La parabola della geopolitica, da oggetto di damnatio memoriae a termine ormai inflazionato e sulla bocca di tutti, riflette la profondità della questione.
Ciò che si è tentato di fare con la recentissima antologia “Storia e filosofia della geopolitica”, a cura di Giuseppe De Ruvo e edito Carocci, è stato guardare alla disciplina in maniera non astratta ma con diretto riferimento alle questioni più calde dell’attuale scenario globale.
Perché, come ampiamente sottolineato nel volume, la geopolitica è scomparsa come teoria ma non come pratica. Pur evitando di citarne apertamente i principi cardine, l’approccio alla mondo da parte delle maggiori potenze e degli Stati Uniti in particolare, resta incardinato alla grammatica strategica.
A essere venuta meno dopo la seconda guerra mondiale e fino al brusco risveglio dal delirio unipolare statunitense nei primi anni Duemila, è stata la reputazione della geopolitica, la Geopolitik, la cui invenzione si deve alle intuizioni di Friedrich Ratzel a fine Ottocento e al suo consolidamento per opera di Rudolf Kjellén e specialmente Karl Haushofer. Con quest’ultimo, in pieno periodo di Weimar dopo la sconfitta del Secondo Reich nella Grande Guerra, siamo di fronte alla trasformazione della geopolitica da analisi pseudo-biologica del senso dello spazio per la vita (come scrive Ratzel: “Ogni aumento della massa organica, ogni crescita, ogni riproduzione indica un cambiamento spaziale e ogni movimento è conquista dello spazio”), a una applicazione maggiormente pratica del problema. Haushofer, teorico dello “spazio vitale” (Lebensraum), fu recuperato e utilizzato selettivamente dalla Germania nazista. In particolare, è assente nello studioso qualsiasi riferimento alla questione razziale, dato che lo spazio vitale si configura essenzialmente da un punto di vista strategico:
“È la geopolitica, non il razzismo, che deve impostare una politica estera fruttuosa, che deve suscitare un enorme eco popolare affinché possano nascere le forze che la realizzeranno”
Ulteriore tassello alla costituzione delle basi teoriche e filosofiche della geopolitica, provengono invece dal contesto anglosassone. E la questione è molto più che meramente concettuale. Se dalla Germania, cuore del pensiero filosofico occidentale per più di un secolo, nonché della devastante implosione del centro egemonico del mondo, ovvero l’Europa occidentale, germinano i concetti di spazio vitale e il termine stesso Geopolitik, proprio la questione tedesca, le sue ambizioni e esigenze vitali, connesse con il dominio dell’Eurasia in connessione con l’impero russo e quello cinese, determinano i quesiti strategici relativi al contenimento di qualunque possibile potenza europea e eurasiatica. Quesiti strategici che dal più grande impero marittimo esistente all’epoca, quello inglese, traslano nel suo successore e egemone attuale, gli Stati Uniti d’America.
In fondo si potrebbe ridurre tutta la dialettica pratica e teorica, i nuclei essenziali dellla storia del pensiero geopolitico, alla sopravvivenza delle potenze talassocratiche, ossia marittime, contrapposte al possibile avvento di potenze terragne, ossia eurasiatiche. La massa eurasiatica, enorme isola che, se dominata da una sola potenza, potrebbe diventare una spina nel fianco di qualunque impero talassocratico, ha ossessionato gli strateghi inglesi e statunitensi fino a oggi.
Così Mackinder, primo e importante teorico della questione del controllo dell’Heartland, ossia un lembo di terra potenzialmente inattaccabile dal mare, che si estenderebbe dall’Europa orientale a Vladivostok. Al centro “Grande Gioco” tra russi e inglesi in Asia Centrale, nonché dell’ “assalto al potere mondiale” a trazione tedesca, vi è stato il timore degli apparati inglesi di vedere una troppo grande concentrazione di potere nel cuore dell’Eurasia.
Parallelamente si innesta la questione, fondamentale, del dominio dei mari, portata avanti tra fine Ottocento e inizio Novecento dal grande stratega dell’espansione marittima statunitense, l’ammiraglio Alfred Thayer Mahan, le cui intuizioni sui fondamenti del potere talassocratico, sono ancora oggi determinanti per comprendere dove e come una potenza può riuscire a fallire nella propria transizione dalla terra al mare. Percorso riuscito al Giappone, tentato e non riuscito da Germania, Russia e (forse) Cina, in tempi più recenti. Autentico incubo, assieme al timore eurasiatico, degli apparati inglesi e poi statunitensi.
