Nelle ultime settimane nelle principali testate occidentali (a partire da Le Monde) si parla della guerra in Ucraina come di una possibilità per il paese di accelerare e migliorare il processo di democratizzazione delle strutture politiche dello stato già evidentemente iniziato, stando a questa narrazione, dopo il 2014 al fine di un possibile ingresso nell’Unione Europea e in generale di un’occidentalizzazione economica e politica del paese. In sostanza nulla di nuovo: nemmeno un conflitto diretto sul territorio europeo fra Russia e Ucraina (e Russia e Occidenti) è riuscito a scalfire la coltre ideologica occidentale.
Come avviene in ogni guerra dal 24 febbraio in Ucraina si è assistito a un processo di accentramento del potere nelle mani di Zelens’kyj e della sua ristrettissima cerchia di fedelissimi (in Russia questo stesso processo è risultato essere molto più complesso e claudicante). Ciò però non è che l’esasperazione di una dinamica iniziata ben prima del 24 febbraio e che consiste nella repressione di politici di opposizione e giornalisti in disaccordo con la linea post-2014, nella presa diretta sul sistema di informazione con l’esclusione della lingua russa e, dopo il 24 febbraio, nella creazione di una piattaforma unica per la trasmissione di tutti i canali televisivi. Il 20 marzo è stato firmato un decreto per la creazione di “un’unica piattaforma informativa” per “una comunicazione strategica” che includeva anche la sospensione di partiti di opposizione come Piattaforma di Opposizione- Per la Vita, Il Partito di Šaryj, I Nostri, Blocco d’Opposizione, Opposizione di Sinistra, Unione delle Forze di Sinistra, La Patria, Partito Socialista Progressista dell’Ucraina, I Socialisti, Il blocco di Vladimir Sal’do (le sedi di alcuni di questi partiti sono state perquisite e alcuni partiti indagati). Il Partito Socialista è anche ricorso in appello presso la Corte suprema ucraina che però ha riconfermato la decisione del governo.
Dal punto di vista politico e amministrativo sono stati molti i cambi di vertici per sospetto alto tradimento (o purghe che dir si voglia) che minando la democraticità delle strutture politiche e amministrative del paese rendono l’ammissione nell’Unione Europea più complessa. Un esempio: in uno dei più importanti cambi di vertici Zelens’kyj ha sostituito Bakanov con Vasil’ Malyuk (di 8 anni più giovane). La carriera di Malyuk ha subito una notevole accelerazione a partire dal 2020 e successivamente è stata direttamente dettata dal ritmo del conflitto: dal 13 marzo 2020 fino al 26 luglio 2021 è il primo vicepresidente della Commissione per la lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata (organismo fondamentale per l’ingresso nell’Unione Europea) del SBU, dal 16 febbraio 2022 è il viceministro degli interni, dal 3 marzo è il primo vicepresidente del SBU, il 25 marzo diventa generale di brigata, dal 18 luglio è presidente ad interim del SBU e dal 4 agosto è membro del Consiglio nazionale della sicurezza e della difesa ucraino.
Questo tipo di carriera mostra chiaramente che Malyuk non è un uomo di apparati, ma è un fedelissimo di Zelens’skyj; cosa da un lato comprensibile e spiegabile data la congiuntura attuale, dall’altro indicativa del futuro delle strutture ucraine. Le riforme strutturali degli apparati ucraini essenziali per l’ingresso nell’Unione europea richiedono molto tempo e una stabilità nella loro gestione che ora per ovvie ragioni sono completamente impossibili. Inoltre bisogna ammettere che anche prima del 24 febbraio non sono mai state intraprese riforme strutturali a lungo termine (anche per motivi di natura esclusivamente politica legati alla stessa presidenza Zelens’kyj): molti progetti da parte ucraina e molte raccomandazioni dalla controparte europea conclusesi in un nulla di fatto. In Europa questa diagnosi del caso ucraino prima dell’inizio del conflitto era completamente pacifica, ma ora per motivazioni geopolitiche e politiche forse lo è un pò meno. E’ difficile pensare che con premesse di questo tipo e sviluppi legati agli avvenimenti attuali l’Ucraina riuscirà a democratizzare le sue strutture politiche e a sconfiggere la corruzione. La democratizzazione delle istituzioni ucraine è anche minata da una tendenza già iniziata nel 2014 e che, a seguito della recente controffensiva, si è naturalmente accentuata: cioè la caccia al traditore, intendendo in questo caso per traditore chiunque abbia ricevuto il passaporto russo o abbia in qualsiasi modo appoggiato e assecondato russi. In realtà nel caso della popolazione civile è molto difficile stabilire i criteri per determinare i confini del collaborazionismo.
