Dopo la vittoria nella Guerra Fredda, l’Occidente diresse il rapporto con la Russia sconfitta secondo linee opposte. La prima intese la sicurezza europea quale dimensione comune e indivisibile, originando gli accordi di Helsinki e l’Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), rispettivamente nel 1990 e nel 1995. L’altra tentò di raccogliere pienamente i frutti della vittoria, spingendo per l’allargamento del blocco atlantico. Quindi nel 1997, 2004 e 2008, le tappe fondamentali dell’espansione orientale della Nato, segnarono l’esito. Diversamente commentato negli Stati Uniti; da George Kennan, «Sono semplicemente devastato per quello che sta accadendo. Non vedo altro che una nuova guerra fredda che si terminerà probabilmente in una guerra calda nonché la fine degli sforzi di stabilire una democrazia funzionante in Russia. Vedo anche la fine tragica, totale e completamente non necessaria di una relazione accettabile tra la Russia e il resto dell’Europa» (1997) o da Condoleezza Rice, «Mosca ha bisogno di sapere che la guerra fredda è finita e che la Russia ha perso. Non possiamo permetterle di dividere l’alleanza» (2008).
Due formulazioni esemplari della dialettica interna, tra le correnti politiche realista e neoconservatrice, tra la visione del mondo possibile e la tendenza dominante. Nonché introduzione paradigmatica al saggio dell’ambasciatrice Elena Basile, L’occidente e il nemico permanente (PaperFirst, 2024). Sintesi concisa tra esperienza trentennale da specialista e forma divulgativa; dedicata ai conflitti che insanguinano l’Ucraina e il Medio Oriente, all’emersione multipolare e alle relative forme della narrazione mediatica. Temi accomunati, nella stessa dicotomia del titolo.
Nel caso ucraino la tendenza occidentale a esperire l’alterità attraverso la categoria del nemico, emerge nella maniera più compiuta. Per cui vale la pena di concentrare l’osservazione su di esso. Il primo passo fu l’accordo informale tra il presidente degli Stati Uniti George H.W. Bush e il presidente dell’Unione Sovietica Michail Gorbačëv, sulla riunificazione tedesca quale limite all’espansione della Nato, contestuale al ritiro dell’Armata Rossa. Una promessa inesistente per il diritto internazionale, fragile per gli effettivi rapporti di forza e necessaria per la pace.
Tuttavia, se la prima espansione aveva proceduto al sicuro del momento unipolare statunitense. L’ultimo passo collise rapporti di forza meno squilibrati, con la rinascita russa e la nuova corrente multipolare. Nel 2007, alla Conferenza di Monaco, il presidente russo Vladimir Putin esplicitò l’analisi sui progetti occidentali, minaccia esistenziale alla sicurezza. E, nel 2008, il vertice Nato di Bucarest segnò la discussione interna, circa l’opportunità che Ucraina e Georgia ricevessero l’invito di adesione. Stati Uniti e Polonia con la Nuova Europa dell’est, favorevoli. Germania, Francia e Italia, contrarie. Alla fine, il comunicato ufficiale riconobbe i desideri atlantici di Ucraina e Georgia ma senza invito. Con il rappresentante polacco Sikorski che accusava esplicitamente la Germania di preferire gli interessi russi, a quelli dei propri alleati.
In Georgia, gli eventi sarebbero precipitati velocemente. In estate, gli eserciti georgiano e statunitense svolgono esercitazioni assieme. Probabilmente, i presidenti George W. Bush e Mikheil Saak’ashvili concordano l’azione. E in agosto, i georgiani attaccano la regione separatista filorussa dell’Ossezia del Sud. Il presidente russo Dmitrij Medvedev interviene con decisione. La Russia sconfigge la Georgia in cinque giorni di guerra. Quindi Ossezia del Sud e Abcasia, indipendenti di fatto dagli anni Novanta, passano alla proclamazione.
Nel marzo successivo, sarebbe stata la volta dei ministri degli esteri. Hillary Clinton dona a Sergej Lavrov, l’orologio con il bottone rosso per resettare le relazioni e ricominciare da zero. Ma con poco successo. Nel Vecchio Continente gli interessi divergono. I paesi scandinavi con la Nuova Europa hanno scampato l’egemonia sovietica e guardano con ostilità verso oriente. La Germania ha contestato la guerra in Iraq e nutre con il gas della relazione/dipendenza speciale russa una prosperità economica di surplus manifatturiero, intrecciato al mercato cinese. Gli Stati Uniti osservano il rafforzamento di vincoli sistemici del primo paese europeo, disallineati rispetto ai confini della propria egemonia, rischiosi di mettere in discussione il vassallaggio e trascinare altri con sé.
