È sorprendente pensare quante previsioni e prognosi degli ultimi anni, sulla realtà interna e internazionale, si siano rilevate molto più che errate, infondate. E questo è tanto più sorprendente se il dottore che le pronuncia, europeo od occidentale, vive costantemente in un avvenire prossimo, nella promessa eterna del Progresso. Non è pensabile che coloro che incarnano la Modernità, e di cui si fanno portatori, possano errare così tanto. Forse che il dottore non ha più il polso dello spirito del tempo? La domanda vera è semmai un’altra. La modernità, che è ridotta all’universalismo occidentale, può trovare mai riscontro, vitalità in un tempo preciso e localizzabile? No senza dubbio, altrimenti i disastri in Iraq, Siria, Afghanistan, Libia avrebbero imposto a tutti noi riflessioni molto più che serie, esistenziali. Eppure niente c’è stato, e oggi ci si ritrova ad ascoltare nel più completo sconforto le solite litanie sulle democrazie e gli autoritarismi di tutti quegli alfieri occidentalisti che non si stancano mai, da più di cento anni oramai, di ridurre la complessità del mondo a due categorie morali.
D’altronde li si può anche comprendere, se si ammette che la sostanza dello spirito occidentale coincide con una linea di valutazione morale globale che necessita per la sua stessa sopravvivenza di un “escluso”, di un’area di mondo attorno a cui chiudere un cordone sanitario di isolamento. E in ciò la democrazia e il diritto rappresentano i migliori presupposti per ogni conseguente azione: “Oggi la guerra più terribile può essere condotta solo in nome della pace, l’oppressione più terrificante solo in nome della libertà e la disumanità più abbietta solo in nome dell’umanità” scriveva Schmitt. Nessuna sorpresa allora a sentire l’Alto rappresentate dell’UE Borrell che parla dell’Europa come di un giardino, un paradiso terrestre, e di ipotetici giardinieri europei che devono avventurarsi nella giungla del mondo. Dopo, logicamente, una sana opera di tosatura o di moral bombing.
Lo spirito occidentale, basandosi su principi universali, non vive in un tempo e in uno spazio, non potendo così fare altro che replicare sé stesso all’infinito e al di sopra di qualsiasi contingenza storica. La linea che separa la libertà, la Modernità dal dispotismo dunque impone per forza di cose o un interventismo esasperato o, dall’altra parte, l’autoisolamento. Intervento e isolamento sono invero i due poli, le due stesse possibilità concrete entro cui gli Stati Uniti si muovono fin dalla nascita (nelle parole di Philip Jessup, giurista amercano di diritto internazionale (1940): “Le dimensioni mutano oggi velocemente, e all’interesse che nel 1860 avevamo per Cuba corrisponde ora l’interesse per le Hawaii; forse l’argomento per l’autodifesa porterà un giorno gli Stati Uniti a combattere sullo Yang-tze, sul Volga e sul Congo”, e dunque anche noi oggi.
Di fronte dunque all’evento secolare di un risveglio della forza tellurica dell’Asia l’Occidente può continuare a soprassedere, illudendosi che basti il cambio di un vertice politico e militare per riaccompagnare il mondo alla norma. Dimenticandosi che la guerra è sempre uno scontro tra due spiriti, due volontà. L’universalismo occidentale non ammette niente di tutto questo, esso ha davanti a se, e dunque dentro di se, solo il nulla e la morte. Un nulla su cui fare state building e applicare misure economiche etero-dirette. Un nulla che è speculare alla superficie piatta per eccellenza, il Mare, il Leviatano.
È sempre in questo nulla che l’aprile scorso Monsier le President Emmanuel Macron volava in Cina, esprimendo la sua preoccupazione su un conflitto a Taiwan tra Cina e Stati Uniti che trascinerebbe con sé l’Europa (indicativo che qualche tempo dopo proprio la Francia si sia opposta all’apertura di un ufficio di collegamento della Nato in Giappone). Preoccupazioni sterili, (a cui sono seguite ancora più sterili polemiche) giacché nel nulla, o nella globalità del mondo che dir si voglia, non esiste alcuna differenziazione spaziale che possa giustificare un trattamento diverso tra Ucraina e Taiwan. Sia l’una che l’altra rispondono ad interessi particolari che si rifanno sempre a principi universali. E certo però non si può dire che agli occhi americani i due scenari abbiano lo stesso peso: Taiwan è pienamente integrata nella sfera del Mare. Pregiudicarne l’indipendenza vorrebbe dire intaccare la stessa base della potenza americana, la sua proiezione globale.
