Il 26 maggio del 1928 T. E. Lawrence è mobilitato a Peshawar. Sta terminando The Mint, il plumbeo resoconto della sua esperienza nella Royal Air Force: era il 1922, si faceva chiamare John Hulme Ross, in un passo particolarmente cupo scrive: “La radice di questa sorda infelicità che mi sento addosso non è soltanto fisica…. Il guaio di fondo è la paura: paura di non riuscire, paura di crollare”. Visse come un insuccesso la conferenza di pace di Parigi del 1919: pensò di aver tradito gli Arabi e che la sua azione, infine, fosse il frutto del caos più che della strategia, del caso più che del coraggio. Un giornalista americano avido di fama, Lowell Thomas, aveva creato “Lawrence d’Arabia”, “enigmatica figura di ufficiale inglese in vesti arabe, che infiamma la nostra immaginazione”. Revolt in the Desert, la versione smilza dei Sette pilastri della saggezza, in effetti, edito negli Stati Uniti nel 1927, fu un successo. Eppure, Lawrence era un uomo che viveva per abolire le proprie inaudite identità: in questa storia di nomi contraffatti, simili a crisalidi, a gusci vuoti, è con quello di T.E. Shaw – forse in omaggio a Charlotte Shaw, intima amica, moglie di George Bernard – che si avventura in Afghanistan. Era un genio nell’abolire e obliare nomi, per altro: T. E. è figlio della relazione extraconiugale di Sir Thomas Robert Tighe Chapman, barone anglo irlandese; “Lawrence” era il nome fittizio adottato per tutelare l’alcova degli amanti dalle chiacchiere – il sigillo di un tradimento. Quando scriveva sui giornali si firmava Colin Dale.
Nel suo acerrimo desiderio di esiliarsi – all’apparenza: in Lawrence tutto è gioco di specchi, valzer di morgane nel deserto, laghi che in verità si rivelano pozze di sabbia – Lawrence parte per l’India l’8 dicembre del 1926, imbarcato sul “Derbyshire”; un mese dopo la RAF lo dirotta negli uffici di Karachi. Secondo la vulgata, Lawrence fa vita ritirata, sotto copertura, in coperta esistenziale. Non ha un buon rapporto coi superiori; ha pochi accoliti che con lui conquisterebbero città; non si fida del soldato britannico. Intrattiene una fitta corrispondenza con Robert Graves, il poeta, impegnato a scrivere la sua biografia, che chiamerà Lawrence and the Arabs (edita da Jonathan Cape nel 1927). Nel tempo libero, comincia a tradurre l’Odissea, prevista per un’edizione di lusso – si rivede, forse, in Odisseo, non fosse che il suo è un viaggio mediterraneo nei propri abissi, nei propri deserti. D’improvviso, da Peshawar Lawrence è inviato Miranshah, al confine con l’Afghanistan. È il maggio del 1928. Pare che alcuni agenti dei servizi francesi e russi abbiano scoperto la sua vera identità.
Dopo i fatti afghani, diversi analisti e intellettuali anglofoni hanno rievocato la “lezione di T.E. Lawrence”. John Hulsman, autore di una biografia lawrenciana (To Begin the World Over Again: Lawrence of Arabia from Damascus to Baghdad), ha indicato, da tempo, che la via da praticare in Afghanistan è “far seguito al consiglio più noto di T.E. Lawrence dei suoi 27 articles, cioè: Meglio che gli arabi lo facciano in modo tollerabile rispetto a farlo noi perfettamente. La comunità internazionale ha adottato questo metodo in Afghanistan? Direi di no. Purtroppo”. Già: ma cosa ci fa Lawrence in Afghanistan? La domanda è antica, arcana, taciuta: nel 1967, su “Indian History Congress”, V.P. Vaidik scrive: “Il fatto che Lawrence arrivi in India durante la rivolta afghana del 1928-29 non può essere un caso: quale ruolo abbia giocato in quel contesto continua a essere un mistero”. Già. Tutti si fermano sulle pubblicizzate, indemoniate imprese di T.E. in Medio Oriente, leggendo la parentesi indo-pakistana come un tracollo, un tramonto.