In questo modo, dopo il Vertice di Bucarest, Germania e Russia lavorarono per completare il gasdotto Nord Stream 1 e spostare il tubo della relazione speciale “al sicuro” sotto il mar Baltico, anziché continuare ad attraversare i paesi che desideravano separarle; mentre Svezia e Polonia si impegnarono perché la Politica Europea di Vicinato bilanciasse l’Unione per il Mediterraneo con il Partenariato Orientale, volto ad avvicinare l’Ucraina e i paesi del Caucaso.
Il Partenariato originerà prima la consueta dialettica europea, tra un’interpretazione aperta e un’interpretazione di rapporto tendenzialmente esclusivo, quindi la prevalenza della seconda. La via verso il peggio. Verso fine 2013, infatti, il presidente ucraino Viktor Janukovyč rifiuta di firmare l’accordo di associazione all’Unione Europea, provocando grandi mobilitazioni di protesta. Janukovyč è vicino alla Russia. Ma decenni di influenza anglosassone e di finanziamenti alle organizzazioni non governative hanno largamente penetrato il paese, negli ambienti militari, economici e nella società.
Janukovyč, comunque largamente impopolare, avrebbe lasciato il posto a un rivale filoccidentale alla fine del suo mandato. Il che solleva la domanda sulle ragioni che indussero a cercare lo scontro duro, anziché attendere la corrente. Perché, secondo Basile, quello che segue le proteste è un colpo di Stato. O secondo George Friedman, il colpo di Stato più evidente della storia. D’altronde, più o meno nelle stesse ore, i ministri degli esteri russo ed europei convincono governo e opposizione ucraini a firmare un accordo, mentre americani e opposizione armata agiscono. Victoria Nuland, assistente neoconservatrice di Dick Cheney e Barack Obama per i paesi eurasiatici, svolge un ruolo fondamentale, tenta di comporre il futuro governo ucraino e risponde all’ambasciatore suo collega, incline a ricordare la linea degli europei, con la frase che sarebbe diventata iconica «Fuck the Eu». Seguono l’occupazione e l’annessione russa della Crimea, con le relative sanzioni economiche occidentali. Con l’avvio del sanguinoso conflitto nell’Est del paese, tra le politiche oppressive del nuovo governo e il progetto indipendentista filorusso del Donbass.
Infine, l’anno successivo, più che paradosso, coerente prosecuzione, la compagnia russa Gazprom firma intese con diverse compagnie europee per costruire Nord Stream 2. Se il governo ucraino della Nuland dovesse insidiare il transito terrestre del gas russo, il presidente tedesco Angela Merkel desidera rafforzare la sicurezza del collegamento diretto. In oltre, Francia e Germania che ospitano la sede di due delle società coinvolte nel gasdotto, divengono garanti tra Russia e Ucraina dell’accordo Misk 2. L’ambizione è assicurare un regime di autonomia alle regioni russofone e concludere la guerra.
Basile sembra dare credito ai riallineamenti recenti di François Hollande e Merkel sull’intento di firmare gli accordi di Minsk senza la volontà di applicarli, per guadagnare tempo e rafforzare l’esercito ucraino. Del resto gli accordi rimasero inapplicati e il riarmo procedette. Nonostante fino al 2021, le richieste russe continuassero a giungere insistenti, per un negoziato che evitasse l’espansione atlantica dei vecchi inviti “in sospeso”. Una linea della fermezza destinata a trovare conferma con la sfumata pace di Istambul e nelle dichiarazioni dello stesso segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, davanti al Parlamento Europeo.
Così, il crinale scivolava verso il 22 febbraio 2022 e l’invasione russa dell’Ucraina. Quale guerra preventiva dell’ingresso in un’alleanza militare ostile. Con la Nato, «aggressore strategico». E la Russia, «aggressore tattico».
Uno sguardo alle conseguenze. Il giornalista Seymour Hersh ha proposto una ricostruzione autorevole di come gli Stati Uniti abbiano deciso di passare dalle minacce esplicite in tempo di pace, alle esplosioni sottomarine in tempo di guerra, circa l’interruzione dei gasdotti Nord Stream. Senza dubbio gli Stati Uniti hanno conseguito l’obiettivo importante di rompere la relazione speciale. Scongiurando il pericolo che la Germania con il suo indotto produttivo europeo guadagnasse margini di manovra autonoma e allentasse vassallaggio atlantico. In forza della linea: gas russo a basso costo, industria tedesca, mercato cinese. Tuttavia, la speranza mai abbandonata del momento unipolare, desovranizzare la Russia per includerla nella struttura politico-economico-finanziaria americana (nella globalizzazione) non rifiorisce. Il nuovo contesto internazionale dei paesi emergenti e il breve termine svelano un regime russo più forte. Per rischiare un’estrema sintesi di recensione, gli Stati Uniti vincono, la Russia regge, l’Europa franco-tedesca perde, l’Ucraina paga un costo umano tragico.
