Una delle conseguenze dell’eccesso d’informazione in cui si è immersi, da pochi decenni a questa parte, sarà il rinnovamento, forse rivoluzionario, del ruolo dello storico, e della storiografia come materia di studi. La semplicità con cui è possibile, già da ora, manipolare le fonti dirette sta portando alla proliferazione delle narrative, intese come ricostruzioni parziali delle intenzioni, delle motivazioni, e, in ultima istanza, dei risultati. Se non c’è dubbio che l’incontro fra Xi e Putin rappresenti l’ufficialità del lancio del guanto di sfida nei confronti dell’egemone, la guerra in Ucraina vive ancora nell’incertezza del suo significato. Da una parte, aggressione imperialista, dall’altra, uscita dalla sudditanza. Si dirà che non è esclusiva di questi tempi. Il terzo Reich si reggeva su un desiderio di rivalsa nei confronti dell’oppressore anglosassone a cui durante la guerra veniva opposta l’ideologia della libertà a stelle e strisce. Ed è pur vero che la storia soffia via la polvere che offusca la vista, lasciando solo una linea retta, che collega cause con conseguenze, fino ai nostri giorni.
Lungi dal voler dichiarare i tempi correnti come unici e irripetibili – ben noto è l’insegnamento secondo cui di nuovo nella storia dell’uomo c’è solo la conta dei morti – è tuttavia interessante notare alcuni aspetti di peculiarità. La libertà ha effettivamente vinto, ed il nostro è il secolo delle infinite possibilità. Così la rivoluzione, paradossalmente, non passa più dal taglio delle teste. O per lo meno, non principalmente dall’esecuzione del nemico in pubblica piazza. Vedasi, ad esempio, l’impiccagione di Saddam Hussein trasmessa a reti unificate in tutto il mondo. In pochi avranno davvero considerato quello come un momento da ricordare. Vivere nel migliore dei sistemi esistenti comporta l’impossibilità di accettare l’altrui impianto ideologico come paritetico. A voler essere maliziosi, si tratta di un’idea utile specie per chi ha interesse a imporsi sugli altri. Ma siccome la malizia non è virtù, è bene lasciarla da parte e concentrarsi su ciò che rimane.
Fazi Editore ha pubblicato, a un anno dallo scoppio del conflitto armato fra truppe russe e ucraine, il caso editoriale del momento. Come l’Occidente ha provocato la guerra in Ucraina, scritto da Benjamin Abelow, la cui prefazione italiana vanta la firma di Luciano Canfora. Uno studio, o meglio un’aneddotica, che ha presto infervorato e fatto godere di gioia in egual misura. A partire dal titolo. Sembra infatti di avere fra le mani un compendio delle idee che clandestinamente circolavano già quando la guerra sembrava destinata a durare non più di qualche giorno. Il libro, proprio perché la narrativa dominante pare ben lontana dall’essersi sedimentata definitivamente, colpisce e spiazza. In ciò Abelow è furbo abbastanza da capire che le vie di mezzo sono controproducenti. Dire, infatti, che la Russia ha compiuto crimini, ma che gli Stati Uniti non sono certo dei santi (tanto per citare un ex Presidente) non arriva al punto. Ciò che serve è un totale rovesciamento della storia. Tanto che alla fine della lettura – per dirla con i teorici filo-NATO – quasi stranisce notare che l’operazione speciale sia portata avanti da truppe che rispondono al Cremlino, invece che alla Casa Bianca.
Riassumendo, in pochi punti. La NATO si è espansa di 1600 chilometri dalla fine della guerra fredda a oggi, e questo giustifica Putin, il quale non può essere considerato l’Hitler del XXI secolo per manifesta insussistenza della tesi. Gli Stati Uniti, a parti invertite, si sarebbero comportati come la Russia, in virtù di quella Dottrina Monroe che costituisce uno dei pilastri del loro impero. In questo momento l’Occidente vive in una bolla informativa del tutto parziale, di cui i media sono principali autori e propagatori. Una bolla informativa che ha creato una narrativa di parte basata su premesse false. Dunque falsa anch’essa. Lo scopo centrale di Abelow è avvertire i lettori della pericolosità di una narrativa sbagliata, perché da essa nulla può nascere che non siano eventi nefasti. Zelensky non è dunque eroe provvidenziale del suo popolo, ma utile idiota che finge di essere a capo di un Paese che nei fatti si regge per via del flusso continuo di armi e contanti occidentali, e il cui esercito è in larga parte addestrato da capi di Stato stranieri, che basano le loro mosse su informazioni che giungono tramite servizi segreti stranieri. Cos’è, quindi, questa se non una guerra per procura? Tutto il possibile si dovrà dunque fare per vincere la suddetta guerra, specie considerando che il premio ambitissimo – ovvero la caduta di Putin, il nemico per antonomasia – non appare così lontano.
Lungi dal voler dare ragione all’una o all’altra parte, l’operazione che l’autore può dire di aver portato a termine con successo, è quella di aver messo nero su bianco in un pamphlet tascabile, in poco meno di cento pagine, la decostruzione di una narrativa che effettivamente sta cominciando a sembrare inefficace anche a chi di professione se ne fa rappresentante. Va da sé che sarà il campo di battaglia a dire l’ultima parola, e la nostra storia sarà scritta con il sangue straniero, di quelle centinaia di migliaia di ucraini e russi colpevoli solamente di non essere abbastanza utili in patria da vedersi risparmiata la trincea. Ma le guerre di domani saranno decise dalle punizioni riservate ai perdenti di oggi. E quelle, fino a prova contraria, si basano sulla storia del conflitto che uscirà vincitrice. Abelow lo sa bene.