Le lancette a Teheran piuttosto che a Roma, a New York invece che a Kabul, tintinnano in modo diverso, perfino il pressante “tic tac” non è lo stesso. Non è una questione di qualità o polvere desertica nell’ingranaggio, è proprio il marchingegno ad essere differente.
Non a caso il Mullah Omar, fondatore dei Taleb, amava dire riferendosi agli occidentali “Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo”. Parziale soffermarsi sull’arretratezza che essi sognavano per l’Afghanistan. Perché perfino il tempo è una questione identitaria che abbiamo inutilmente tentato di standardizzare con unità di misura, ma al quale sopravvive una percezione culturalmente dipendente.
In Occidente esso infatti è disgregatore e inghiottitore vorace con grande vantaggio dei progressisti, mentre in Medio Oriente sembra avere una particolare trazione ad essere conservatore e reazionario. Il riferimento non può limitarsi ai recenti fatti Afghani, frutto di un insensata politica statunitense, ma deve essere analizzato globalmente. In questo calderone l’Iran, e più recentemente la Turchia, sono casi specchio di una reazione naturale a quel che succede alienando un popolo dalla propria cultura tentando di anticipare la secolarizzazione. A conferma che la politica non può mai anticipare la Polis ma solo limitarsi a suggerire la direzione.
I media Europei tendono a dipingere la rivoluzione islamica come male assoluto e in parte hanno sicuramente ragione. Ma non per questo si è giustificati nel consacrare il prima. Si tende difatti a ignorare che la restaurazione Khomeinista in Iran, per quanto condannabile possa essere, è partita da un principio identitario più che legittimo, in contrapposizione ad un allontanamento da valori religiosi e morali che hanno per secoli scolpito la civiltà e di conseguenza la loro moralità, e con essa il modo di interfacciarsi al mondo. Troppo spesso nell’Europa dei diritti viene guardato con occhio ammirevole il regime precedente dello Scià Reza Pahlavi in quanto modernizzatore. Omettendo che era un dittatore al soldo della Gran Bretagna, un lacchè dei più sanguinari che consegnò le risorse petrolifere del Paese all’Occidente. Progressista e distruttore di cultura, turbo-occidentalista, sognava un Iran ateo dove il senso nazionale avrebbe dovuto anteporre, e forse sopraffare, il legame spirituale. Dunque nasce un errore semantico: la rivoluzione è di per sé un atto violento intento a rovesciare un ordine sociale, ma quella del clero sciita è nei fatti una controrivoluzione dettata dalla deviazione intrapresa dalla monarchia con l’obiettivo preciso di ricostituire l’ordine civile e culturale della stragrande maggioranza degli Iraniani dell’epoca.
In questo la Turchia non può che essere un parallelismo in tempi e modi più dilazionati. Nonostante la rivalità geopolitica e in parte religiosa (Sciiti contro Sunniti), la loro storia tende ad assomigliarsi ancora una volta.
Fondata dalle ceneri del glorioso impero Ottomano la Turchia moderna poggerebbe su solide basi laiche attraverso l’opera di deislamizzazione di Mustafà Khemal e dei suoi Giovani Turchi. Atatürk infatti si impegnò sin da subito a vietare l’hijab in pubblico, spostare il giorno festivo dal Venerdì alla Domenica e cambiare i caratteri alfabetici da arabi a latini. In questa perversa logica della seconda decade nel Novecento si inserisce Recep Tayyip Erdoğan. Formalmente Khemalista sostanzialmente islamista radicale, dal 2003 padrone assoluto della Turchia. Il suo successo è determinato da un nutrito bacino di sostenitori ben più vicino alla cultura anatolica che alla cosmopolita Istanbul, in un ulteriore prova che gli equilibri sociali, anche a distanza di decenni, non possono essere imposti ma devono essere frutto di evoluzione collettiva.
Atatürk e l’ex regnante di Persia dunque non sono solo due fratelli spirituali ma anche due modelli esasperati di una narrazione ossessionata dal voler occidentalizzare tutto, che non fa altro che alienare, con interventi di soft-power e non solo, culture estranee per erigersi autoreferenzialmente a modello e guida globale. La rivoluzione Sciita, così come il solco distanziatrice tracciato da Erdogan, sono il risultato logico di addendi che non possono essere sommati senza conseguenze. Il giornalismo frivolo schiacciato dal paradosso per cui qualsiasi critica all’Islam è additata come islamofobia, che ci impone di lasciare spazi pubblici alle moschee, allo stesso tempo esalta personaggi che hanno imposto divieti al credo in un Paese che ne ha cultura. Senza alcun senso logico ci poniamo come paladini dell’Islam in Europa ma occidentalizzatori in medio Oriente con l’aspirazione di convertirli al Dio globalista senza contare che nel più delle volte i risultati sono esattamente opposti.