A prescindere da qualsiasi risultato futuro, che può invero essere molto più futuro di quello che sembra, appare chiaro come solo dal Mare possa infrangersi quella “unità del mondo” che garantisce il diritto internazionale e in cui ha preso piede il secolo americano, che si potrebbe far risalire sia ai dodici punti di Wilson, sia al patto Briand-Kellog che alla dottrina Stimson, o addirittura alla dichiarazione di Panama del 1939. Solo a Taiwan si può infrangere quella visione, quella linea globale che da Jefferson in poi si è sviluppata prima in America e poi nel mondo intero. In questo senso può diventare complicato, vaticinando le interiora del futuro, parlare di bipolarismo sino-americano. Al bipolarismo, come qualsiasi altra forma di polarità, è intrinseco un certo concetto di equilibrio politico e strategico e una comune ridefinizione di status quo, ovvero una nuova suddivisione dello spazio. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica ci arrivarono dopo una guerra mondiale, ridefinendo gli assetti dell’Europa e sancedoli sotto l’egida dell’Onu di cui tutt’e due, è bene ricordarlo, condividevano formalmente i princìpi. L’Onu è una creatura tanto statunitense quanto sovietica, il punto di incontro dei due diversi universalismi.
La suddivisione dello spazio è il vero motore storico di qualsiasi bipolarismo o multipolarismo, senonché il sistema odierno nel suo universalismo è profondamente ostile a qualsiasi tipo di suddivisione e presa di possesso (Schmitt affermava persino che l’ostilità nei confronti del colonialismo fosse un’opposizione alla presa di possesso, al Nomos). Da una parte è pur vero, come profetizzava già Carlo Galli nel lontano 2009, che si assiste da parte occidentale ad una territorializzazione progressiva che è l’effetto superficiale di una razionalizzazione imperiale americana. L’Europa rientra in pieno in questa opera di razionalizzazione. Si può dire in effetti che, nello scontro con la Russia, la Nato (e l’esercito americano) abbiano ripreso pieno “possesso” dello spazio europeo.
Dall’altra parte però la razionalizzazione è opera puramente terrestre, e possibile solamente sulla Terra in quanto superficie “striata”, misurabile e presidiabile. Dal lato marittimo non può esserci alcuna razionalizzazione, e certo in questa chiave si può leggere il disimpegno terrestre dal Medio Oriente causato dal riorientamento degli interessi americani nel Pacifico.
Il dominio del mare, non potendo essere mai pienamente ottenuto (spazialmente e temporalmente) per sua natura, necessita nello scenario globale e locale di una continua riaffermazione (nell’Inghilterra dell’Ottocento si raccontava che ci si accorgeva del dominio inglese sull’Oceano Indiano proprio perché non si vedeva alcuna nave inglese, l’opposto dell’odierna situazione nello Stretto di Taiwan). La realtà marittima però, per una grande potenza marina o per una che aspira ad esserlo, non può essere considerata se non nella sua globalità, nel suo intreccio di rotte e choke points, che rappresenta d’altronde la dimensione globale propria del commercio. L’unità di questa visione deve essere per forza di cose universale. O il dominio è pensato ed esercitato globalmente oppure, mancando completamente anche in un solo punto (che nel caso del Mar Cinese Meridionale assume un’importanza notevole), esso viene meno del tutto, e nel suo stesso significato. Le guerre tra due potenze marittime sono guerre naturalmente portate alla totalità.