La (già annunciata) sconfitta della Germania, analizzata da Mackinder nel 1943, sarebbe dovuta essere dunque, nella mente dello stratega inglese, rinforzata dal totale annichilimento di qualsiasi futura velleità di rivalsa da parte tedesca. Al di là del puro fattore spaziale, al limite del determinismo, come in Ratzel e Haushofer, si aggiunge un elemento che è oggi fondamentale: l’uomo. La geopolitica deve farsi antropologia, lettura dei fenomeni profondi e strutturali che animano le collettività. Pertanto, per ridurre il rischio di nuove perturbazioni all’ordine globale, a detta di Mackinder, sarebbe stato necessario annacquare:
“L’anima tedesca con l’anima pulita di una nuova filosofia […]. L’acqua sporca potrebbe però essere purificata in maniera molto efficace se fosse controllata da forti argini in entrambi i lati, ovvero dal potere terrestre dell’Heartland a est e dal potere marittimo del bacino nordatlantico a ovest. Dobbiamo mettere l’anima tedesca davanti all’indubitabile certezza che ogni potenziale guerra si tramuterebbe in una guerra combattuta su due fronti incrollabili.”
Disattivata e annichilita qualsiasi potenziale rivalsa tedesca (fino a oggi), la ricerca dell’ordine globale post-guerre mondiali ha però dovuto fare i conti con la nuova contesa tra Stati Uniti e Russia sovietica, quale oggetto di analisi ulteriore e di approfondimento del fattore umano insito nel ragionamento strategico. Bandita la geopolitica, come accennato, la pratica geopolitica è rimasta identica. Sulla scia di Mackinder, il dispiegamento tattico della grammatica strategica statunitense, ha trovato in George Frost Kennan nel 1946 e in Henry Kissinger tra il 1954 e il 1971, gli artefici del contenimento ai danni del rivale sovietico. Contenimento che si è tradotto, in entrambi i casi, nella comprensione della profondità antropologica delle collettività russa e cinese, entrambe raccolte sotto l’involucro superficiale dell’ideologia comunista. Una “maschera” destinata a trasformare la guerra fredda in mero scontro ideologico e non tanto, piuttosto, nella costruzione di un ordine planetario di coabitazione tra Washington e Mosca con annesso il lunghissimo contenimento americano nei confronti della potenza eurasiatica russa.
Così Kennan ha improntato una tattica orientata a attendere semplicemente il collasso del rivale o, meglio ancora, il suo ridimensionamento. Approccio che meriterebbe più di una riflessione ancora oggi in sede di apparati americani:
“Kennan non ritiene che la corsa agli armamenti sia l’unico modo per garantire l’ordine e mantenere l’equilibrio. Certo è indispensabile mantenersi in una posizione di forza rispetto all’URSS, ma la superiorità tecnologica, bellica e atomica è, secondo Kennan, assolutamente insufficiente nel lungo periodo, dal momento che, se non si conosce l’avversario, il rischio di utilizzare astrategicamente tale potenza – gravando, peraltro, sul fronte interno da un punto di vista economico – è estremamente alto.”
Sullo stesso filone si colloca l’altro grande tattico statunitense dell’epoca, Henry Kissinger, memore dell’insegnamento kantiano e delle teorie sulla decadenza di Spengler, nonché studioso del congresso di Vienna e dei suoi lunghi (e benefici) effetti sull’equilibrio europeo e globale. L’ordine globale va costruito e difeso, mediante la comprensione, il pragmatismo e una certa dose di cinismo. Ossessionato dal caos, Kissinger muove prepotentemente dal fattore umano, sicuro che solo da quest’ultimo provengano gli elementi per costruire una forma di World Order, tale da assicurare la pace. Non dunque una pace astratta, filosofica e utopistica, quanto piuttosto una realistica considerazione delle questioni in gioco e delle possibili e concrete soluzioni.
Che cosa resta oggi del tentativo di mettere ordine al caos? I successivi testi dell’antologia di De Ruvo, oltre all’economia come strumento e non come fine per ascendere alla potenza (il contrario di questo si crede in Europa occidentale), guardano al mare, al già analizzato Mahan, e agli elementi oggi maggiormente destabilizzanti.
La fine dell’Unione sovietica, che mai gli americani auspicarono realmente, portò all’egemonia unipolare degli Stati Uniti, e condusse a un oblio ancora più profondo della riflessione strategica: sostituendo alla geopolitica la politologia e l’economia e legando dunque qualsiasi analisi di scenario alla necessità di rendere il pianeta “democratico” e “liberista”, ha trasformato gli Stati Uniti da fautori di un ordine a principali responsabili della propria e altrui destabilizzazione, come ben si evince dal caos mediorientale e dall’impossibilità di Washington di occuparsi di tutto il pianeta.
Oggi l’egemonia statunitense è assoluta, ma contrastata. Una nuova stagione di riflessione strategica e di dossier tattici, assorbono la mente degli apparati statunitensi, impegnati nell’impedire l’ascesa marittima della Cina e le deviazioni dall’ordine di Iran, Turchia e Russia.
A ciò si aggiungono i nuovi fronti e i nuovi spazi che competono alle attenzioni delle superpotenze: lo spazio e il ciberspazio. La corsa ai satelliti e quella al controllo dei dati, dei social network, nonché lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, sono le nuove frontiere della riflessione e del pensiero geopolitico. Con esiti potenzialmente imprevedibili e, a detta di Kissinger, forse catastrofici, specialmente se all’esigenza di ordine e alla centralità dell’uomo si sostituissero la pura volontà di potenza e l’ascesa delle IA sull’intelligenza umana.