentare il popolo cinese alle Nazioni Unite, in favore della Cina continentale, la Repubblica Popolare Cinese: un soggetto geopolitico non più trascurabile. La «politica dell’unica Cina» con gli anni si dimostrò molto ambigua. Taiwan prese presto coscienza che un’umiliazione diplomatica – resa manifesta dalla perdita del seggio all’ONU –, poteva mutarsi in una molto più redditizia politica di collaborazione economica. Taipei non perse tempo. Nonostante in quegli anni avesse già ottenuto una crescita economica a doppia cifra in quanto epicentro mondiale della fabbricazione di giocattoli – storica la fabbrica Mattel di Barbie –, i politici taiwanesi pensarono a come far fruttificare il surplus commerciale in sinergia coi «risarcimenti» americani. Se l’obiettivo è scalare la vetta del mercato internazionale, l’unico risultato ammesso è il futuro.
Negli anni ’70 futuro fa rima con silicio: entrare nella competizione ad alta intensità tecnologica per la produzione dei microchip è la scelta obbligata per chi vede lontano. Nel polo di Hsinchu, come in una serra a temperatura controllata, pionieristiche aziende dei circuiti integrati trovano il terreno adatto alla gemmazione; solo negli anni ’80 quest’ecosistema sarà pronto ad ospitare il suo fiore più pregiato. Nel 1987 Morris Chang capisce che la sfida posta dai microchip è troppo complessa per essere risolta in autonomia, per questo decide di fondare un’azienda il cui business plan si basi sulla produzione per conto terzi, la TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company). Chang, preso atto che il mercato dei semiconduttori si innovava a ritmi mai visti per qualsiasi altra merce, disconosce l’integrazione verticale, postulato fondamentale della razionalizzazione aziendale, e delocalizza le fasi produttive «ordinarie» fuori dalla sua fabbrica. TSMC arroga a sé la fase di progettazione del chip – quella a più alto capitale intellettuale -, con quella di assemblaggio del prodotto finito. Inizio e fine, questo il segreto. La prima fase utilizza (o, in certi casi, crea) il meglio che la tecnologia ha attualmente a disposizione per generare chip sempre più piccoli – oggi si è arrivati a 3 nm –, nonché cicli produttivi in aggiornamento continuo; la fase terminale assemblea i componenti con strumenti di ottica di precisione e di saldatura nanometrica praticamente unici nel loro genere. Risultato? TSMC ha un fatturato annuo di oltre 56 miliardi di dollari, produce da sola l’84% dell’offerta mondiale di chip – di cui il 26% di essi acquistati dalla sola Apple-, e la sua esistenza rientra fra i principali motivi per cui, in potenza, la Cina invaderebbe Taiwan.
A questo proposito Bloomberg ha riportato le parole di Chen Wenling, capo economista del China Center for International Economic Exchanges, il quale ha dichiarato che se gli Stati Uniti imponessero alla Cina lo strangolamento economico via sanzioni, come attualmente avviene in Russia, la Cina dovrebbe riprendersi Taiwan assieme, per una ricostruzione delle supply chain, al controllo di TSMC. Allo stesso tempo, su un piano macroscopico, l’inasprimento di toni fra Cina e Stati Uniti non è stato celato dalle parti. Al XX congresso del Partito Comunista Cinese Xi Jinping si è detto pronto all’uso della forza per far rientrare Taiwan nella madrepatria; Joe Biden ha avallato, in più di un’occasione, l’intervento diretto di Washington in difesa dell’isola.
A questo punto è necessario tentare di rispondere ad alcune domande. Come e con quali mezzi Pechino potrebbe attaccare Formosa? Questa, come si potrebbe difendere in caso di attacco?
