Il Novecento, definito “secolo breve” da Hobsbawm, si sta rivelando, invece, tanto esteso quanto inconcluso. Carestie, epidemie, accesi nazionalismi, disegni revisionisti orientali, dispute egemoniche, vaghe e velleitarie suggestioni utopiche, spettri tecnocratici e ipotesi cosmopolite tanto ideali quanto ipocrite. Lo sterminato (e sterminatore) ventesimo secolo non è per nulla finito e con esso non sono finite le sue logiche, categorie e mitologie tanto che proprio nelle bussole novecentesche si può ritrovare la chiave del nostro tempo presente. È questa una delle principale tesi di un grande esponente delle nostre relazioni internazionali come l’ambasciatore Sergio Vento che nel suo ultimo saggio “Il XX secolo non è finito. Transizioni e ambiguità” (Rubbettino) ha fornito un ritratto plastico e suggestivo di questo novecento “in-finito” in cui ancora siamo intrappolati. Un’opera che si presenta come una densa e aguzza anatomia del secolo scorso, e dei suoi perduranti strali, letto non solo con l’occhio del pensatore e dell’esperto delle relazioni internazionali, ma anche con lo sguardo del civile servant, del consigliere, dell’ambasciatore, del silente protagonista del potere. Vento, infatti, con questo testo presenta un saggio ibrido, che unisce memoirs e trattato, ricordo e Storia, moralia e memoralia.
Seguendo il doppio binario dell’analisi storica e culturale (sulla scia di Kissinger e Kaplan), e quello della testimonianza dell’esponente istituzionale che è stato, tra le tante cose, ambasciatore negli Stati Uniti, in Francia, alle Nazioni Unite, oltre che consigliere di presidenti del Consiglio come Silvio Berlusconi, Giuliano Amato e Lamberto Dini. Il saggio di Vento si muove, infatti, alternando riflessioni sistemiche e considerazioni storico-memorialistiche, sui principali scenari del Novecento e della contemporaneità che vengono analizzati e evocati dall’autore senza nostalgie senza demonizzazioni. Delineando una galleria di incontri e protagonisti, che va da Frondizi a Hillary Clinton, da Chirac a Berlusconi, che scandisce le tappe del suo lungo itinerario culturale e istituzionale. Un percorso ben riassunto nella splendida prefazione all’opera del professor Mario Caligiuri, presidente della Società Italiana di Intelligence, che introduce il lettore in un itinerario tanto chiaro e lucido nella sua essenzialità, quanto denso e complesso nella profondità delle sue analisi. Il libro, infatti, può essere letto come un “atlante ideologico-sentimentale”, di luoghi, idee, incontri e sistemi del novecento, tra Vecchio e Nuovo Mondo, i canyon di cemento delle metropoli statunitensi e le stanze parnassiane degli enarchi, che si proietta verso le sfide della nostra contemporaneità e del futuro.
Roma, Parigi, Algeri, Buenos Aires, Washington, Ankara e New York sono solo alcuni dei luoghi e dei momenti chiave di questo memoir sinfonico che porta il lettore nella vita del suo autore e nei meccanismi della storia. Dall’educazione risorgimentalista e borghese, tra la figura triplicista del padre e quella internazionale degli zii d’America, passando per i primi anni nella carriera diplomatica negli algidi corridoi della Farnesina con in mano l’Espresso, fino alle giornate americane alle Nazioni Unite a ridosso dell’11 settembre, l’ambasciatore Vento delinea una sorta di Bildungsroman saggistico sui veri nodi delle relazioni internazionali e i paradigmi atavici del nostro Paese. Una confessione di un figlio del secolo che ripercorre, come in un saggistico e critico diario di viaggio, le tappe della sua attività istituzionale accompagnando alle considerazioni personali ricostruzioni storiche, analisi e valutazioni sulle principali dinamiche (superficiali e sotterranee) che hanno attraversato gli scenari affrontati e i dossier seguiti. L’Algeria fresca di indipendenza; l’Olanda postcoloniale specchio delle ambizioni beneluxiane; l’Argentina contesa tra populismo e liberalismo, golpe e lotte sindacali; la Turchia postkemalista e la sua anima contesa tra occidente e oriente, islam e laicismo, imperialismo e nazionalismo; la Farnesina degli uffici su Africa e Medio Oriente da cui si potevano scrutare le evoluzioni libiche e le tensioni israelo-palestinesi; le scrivanie e gli orologi di Palazzo Chigi frequentati negli anni come consigliere di presidenti del Consiglio. Fino alle intense attività come ambasciatore a Belgrado, Parigi, New York e Washington. Tra il crepuscolo della Iugoslavia, i pregiudizi di Chirac, le campagne elettorali di Clinton, i salotti di Manhattan del gotha globalista.