Risaltando, per assenza dall’analisi, ogni considerazione sulla sconfitta russa quale caduta nell’orbita cinese. A riguardo, è possibile accostare la riflessione dell’ambasciatore Alberto Bradanini – autore della postfazione – con la sua analisi dedicata alla Cina (Sandro Teti Editore, 2022). La Cina ha scampato a sua volta la desovranizzazione, rimane prudentemente lontana dalla costruzione onerosa di un proprio “impero” sul modello americano e asseconda la tendenza multipolare. Sovrapposizione delle influenze centroasiatiche, pressione demografica cinese al confine siberiano, squilibrio della bilancia commerciale sono questioni secondarie e lasciano margini di compromesso.
Non di meno, la guerra ha aggredito capitalismo e liberalismo nella loro espressione più coerente. Come già accennato, la globalizzazione ha coinciso con l’inserimento in posizione subordinata di sempre nuovi paesi, nella struttura politico-economico-finanziaria americana. Dopo la Seconda Guerra Mondiale l’operazione ebbe successo con Germania e Giappone, sconfitti e occupati. Tuttavia, dopo la Guerra Fredda, Russia (superati i disastrosi anni Novanta) e Cina (incredibilmente) sono riuscite a mantenere la propria sovranità, beneficiando del mercato globale.
Ciò ha suggerito agli Stati Uniti e conseguentemente alla Nato, di modificare la propria strategia, per mantenere la posizione dominante e impedire che il loro stesso sistema favorisse l’emersione di relazioni internazionali maggiormente paritarie o di rivali. A partire dalla scelta di scatenare conflitti limitati, per dividere il mondo in blocchi, proteggere la posizione del dollaro, indebolire i rivali, evitare l’emersione di un sistema internazionale multipolare. Fino alla decisione di stabilire politiche economiche protezionistiche e subordinare l’accesso a mercati e risorse strategiche alla logica geopolitica, anziché a quella economica, del diritto internazionale e delle organizzazioni multilaterali. Come nel caso dell’accesso al gas russo, per l’Europa. O dell’accesso ai semiconduttori con le tecnologie associate, per la Cina.
In fondo, una dinamica parzialmente condivisa. La Russia avrebbe continuato ben volentieri a mantenersi sovrana, sfruttando la globalizzazione altrui, per vendere materie prime agli europei. Tuttavia l’espansione Nato ha imposto una scelta. Da un lato, la sicurezza nazionale e probabilmente l’autoconservazione come soggetto indipendente, dall’altro la propria consuetudine di richiamo al diritto internazionale e l’interesse del capitale. Il primato della politica ha prevalso nel momento di occupare la Crimea e invadere l’Ucraina.
Un breve sguardo, anche ai capitoli dedicati al sistema mediatico occidentale. Giornali e televisioni raccontano al grande pubblico i conflitti ucraino e israelo-palestinese, secondo uno schema preciso. La struttura narrativa è fiabesca. L’antagonista malvagio come Putin o Hamas rompe la situazione iniziale, il protagonista come Israele o Volodymyr Zelens’kyj deve difendersi, l’aiutante buono Occidente dà manforte. La profondità storica dei conflitti viene cancellata. E il nemico viene demonizzato, nella trasposizione di una lotta tra opposti interessi, in uno scontro tra bene e male, libertà contro autocrazia e terrorismo.
In Italia, e non solo, nella fase storica del secondo dopoguerra, le forze politico-culturali della destra e della sinistra costruirono un sistema mediatico che permettesse la contrapposta, equilibrata, espressione di entrambe. Oggi l’influenza di media quali New York Times e Cbs, la concentrazione delle proprietà, la dominanza di poche agenzie stampa, la selezione ideologica e l’autocensura, necessarie alla carriera dei giornalisti, assicurano la corrispondenza della narrazione che informa l’opinione pubblica, alla dinamica del potere.
Un lento cambiamento del contesto mediatico, sostanzialmente in accordo alla politica atlantica, precedente gli attuali conflitti. Il che suggerisce la nostra domanda profonda. L’eccezione dell’Occidentale moderno manifesta una fatica particolare ad accettare l’alterità. Approdate le tre caravelle, è risultato impossibile smettere di tentare la conversione dell’altro, al cristianesimo, al mercato, ai diritti dell’uomo, alla globalizzazione. Eppure, secondo l’ambasciatrice Elena Basile, la corsa verso la guerra è stata affatto inevitabile. Come hanno mostrato diverse figure autorevoli dell’élite americana e della corrente realista, con i loro ammonimenti e il tentativo di una politica orientale diversa. In attesa che il prossimo presidente degli Stati Uniti Donald Trump con la sua amministrazione, tenti di abbandonare lo scontro, accontentandosi di quanto raggiunto. In ogni caso, prevale la vecchia logica. Il nemico è permanente.