In caso di assedio dal mare, se non si contano le portaerei, la Cina, forte di 360 navi da guerra, è in possesso della flotta più grande al mondo (gli Stati Uniti si fermano a 300), inoltre, questo naviglio, potrebbe essere coadiuvato dalla «milizia marittima», un corpo costituito dalla Guardia Costiera e da un numero imprecisato di mercantili e pescherecci, volontari disposti al trasporto di armi, mezzi e uomini sull’isola. Detto ciò, è certo che l’attraversamento dello specchio d’acqua di 177 chilometri che divide Taiwan dalla terraferma non sarebbe una passeggiata. Lo Stato maggiore di Taipei possiede un vero e proprio arsenale di missili antinave basati a terra, economici da produrre e precisi nel centrare il bersaglio. Questi sono gli stessi utilizzati dagli ucraini nell’affondamento dell’incrociatore Moskva sul Mar Nero. A tale scenario si aggiunga che la teoria militare imporrebbe alla forza attaccante un vantaggio in termini di uomini di 3 a 1 in caso di sbarco anfibio; considerando che le forze regolari dell’esercito taiwanese ammontano a 450.000 unità, in teoria, Pechino dovrebbe inviare ben 1.3 milioni di uomini. Queste condizioni non farebbero solamente dello sbarco a Taiwan una operazione più complicata dello sbarco in Normandia, ma si potrebbero generare delle analogie con la battaglia delle Termopili: se la Repubblica Popolare è disposta ad accettare consistenti perdite di uomini e mezzi nei mari dello stretto di Taiwan un abbordaggio all’isola non sarebbe impossibile.
Gli strateghi cinesi potrebbero facilitare lo sbarco con una operazione aerea preventiva. Pechino osserva il presente ed apprende dal passato. L’idea che la quantità sia condizione sufficiente al successo è stata da poco corretta dalla realtà: la massiccia invasione russa dell’Ucraina Orientale si è rivelata un disastro. Diversamente hanno fatto scuola la campagna aerea preventiva contro l’Iraq durante Desert Storm (1991), così come il bombardamento NATO di Belgrado (1999). Una operazione aerea sui cieli di Formosa sembra indispensabile prima che la flotta prenda il largo.
Dal canto suo Taiwan può contare su un consistente arsenale di missili antiaereo di produzione locale, nonché sugli avanzati missili Stinger e Patriot già forniti da Washington. Nello scenario di una battaglia sui cieli, l’intervento della flotta aerea statunitense resta indispensabile, ma va considerato il fattore tempo che gioca apertamente per la fazione cinese: fra le basi USA del Pacifico la più vicina a Taiwan è quella localizzata nelle Filippine, ad 800 km di distanza. Se i cinesi lanciassero un attacco aereo, nello spazio di tempo in cui piloti statunitensi ricevessero la comunicazione e si alzassero in volo dalle basi, potrebbero arrivare sull’isola a fatto compiuto, quando le principali installazioni militari sarebbero già ridotte in macerie.
Ipotizzando che l’Esercito Popolare di Liberazione conducesse un efficace bombardamento preventivo e riuscisse ad attraversare con pochi danni lo stretto, dovrebbe rintracciare dei punti adatti allo sbarco: una spiaggia o una baia naturale con un fondale adatto al pescaggio di una nave da guerra e, allo stesso tempo, abbastanza vicina a delle arterie stradali sui cui poi muovere i mezzi. Se l’operazione sembra già complicata così, si deve tenere di conto che il piano di difesa nazionale taiwanese si fonda interamente sulla prevenzione da un possibile attacco cinese: le spiagge papabili per uno sbarco sono 14, già accuratamente mappate dallo Stato maggiore di Taipei che, nel corso degli anni, ha provveduto a dotarle di tunnel sotterranei e bunker per la loro difesa.
Si deve sottolineare, inoltre, che l’esercito di Pechino è dal 1979 che non combatte una guerra attiva e, pertanto, la sua reale capacità di resilienza sul campo è ancora tutta da dimostrare. Qua emerge anche il fattore psicologico. I taiwanesi, attaccati, potrebbero rendere manifesta quella forza ancestrale e indefinibile che si sviluppa in chi deve difendere la propria casa. Se si pensa alle difficoltà che un esercito come quello russo, le cui capacità erano state dimostrate nei recenti conflitti in Siria e in Georgia, hanno avuto nello scontro con gli ucraini, le possibilità che l’Esercito del Popolo riesca a marciare su Taipei si fanno più che dubbie.