Secondo l’agiografia, Lawrence è mandato nella più estrema stazione della RAF a compiere meri lavori burocratici. Si annoia: l’amica Charlotte Shaw – è l’aprile del 1928 – gli invia un grammofono da Londra, per tirarlo su di morale. Le rivolte afghane contro Amanullah Khan scoppiano da Jalalabad il 14 novembre del 1928, scaturite da un attacco di alcuni guerriglieri Shinwari Pashtun. Un mese prima sulla stampa britannica escono alcuni articoli che localizzano T. E. Lawrence in Afghanistan: agirebbe camuffato da guida spirituale musulmana. I fatti sono rocamboleschi: Francia e Russia accusano Lawrence di essere una spia e l’Impero Britannico di volersi accaparrare l’Afghanistan. Ormai, l’eroe d’Arabia è per la RAF un peso, il suo travestimento scoperto e travisato: di peso viene inviato in India. L’8 gennaio del 1929 è a Lahore, poi è imbarcato sul “SS Rajputana” per l’Inghilterra. Nel viaggio di ritorno termina la traduzione dell’Odissea.
Proprio un secolo fa, Amanullah Khan promulga la costituzione afghana: apre all’uguaglianza di tutti i cittadini; inaugura l’emancipazione delle donne; attua riforme all’occidentale. Nel 1928 dichiara pubblicamente che le donne possono vivere senza velo. Amanullah è benvoluto in Europa: nel gennaio del 1928 incontra Vittorio Emanuele III, Benito Mussolini, Papa Pio XI; in marzo è dai reali inglesi; visita Belgio, Francia, Germania. Dopo la guerra civile afghana, che si risolve nell’ottobre del 1929 con la destituzione del re, Amanullah ripara in Italia, nella villa che ha acquistato a Roma, nel quartiere Prati. Dieci anni prima, Amanullah Khan aveva inflitto una pesante sconfitta all’esercito imperiale britannico, reo di ingerenze negli affari afghani: la cosiddetta terza guerra anglo-afghana. Gli inglesi, si sa, non dimenticano.
Ormai in Inghilterra, a Clouds Hill, Lawrence passa il tempo a progettare idrovolanti e motoscafi. “Per chi sappia vedere lontano, l’insuccesso è l’unica meta degna”, scrive in un passo del suo capolavoro.
***
A H.S. Ede
Miranshah, 30 giugno 1928
Bene: mi hanno trasferito da Karachi, e sono arrivato nella più remota stazione della RAF in India – la più piccola. Siamo solo in 26, di cui 5 ufficiali, con 700 soldati indiani, in un forte di mattoni, pavimento di terra, filo spinato che ci attorciglia, riflettori e mitraglie. Intorno a noi, a poche miglia di distanza, colline basse, nude, ad anello, color porcellana, dai bordi scheggiati simili a bottiglie rotte. L’Afghanistan è a dieci miglia di distanza. La quiete del luogo è inquietante – stavo per dire, minacciosa, dacché tra soldati viviamo come sonnambuli, ciascuno per i conti propri, ci incontriamo di rado. Quindi: non c’è rumore di uomini – né di bestie o di uccelli – tranne il concerto degli sciacalli, ogni notte, intorno alle 22, quando si accendono i riflettori. Le sentinelle indiane fanno lampeggiare i raggi per la pianura, finché non incendiano gli occhi di una bestia. Spesso la vedo – incrocio il suo sguardo.
Non ci è permesso oltrepassare il filo spinato di giorno, né uscire dal forte, la notte. Le uniche tentazioni di Miranshah sono noia e ozio. Spero di sfuggire alla prima e di gettarmi nel secondo: detto tra noi, a Karachi ho lavorato molto, sono stanco morto.
Qui mi impiegano principalmente in ufficio. Sono l’unico aviatore di grado con macchina da scrivere, dunque mi occupo di documenti e corrispondenza: faccio il postino, l’impiegato, il lavabottiglie. Questa stazione pare scaturita da un sogno: come se fossi caduto sul mondo all’improvviso, senza la memoria dei suoi guai. La quiete è così intensa che a volte mi sorprendo a strofinarmi le orecchie, chiedendomi se non sia diventato sordo.
Se il 1930 sarà gentile con me, verrò nei dintorni di Londra, per le vacanze. Ti farò visita. Robert Graves è stato troppo buono con me: mi ha reso un tipo affascinante, e i ragazzi del campo mi prendono in giro, “chissà cosa avrebbe scritto se ti avesse conosciuto davvero…”. Considerano la leggenda che veleggia intorno a me come un rebus, una truffa, uno scherzo. Hanno ragione.
Sempre tuo,
T.E.S.