Taiwan, e la catena di isole circostanti, incarnano in questo senso un problema del tutto differente per un ipotetico bipolarismo sino-americano perchè esso, per essere tale, non può non sconfinare nel Mare. E questo anche se l’Isola assume un significato del tutto diverso, tellurico o marittimo, a seconda degli attori che la bramano o difendono. Differentemente dal bipolarismo sovietico-americano della Guerra Fredda infatti a Taiwan l’oggetto della contesa è la stessa definizione di status quo. Dal punto di vista americano è simbolo di un ordine marittimo universale che dura dalla seconda guerra mondiale, dal punto di vista cinese l’Isola ne rappresenta uno tellurico particolare: il superamento del secolo delle umiliazioni e la riunificazione del Celeste Impero. Non esiste alla base un comune universalismo, come esisteva per l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti nonostante l’opposizione terra-mare ravvedibile in superficie. L’economia si è ritirata infatti lentamente come comune fulcro ideologico dell’arena della politica internazionale per diventare simbiotica alle peculiari politiche di potenza e sopravvivenza. E anzi la forma di Stato cinese sembra tracciare un timido universalismo della stessa.
Nonostante questo la Cina non dispone di una narrazione universalistica capace di spingerla alle latitudini bipolari, non dispone di quel retroterra religioso, antropologico e filosofico che invece è proprio della tradizione europeo-occidentale. La Cina è un Behemoth pienamente politico, che pensa in termini politici, dunque esistenziali. E ciò la pone su un piano diverso rispetto agli Stati Uniti, che tendono pur sempre ad ancorare, e mascherare, i propri interessi particolari con principi universali. Principi però che nel caso di Taiwan non possono trovare facile appiglio, se non fosse che lo status dell’isola è del tutto peculiare e anomalo anche per gli standard del diritto internazionale. Essa infatti non è considerata, perlomeno formalmente (che è l’unica dimensione che conta nel diritto internazionale), come uno Stato sovrano. Nel caso d’eccezione è quindi prevedibile sfumino le categorie classiche di aggressore e aggredito, il principio di integrità e inviolabilità, non più rintracciabili chiaramente nella norma e ciò per la stessa natura equivoca del diritto internazionale, assoluto e bloccato ad uno status quo, ad una suddivisione dello spazio ormai superata da ogni parte, le cui contraddizioni si incarnano concretamente nell’Isola. E sopratutto dalla sua malcelata ostilità verso il politico (e dunque verso lo Stato), quale motore storico creativo-distruttivo, quale soggettività che chiama ad una alterità, il nemico, per definirsi. Il problema di Taiwan è un problema innanzitutto politico, come lo è d’altronde ogni guerra, che il diritto non può risolvere perchè esso agisce in termini meramente etico-economici, perchè non distingue tra guerra e pace, tra amico e nemico, rifiutando di sporcarsi le mani con la realtà storica, con il suo nucleo violento (e politico) che permane in ogni suddivisione spaziale.
Si può affermare che a Taiwan imploderà del tutto il normativismo astratto e universale del diritto internazionale (se non già imploso nel frattempo), messo di fronte al problema concreto dello spazio che non può che sollevare una potenza politica come la Cina, e con esso tutte le sue categorie morali. Un quesito interessante sarebbe invece quello attorno alle categorie economiche, che traggono la propria forza reale dal pensiero (e dal potere) globale marittimo che è proprio dell’America. Quanto l’economia nel pensiero americano possa pensarsi svincolata da una dimensione morale, seppur fittizia. Entrando nello specifico quanto possa ad esempio, nella situazione concreta dello Stretto, ovvero di prevedibile confusione tra concetti morali e di diritto (situazione già di per sé inedita e sconvolgente per il diritto internazionale stesso), contare ancora il principio della libertà di navigazione (o di altre libertà “marine”). E quindi la riconduzione della guerra ad un livello di interesse universale.
Ciò potrebbe portare ad un grave colpo per l’universalismo a stelle e strisce perché verrebbe meno il suo fondamento ideale e filosofico, la sua premessa antropologica positiva, la sua legittimità, oltre al fatto che si svelerebbero senza più artifici i suoi interessi particolari (e politici). Gli effetti potrebbero essere dei più profondi: il precipitare interno dell’illusione pre-statale sulle libertà, l’auto-riconoscimento (che avviene sempre riconoscendo una altro da sè) come parte parziale di un tutto, e quindi il disvelamento dell’essenza politica negativa in un percorso storico inverso rispetto a quello degli Stati europei. In ogni caso è sul Mare e solo sul Mare, e in particolare nei mari adiacenti l’Isola Profumata, che gli Stati Uniti devono realmente temere la fine della stagione dell’universalismo, e l’alba di una nuova fase della loro vita e del mondo.