Per facilitare queste delazioni-denunce sono state addirittura create applicazioni e piattaforme digitali come quelle elaborate dall’organizzazione ucraina “Chesno” (onestamente, in maniera onesta) che ha competenze nei settori del parlamentarismo e dell’amministrazione locale, dei finanziamenti politici e delle elezioni e mira a trasformare l’Ucraina “in una democrazia rappresentativa”. In questo articolo in lingua ucraina viene spiegato come denunciare “i traditori”(zradnyky) . Se si clicca in alto a destra si può accedere alla pagina dove con pochi click è possibile denunciare chiunque. In questa pagina sono anche presentante le liste dei traditori suddivise secondo i seguenti criteri: tutti (cioè la lista completa), nuovi, morti, politici, personalità dei media, organi giudiziari e forze dell’ordine.
I primi nomi sono naturalmente quelli di funzionari, politici, giornalisti, artisti e uomini d’affari russi mentre se si scorre avanti si arriva non solo ai nomi di ufficiali, amministratori e giornalisti ucraini, ma anche a quelli di civili (molti dei quali sono presentati come “propagandisti”). Queste iniziative seguono la falsariga tracciata dalla discussione iniziata poche settimane fa circa il progetto di legge che prevede la detenzione dai 5 ai 15 anni per chiunque abbia ricevuto il passaporto russo. Nella fattispecie: i funzionari pubblici ucraini (di qualsiasi livello) rischiano una pena dai 10 ai 15 anni, chi ha “propagandato” l’ottenimento della cittadinanza russa una pena che va dai 5 agli 8 anni e invece per chiunque abbia contribuito a “costringere” i cittadini ucraini ad ottenere il passaporto russo con la creazione di particolari leggi e condizioni giuridiche che avrebbero limitato quei cittadini ucraini che si sono rifiutati di ottenere la cittadinanza russa è prevista una pena detentiva che va dagli 8 ai 12 anni. È indicativo che chiunque abbia ricevuto il passaporto russo rischia una pena dai 5 ai 15 anni mentre chi avesse cercato di ostacolare e quindi obbligare i cittadini ucraini renitenti una pena dagli 8 ai 12 anni. Se il primo caso riguarda tutti senza distinzioni, quindi la popolazione civile in massa, al contrario il secondo è applicabile solo a funzionari, amministratori etc.
È normale che in tempi di guerra l’informazione dei paesi coinvolti sia di parte e non miri all’oggettività, servendosi anche di fatti, notizie, immagini, video e rumors non verificati e non verificabili. Ciò che preoccupa è invece l’atteggiamento fideistico della maggior parte dei media occidentali nei confronti di ogni notizia proveniente non solo dai media ucraini, ma anche dalle sue istituzioni (si pensi ai video diffusi dal ministero degli interni ucraino). Ciò è conseguenza dell’atteggiamento controverso degli Occidenti che in questo modo creano e alimentano un circolo vizioso che esclude e attacca ferocemente non solo le voci discordanti, ma anche gli approcci semplicemente non acritici.
Lo storico inglese Adam Tooze ha elaborato il concetto di “policrisi”: il sovrapporsi di più crisi quali guerra, energia, inflazione, clima e pandemia logora la tenuta dei vari sistemi politico-economici e li obbliga a fare i conti con l’assenza delle risorse indispensabili per fronteggiare i vari teatri di crisi. Questa analisi non ha solo il merito di descrivere la condizione attuale delle cose, ma anche di mostrare indirettamente le criticità della narrazione massmediatica occidentale.