Il testo segue però allo stesso tempo anche un secondo filone presentandosi come una vera “controstoria della politica estera italiana” che va dagli anni 60 alla contemporaneità attraverso l’evocazione delle principali politiche svolte dall’Italia nei suoi principali scenari di influenza analizzandone gli indirizzi e i protagonisti. Dalla visione illuminante del socialista Arialdo Banfi, sottosegretario agli esteri, con una forte lungimiranza sulle opportunità del rapporto con l’Algeria, agli orizzonti strategici di un realismo prudente seppur capace di conciliare fedeltà euroatlantica e sacro egoismo, nell’attività di Andreotti ministro degli esteri, fino alla figura e visione di un ministro atipico come Gianni de Michelis e alle rotte euromediterranee dei socialisti craxiani. A cui si affianca lo studio del ruolo e delle policies di personalità come Giuseppe Saragat, Arnaldo Forlani e Emilio Colombo. Una ricostruzione che con il filtro di un sano realismo politico e internazionale, nei suoi giudizi e nelle sue valutazioni, mostra grandezze e miserie delle strategie italiane nel Mediterraneo e nello scenario internazionale. Superando tabù e retoriche che troppo spesso hanno filtrato o idealizzato i veri giochi che si celavano su cruciali nodi come le privatizzazioni, la fine della Iugoslavia, l’ingresso nell’Unione Europea, la sciagurata gestione delle primavere arabe, oltre ogni mitizzazione o mistificazione.
Come emerge soprattutto nelle pagine sulle privatizzazioni di cui Vento evidenzia errori e miraggi soprattutto rispetto al parallelo caso francese. Pagine in cui mostra la deriva “postsovietica” (come direbbe Geminello Alvi) di una privatizzazione che non ha aperto nuove libertà e miglioramenti nel nostro patrimonio industriale, ma ne ha avviato la lenta disgregazione. Una disgregazione causata dalla nostra cronica divisività e porosità che ha favorito poche oligarchie private (estere e nazionali) e meri disegni di potenza di altre nazioni che hanno beneficiato della nostra disorganizzazione e frantumazione.
Una divisività che troppo spesso nel nostro Paese si accompagna a curiosi idealismi politici che emerge soprattutto nelle pagine che nell’opera sono dedicate al multilateralismo. Paragrafi e capitoli dove l’autore sottolinea gli abbagli dell’Italia che spesso cerca nel multilateralismo (europeo, regionale, mondiale) non un mezzo, una sede e un campo in cui misurarsi, bensì un fine lirico e idealizzato in cui obliarsi. Pagine in cui disvela la curiosa interpretazione del “multilateralismo all’italiana” che vede in tale pratica un “orizzonte” quando al limite esso è un “metodo” e non “il” metodo. Sottolineando la necessità di pensare complementare e non alternativo lo strumento multilaterale a quello bilaterale nella definizione di strategie e accordi con gli altri stati. Con un focus rivelatore sull’ “eurolirismo” che spesso dietro all’evocazione del sogno comune europeo, nasconde famelici e ipocriti appetiti nazionali, che ne minano veramente le fondamenta.
L’opera però non è solo una autobiografia professionale e una “cronica” nazionale, ma è anche un breviario di politica internazionale travestito da saggio-memoriale, che dietro una narrazione accattivante e rigorosa, cela in sé una sintesi, un pamphlet, una bussola sistemica per orientarsi nella ragnatela delle relazioni internazionali. Il lettore potrà, infatti, trovare nelle pagine introduttive e anche in quelle più dense dei vari capitoli, una teoria sistemica dell’era VUCA (caratterizzata da Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity) in cui siamo immersi. Dove si evidenzia la cecità prospettica di una parte dell’élite occidentale nel ridurre i propri orizzonti in una statica ed anacronistica interpretazione del mondo ancora bipartito tra West and Rest. Un’illusione prospettica pericolosa perché ignora l’emersione di nuovi organismi multilaterali e nuovi ed inediti sintomi di un ordine a-polare ricco di metamorfosi tettoniche tanto nei paesi del global south (sedotti da un nuovo “Non allineamento”), quanto nel versante occidentale in cui la crisi della governance euroatlantica viene alimentata da uno short termism (favorito dalle invadenze tecnologiche e finanziarie) che spesso porta ad una selezione avversa o a una selezione incompleta di una classe dirigente destabilizzata nell’affrontare queste sfide epocali.
Una indagine che entra nelle officine e nelle botteghe del potere mostrando invece -aldilà di sterile mitologie “erbivore” e cosmopolite- come pensavano e come pensano ancora le grandi potenze: i loro orizzonti, i loro interessi e le loro vere logiche. Attraverso un’immersione nella storia recente, che affiora nei capitoli più biografici, che va dall’interpretazione dell’ottomanesimo di Erdogan all’analisi delle fibrillazioni terzomondiste e filocinesi dell’Argentina contemporanea (che forse nemmeno il sigillo libertariano di Milei sembra poter contenere). Fino alla genealogia dei network mitteleuropei (quasi neoabsburgici) e della loro sottile azione di persuasione e coordinamento internazionale (che collegano la Baviera, i paesi danubiani, l’Italia settentrionale e i grovigli balcanici).
