Non occorrono velleità teocratiche o simpatie fondamentalistiche per evidenziare l’essenzialità della religione nel sostrato etico, morale e quindi sociale delle civiltà che va a permeare. Il primato spirituale e civile della religione non rappresenta una bigotta nostalgia da Sillabo di Pio IX sul comodino, ma un’istanza necessaria rispetto al tema certamente logoro e però reale che è il declino della civiltà occidentale, una décandence dei caratteri e quindi degli usi e dei costumi che progressivamente va aggravandosi.
Da Agostino a Machiavelli, da Leopardi a Huizinga, un’intera e sconfinata tradizione filosofica avvalora la tesi del legame inscindibile tra società civile e religione, intesa secondo le indicazioni di Lattanzio quale “legame che unisce gli uomini nella comunità civile sotto le stesse leggi e nello stesso culto”. Proprio l’autore del Principe, tutt’altro che cattolico d’osservanza, annota nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio come “Quelli principi o quelle repubbliche le quali si vogliono mantenere incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della loro religione, perché nessuno maggiore indizio si puote avere della rovina d’una provincia, che vedere dispregiato il culto divino”. Gli fa eco Leopardi, che mirando a Félicité de La Mennais, Bolinghbroke e Montesquieu, annota nello Zibaldone “l’oblio e il disprezzo della religione furono la cagione principale dei mali che provò Roma: la Religione e lo Stato decaddero nella medesima proporzione. […] Diciamolo pure, giacché non v’ha verità più sconosciuta e più importante: la Religione dei popoli è tutta la loro morale”.
Alle riflessioni di La Mennais filtrate dal recanatese animoso segue naturale una serie di deduzioni: se la morale è la colonna dello spirito di un popolo, lontano da essa v’è la barbarie, l’inconsapevolezza di sé, l’inanità politica e civile. Nichilismo e cancel culture, per dirla con termini “mainstream”, fenomeni di sterminata complessità efficacemente indagati dall’acutezza di Johan Huizinga, che ne La crisi della civiltà esplicita il vuoto di senso di un’umanità inabissata in una crisi psicosociale, senza Verità né escatologie a cui appellarsi e dunque attorcigliata inerme su se stessa. Se la profonda cultura è nella religione, come insegna Agostino, il collasso del suo avvicendamento con la ragione genera l’implosione della civiltà, che diviene allora facile preda degli umori relativisti:
«Scoprire il volto della verità rimase sempre l’ideale agognato. Non conosco civiltà le quali abbiano rinnegato la conoscenza intesa nel senso più vasto – la verità. […] La cultura che oggi vuole dare il non solo intende prescindere dalla ragione, ma anche dall’intelligibile, in favore di qualcosa che sta al di sotto della ragione, ed è impulso e istinto.»
Il sonno della ragione genera mostri, quello della religione incunea l’uomo nella dimensione annichilente dell’horror vacui. Scolora, si dissolve la realtà metafisica e si “depotenzia” la coscienza – Vattimo docet – privata nelle fondamenta e negli obiettivi di riferimenti rigidi, totali, universali. Superate – o meglio, eluse – le categorie tradizionali della filosofia, ci sarebbe spazio per una nuova corrente che tarda però ad arrivare; una tradizione è finita, un’altra non inizia e in questo gramsciano chiaroscuro avanza cieca la civiltà fino a precipitare, anche dal punto di vista psicologico. Poiché, sostiene William Devis, “è nello spazio incerto tra il corpo e la mente, tra la guerra e la pace, che si situano gli stati nervosi”, l’isteria e la depressione, la violenza e la follia, fenomeni che sempre più deflagrano e caratterizzano il nostro tempo. La società delle non-cose, effetto collaterale del mondo liberista, concepisce individui quali atomi solipsistici secondo un disegno rispetto al quale ancora Leopardi è illuminante “La pura ragione dissipa le illusioni e conduce per mano l’egoismo. L’egoismo spoglio d’illusioni estingue lo spirito nazionale, la virtù, e divide le nazioni per teste, vale a dire in tante parti quanti sono gli individui”. Tuttavia, la psicologia dell’individuo diviene inevitabilmente psicologia di una folla, di una massa, di un continente: quindi, laddove il pensiero è debole, la società è infiacchita.
In tal senso è paradigmatica la dialettica tra Oriente e Occidente, categorie anch’esse di lunga tradizione filosofica, concetti sostanzialmente differenti, l’uno animato dal c.d. “pensiero debole”, l’altro da categorie metafisiche – e quindi sociali – decisamente forti. La cronaca, ravvivata ancora una volta dagli attentati a Bruxelles – sedicente cuore d’Europa che più corretto sarebbe definire ventricolo burocratico – hanno fatto parlare di terrorismo e jihad in maniera spesso sterile se non goffa. La realtà è nell’analisi sagace del compianto Claudio Chianese, per cui “l’Occidente si è convertito al nulla, e tutte le volte che l’Islam avanza sta conquistando trincee già abbandonate”. Si rafforzano le civiltà che poggiano su un profondo e solido milieu culturale – ad esempio, pensiamo concretamente ad Arabia Saudita, Turchia, India – mentre decadono quelle che ripudiano la propria identità costitutiva.
Secolarizza e dunque trasecola l’Occidente, indirizzato sempre più al destino etimologico di luogo di tramonto. Il giorno della fine, comunque, non ci serviranno l’inglese e forse manco il Sillabo; sarà sufficiente, per comprendere l’avanzamento della civiltà, riscoprire la direttrice già marcata da Machiavelli, che scriveva “dove è religione si presuppone ogni bene, così dove ella manca si presuppone il contrario”. Indicando, da laico e anticlericale, come sempre sia inesorabile e rigoroso l’asse della storia, tragico e decisivo il bivio della civiltà: religione civile o barbarie.
L’articolo, che prende le decisive mosse dagli scritti di Claudio Chianese, è dedicato alla sua memoria.