Invece di optare per un’informazione pluralista costantemente attenta a questa sinergia di scenari il sistema massmediatico occidentale si occupa solo di un’emergenza alla volta. Se prima del 24 febbraio la pandemia (presentata come “guerra al virus”) era l’unico argomento trattato, adesso invece sembra che il covid non esista più e che l’unica emergenza esistente sia la guerra in Ucraina.
Dai tempi della pandemia è diventato normale considerare democrazia e, per dirla con il linguaggio economicistico tipico della nostra società, libera circolazione delle opinioni e delle idee il fatto che l’opinione condivisa dalla maggioranza della popolazione e dai vari “intellettuali” di riferimento “dialoghi” e “ascolti” le voci discordanti deridendole, non prendendole sul serio, criminalizzandole, non comprendendole e semplicemente rigettandole in quanto non coincidenti (anche solo dal punto di vista formale) con il mainstream. Dall’inizio della pandemia si usa molto l’espressione “voci alternative” in riferimento a chiunque dissenta anche minimamente dalle opinioni condivise dalla maggioranza. Questa definizione mostra bene l’approccio discriminatorio che si è consolidato con il Covid: qualsiasi opinione leggermente discordante diventa necessariamente una voce “alternativa”, aggettivo che qui non indica un’alternativa fra le tante, bensì posizioni eterodosse, cioè discordanti rispetto la narrazione generale. Questa precisazione è condizione necessaria per essere degni di essere ascoltati ma, naturalmente, non è condizione sufficiente per essere presi sul serio nel senso di un dialogo costruttivo inteso come dialettica fra posizioni diverse. Dai tempi del covid è diventato normale anche agitarsi convulsamente con movimenti sguaiati per esprimere il proprio disaccordo nelle maniere più scomposte così deridendo e delegittimando la credibilità dell’interlocutore che per questo non riesce a concludere mai il suo argomento: il confine del dialogo democratico ai giorni nostri consiste nell’evitare interruzioni dirette.
Tutto questo riguarda direttamente il conflitto ucraino. Questi meccanismi mediatici, fomentando un atteggiamento fideistico nei confronti di ogni notizia di fonte ucraina (dalle quali spesso prendono le distanze anche parte dei media occidentali), determinano nell’opinione pubblica reazioni estemporanee che quindi la portano a sostenere qualsiasi iniziativa scaturente appunto dallo scandalo suscitato. In questo modo è impossibile non solo parlare proficuamente di pace, ma anche abituare la società, che non essendo più capace di pensare la guerra non riesce nemmeno a pensare la pace, a un’idea non ipocrita di pace. Il tutto esaspera l’instabilità strategica dei principali paesi europei continentali che in merito alla crisi ucraina non hanno una strategia ben definita e agiscono sulla base di tattiche elaborate in maniera appunto estemporanea.
Tutti gli analisti occidentali (ma anche buona parte di quelli russi) sono d’accordo nell’affermare che la guerra d’informazione è stata vinta in partenza dall’Ucraina. In molti casi però si dimentica il perché. L’appoggio mediatico occidentale anche pre-24 febbraio è stata la condizione necessaria di questa vittoria mediatica. Non si parla qui delle posizioni politiche e geopolitiche che gli Occidenti hanno assunto nei confronti del conflitto ucraino, ma del fideismo mediatico della maggior parte dei media occidentali. Come al solito eventuali correzioni e confutazioni delle notizie prima agitate ai quattro venti arrivano solo alcuni giorni dopo e non finiscono mai in prima pagina: le reazioni politiche che sono seguite sono quindi irrevocabili.
E’ possibile porre in discussione un approccio mediatico maldisposto verso ogni tipo di critica che, riducendo la questione a bene e male e vero e falso crea un logica binaria semplicistica (e perciò molto pericolosa), esclude a priori ogni posizione mediana, ogni critica obiettiva di entrambe le parti, rendendo così impossibile sia in teoria sia in pratica ogni tipo negoziato fra le parti direttamente coinvolte (e non fra russi e americani dietro le quinte)? Si può dubitare di una narrazione che presenta falsamente ogni tipo di negoziato come il perseguimento di tutti gli obiettivi politici, geopolitici e militari di una sola delle parti coinvolte (ad di là di quale essa sia)?