L’autore inoltre si sofferma sulle grandi tematiche -spesso soffocate dal troppo banale cicaleccio politico- che hanno gravato sul nostro Paese: dalla questione energetica per l’Italia in un’ottica di emancipazione dalle autocrazie (russe e cinesi) tramite rapporti con i paesi mediterranei, ai metodi per raggiungere una maggiore reciprocità, fiducia e responsabilità nei rapporti transatlantici. Delineando in questo senso una vera “fenomenologia sull’interesse nazionale” che viene analizzato, colto e studiato in tutte le sue declinazioni (dal versante economico a quello culturale, da quello strategico a quello politico) senza scadere in una diffidenza inutilmente internazionalistica, né in una mitologia velleitaria e retorica, ma cercando strade, sentieri e orizzonti validi per l’attualità. Dalla rivalutazione delle relazioni con Ankara nel Mediterraneo, alla ridefinizione dei rapporti transalpini, dalla necessità di una maggiore autonomia energetica, alla rifondazione del ruolo del soft power che passa soprattutto per una riqualificazione (e in certi casi si potrebbe parlare anche di rifondazione) del nostro patrimonio industriale.
In questo senso il testo di Vento sia nelle sue considerazioni sistemiche che nelle componenti più biografiche si presenta quasi, in certi capitoli, come un’ “enciclopedia del soft power”, in cui si ripercorrono best practice, tradizioni virtuose e esempi di influenza e reciprocità nei rapporti internazionali che non passano solo tramite i trattati, i vertici e le assemblee, ma tramite il dialogo culturale, gli scambi commerciali, le internazionalizzazioni delle nostre imprese (dalla Olivetti alla Fiat, fino a Leonardo), la penetrazione del made in Italy negli altri mercati e nelle altre culture. Auspicando una maggiore coesione nella difesa dei nostri interessi e patrimoni e una nuova sinergia tra pubblico e privato capace di conciliare strategia, sviluppo e valori.
“Il XX secolo non è finito” affronta poi, con una ricostruzione di ampio respiro, le vere cause della crisi della governance euroatlantica e le principali miscalculations della globalizzazione, con un focus incentrato su come gestire e affrontare le principali “transizioni” in atto in un’epoca densa di “ambiguità” (come recita anche il sottotitolo).
Indagando il passaggio sempre più netto da movimenti a partiti classici, e la perniciosa soluzione di sussumere le scelte strategiche e di sicurezza a quelle di politica interna (se non peggio a valutazioni meramente elettorali…). Attraverso una esegesi delle crisi dei principali paradigmi europei come: il mercantilismo tedesco, la cui “sindrome della grande Svizzera” vive una fase quasi amletica; e il confuso protagonismo francese che dal Sael alla sconfitta di Macron alle elezioni europee ha mostrato le sue più naturali contraddizioni nel tentativo di ricucire le proprie fratture interne dietro il mito di una velleitaria “grandeur” internazionale.
Fino a cogliere i veri vicoli ciechi di una globalizzazione economica vittima di una cecità politica che a causa della sopravvalutazione delle conseguenze positive della fine della cold war, ha preteso di pensare decadute con le divergenze ideologiche anche quelle strategiche e “culturali”(Huntington), sottovalutando gravemente le evoluzioni cinesi.
L’autore affianca però a questa “diagnosi” delle “terapie” per l’Italia e l’Occidente per superare l’attuale disordine mondiale. Dal superamento di soluzioni internazionali anacronistiche come il G7 che rischiano solo di acuire la frattura tra Occidente e Global South a soluzioni nazionali per permettere all’Italia di avere maggiore uniformità, preparazione e continuità di azione nella scacchiera internazionale. Tra cui si evidenziano come principali antidoti alle debolezze del nostro Paese: la costituzione di un Consiglio per la Sicurezza Nazionale, sul modello statunitense, che supporti il Governo nelle politiche del settore; e ll’istituzione di un luogo di confronto parlamenare per definire politiche pubbliche a vantaggio della nazione, in analogia la Stiftung für Wissenschaft und Politik del Bundestag tedesco. Due proposte che che riassumono il mandato del testo di Vento che vuole proporre una visione dei foreign affairs che aldilà di fughe totalitarie, determinismi econometrici, terzomondomismi nauseanti e lirismi politici riporti al centro invece la realtà, gli interessi, le culture, i valori, le strategie.
Il libro in conclusione si presenta, quindi, come una rivincita della geografia, della storia, della politica e degli stati, sulle forme tecniche e impersonali che ne avevano decretato l’obsolescenza mostrando che il mondo non è per nulla “piatto”, ma è ricco di orografie complesse e irriducibili a logiche mercatistiche o deterministiche, che solo una vera cultura politica e strategica può comprendere e affrontare. Un testo che sancisce il primato delle relazioni internazionali sul determinismo di certa geopolitica, dell’equilibrio sulla potenza, di un’ottica concreta e realistica rispetto a concezioni utopistiche o avveniristiche che si sono mostrate tanto alte nelle morali, quanto più miserabili negli atti.