Ora che il tempo sta per scadere – causa elezioni americane – e le prospettive appaiono sempre meno rosee, il fantasma della pace inizia ad aggirarsi in Occidente. Ancora è taciuto ma la percezione della sua presenza aumenta. È la percezione di una costrizione prossima, comandata dal deteriorarsi della situazione sul campo, provocata dal dissolversi progressivo della volontà politica di portare avanti una guerra che mai è stata percepita necessaria a qualche obiettivo strategico concreto che non fosse un benvenuto quanto limitato logorio del rivale. Sulla stanchezza dei belligeranti e dei loro mecenati, chi resta fuori da questo confronto prova nuovamente a progettare la pace in uno sforzo concertato, nella speranza – sottile a dire il vero – che la somma geopolitica dei suoi proponenti sia in grado di piegare la volontà delle parti.
Ma il contesto che renderebbe possibile un accordo sarebbe uno stallo, e invece il vento spira decisamente contro alle vele dell’Occidente. Più per sua scelta a dire il vero, che non per indomabili strali del destino: la mancanza di munizioni e di personale addestrato è per gli ucraini sempre più invalidante; le linee difensive devono essere ricostituite di fronte ai (limitati) sfondamenti e agli arretramenti tattici.
Il pacchetto d’aiuti americano non ricuce i gap strategici; quelli europei non possono essere determinanti sul versante militare. Come già per le commesse dedicate alla controffensiva, le promesse dovranno scontare la prova della volontà politica di attingere alle riserve strategiche, e soprattutto quella delle nostre capacità industriali in ambito Difesa. Soprattutto, non affronta (e non può affrontare) il gap fondamentale dell’esercito ucraino, vale a dire la carenza di uomini. Anche in questo caso, si configura una corsa contro il tempo, questa volta a dotare i nostri protetti del minimo indispensabile a sopravvivere militarmente, ovvero a stabilizzare la linea di contatto sui confini attuali.
È allora anche oltreoceano ci si rende conto che, specie in vista di una possibile vittoria di Trump a novembre, il tempo dei roboanti annunci di vittoria è passato, e l’obiettivo massimo diventa ora quello di non far crollare il fronte.
In questo scenario prova ad inserirsi la manovra diplomatica turca, con la Cina pivot geopolitico dell’iniziativa, l’appoggio esterno tedesco, e l’augurato sostegno del Sud Globale, capeggiato dall’India: una serie di summit in cui i principali attori internazionali possano costruire un piano di pace da sottoporre alle cancellerie belligeranti, una bozza di trattato che sia effettivamente corroborato dal peso geopolitico dei suoi proponenti, ai quali ci si augura possa accodarsi anche qualche altro Stato europeo.
Qualcuno potrebbe sogghignare all’elencazione degli sponsor di tale iniziativa: manca solo l’Iran per completare quella che diventerebbe una riunione della criminalità organizzata di Gotham City fatta a summit internazionale. Il paragone, apparentemente blasfemo, rende però la misura della credibilità media di cui questi attori godono presso gli Stati Uniti, ormai anch’essi esitanti rispetto al proprio impegno in Ucraina, ma assai poco propizi a subire l’iniziativa diplomatica di comprimari.
Outsider e villain della politica internazionale in veste di wise men – attori moderati e razionali, in traduzione dallo slang internazionalistico – mediatori di una crisi di proporzioni apparentemente ben superiori alla loro stazza. A tutti gli effetti si tratterebbe degli attori in questo frangente più interessati – anche perché meno ideologicamente coinvolti – alla stabilizzazione del contesto europeo; un ruolo niente affatto inusuale se leggiamo la storia recente.
Sulla stanchezza degli attori principali, giocano una manovra di rimessa per provare a porre anticipatamente la parola fine ad un conflitto altrimenti destinato a procedere indefinitamente fino a consunzione fisica di una delle controparti (o della volontà di uno del partner a supporto).
Nella mente di Erdogan, lo scenario sembra relativamente favorevole: gli ucraini potrebbero virare anch’essi verso il congelamento del conflitto, frustrati dal disinteressamento occidentale e dunque impossibilitati ad alternative. L’ostinazione di Zelensky, la cui personalità politica resta legata alla retorica della vittoria, potrebbe essere superata dagli eventi, con l’attuale presidente (coattivamente) convinto a mollare la presa nel momento in cui risultasse chiara la soverchiante responsabilità occidentale nel mancato successo militare.
Ma, ancora una volta, sono le tessere che mancano a far crollare il mosaico, sia a livello globale, che nel contesto locale.
Innanzitutto, il fattore riconoscimento. La bozza di accordo contiene elaborate merlettature politiche: dalla riattivazione del trattato Start sulle armi nucleari strategiche, fino ad una mirabolante garanzia di neutralità fino al 2040, anno nel quale sarebbe previsto un referendum sulla politica estera del paese e persino sui territori occupati; il tutto sigillato da una risolutiva clausola di non intervento negli affari interni di nazioni straniere.
Si prenda ad esempio quest’ultimo: l’Occidente non ha mai ritenuto legittime le volontà russe di mantenere un’influenza “speciale” nel proprio estero vicino (dottrina Medvedev), e ha sempre rivendicato la giustezza di un’espansione pacifica quanto indefinita della propria influenza in direzione di Mosca. Di conseguenza, le due potenze hanno corroborato le proprie politiche estere (espansionistiche) con la motivazione – soprattutto nell’ultimo decennio – di sconsigliare alla controparte di perseguire piani espansionistici, col risultato determinante di confermare agli occhi dell’altro i peggiori timori di aggressività. Una classica spirale da dilemma della sicurezza, alla cui base risiede proprio la negazione della legittimità del principio d’azione altrui. Quali sarebbero le prospettive di un principio di non interferenza costruito su basi simili?
E infine la Russia. Perché mai dovrebbe fermarsi ora che il vantaggio nei confronti dell’avversario è massimo e – perlomeno nel prevedibile futuro e nelle previsioni del Cremlino – il divario non farà che allargarsi? Ottenere il crollo autoprodotto del fronte avverso è la speranza più ardita di qualsiasi stratega militare, ma se ci sono delle premesse in grado di renderla ipotesi più realistica, esse non sono mai state più presenti di ora. L’idea della vittoria sta chiaramente svanendo dalle menti dei combattenti che da quasi 800 giorni turnano (raramente) dalle trincee: le forze fresche sono richieste disperatamente, ma saranno poche, impreparate e trascinate al fronte dai nuovi decreti, sempre che arrivino in tempo; sotto la pressione della lenta ma continua avanzata russa, la sensazione di abbandono degli ex-amici, che questa guerra a Kiev la consigliarono più di tutti,potrebbe comporre un mix fatale per l’organizzazione militare ucraina.
Gli unici “attori geopolitici” (virgolettati d’obbligo) che ancora, e anzi proprio ora, investono sulla polarizzazione e sulla retorica bellicista sono gli europei. Nel contesto appena descritto, vale la pena di chiedersi che cosa davvero significhi.