È perentorio, Pietrangelo Buttafuoco, nell’affermare che quanto è stato scritto finora su Silvio Berlusconi è inutile; lo sostiene dacché tutti i ritratti, i servizi e le ricostruzioni assumono sfumature saggistiche e velleità politologiche, laddove la vicenda del Cavaliere – beato lui – è stata solo marginalmente politica. L’ex fogliante tratteggia l’essenza aerea del Cavaliere, cogliendolo nel profondo del suo personaggio – e dunque della maschera – trasfigurandolo nel non luogo della politica dove in realtà sempre ha dimorato lui, beato lui, capace di manovrare dall’alto nani e ballerine.
Il “più mozartiano degli uomini politici” ha albergato in politica come in un parnaso sublime e ignobile: la sua dimensione non fu quella burocratica ma quella eterea dei suoi canali, delle sue reti e delle muse e delle sacerdotesse che tanto lo adoravano quando a differenza di Paride non offriva un giudizio, ma elargiva copiose e abbondanti e feconde lusinghe, ché la misura è dei mortali mentre la munificenza cosa divina. La favola “oltremodo boccaccesca” di Silvio Berlusconi è fedele più ad una sceneggiatura di Pietro Germi che non alle dissertazioni di un Machiavelli; tuttavia, giacché “il suo mestiere è un unico mestiere”, la cifra della sua intera esistenza è la zingarata, laddove l’azione è mossa come l’amore da “libertà, estro e desiderio” e modello ideale non è più il Principe ma il Perozzi di Amici miei. Berlusconi, l’arcitaliano, si fa demiurgo e maschera di se stesso, puparo di fronte al quale “la politologia muta s’arrende”.
“Mito forgiato dalla realtà, superiore a qualunque fantasia, sgargiante e vincente nella solennità delle istituzioni, il Silvio che aprirebbe le porte del Paradiso pure a Lucifero […] pur essendo stato il presidente del Consiglio che più ha governato in tutta la storia della Repubblica, non ha alcuna cupidigia di politica. Ne riceve profonda noia”.
Come Amleto s’annoia, superiormente, lui che nel ’94 sfidò i senzadio e offrendosi come “salvatore del paese” riuscì financo a batterli, donando agli Italiani il corpo di una nuova divinità pagana cui offrire il proprio voto, nella duplice accezione elettorale e devozionale. Quando si mostra lui – santissimo lui – è autentica revelatio e, esitando come davanti ad un dio, ci si può solo domandare “è lui o non è lui?”. Se lo domandano nel panegirico tutti gli uomini amati dal signore e quindi tutti, estimatori e detrattori, fedeli e miscredenti, che Silvio con l’intelligenza cattivissima del mercante controllava chi rideva alle proprie barzellette, ma con il cuore buono del mecenate finanziava anche chi lo etichettava come caimano.
È ancora shakesperiano, Silvio, quando all’Opera di Roma tutti i ministri votano per ammazzare Gheddafi e lui si ritrova desolato, come l’Amleto di CB senza un amico, senza nessuno a raccontare la sua storia. Dopo l’estromissione da Palazzo Chigi, un periodo di lontananza dai riflettori, dalla luminescenza e dalla fotogenia; insolita mestizia, è ancora lui o non è più lui? Poi il ritorno, la velleità quirinalizia anticipa l’ultimo tacco a Palazzo Grazioli, quando Berlusconi – stavolta felliniano – abbandona la dimora romana ed è tutto un esodo ed una danza di “fuochisti, frenatori sambisti, lampisti” per le musiche del maestro Nino Rota.
Da quel momento in poi, Sua emittenza diventa sua degenza, Silvio si restituisce nell’Assenza del titano infermo e ferito dal Tempo che non è stato in grado – umanissimo lui – di governare. Dopo la velleità quirinalizia, la divina soglia, quella eterna. E poiché “l’eternità è commedia” Pietrangelo Buttafuoco restituisce la figura dell’ex Premier – il personaggio e dunque la maschera – all’uso del panegirico, secondo vizi e virtù; lo trasfigura nella dimensione teatrale, la più prossima alla politica, giacché Lui – beato ed eterno lui – dalle logiche di potere solamente tedio ricavava. La noia della politica del Beato è oggi la noia desolata di un intero popolo, che in una situazione grave ma non seria ha perso l’arte della politica e peggio ancora, ammesso che differenza vi sia, della commedia.