OGGETTO: Arashi: Tifone '44
DATA: 04 Agosto 2020
SEZIONE: inEvidenza
Mancanza di petrolio e arretratezza tecnologica: il 1944 sarà l’anno in cui i sogni di vittoria giapponesi verranno spazzati via dalla potenza di fuoco yankee.
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Il 1943 corre verso la sua fine. Annus horribilis per il Sol Levante. Ma al peggio non c’è limite, i successivi ’44 e ’45 saranno ancora più terribili, fino all’epilogo apocalittico del mostruoso doppio fungo atomico che acceca brucia dilania. Ma Tokyo ha il paraocchi: non vuol vedere i chiari segni che il futuro sta mostrando al popolo del Mikado. Il gabinetto Tōjō si è accanito nell’ambizione che adesso è quasi solo più fantasia, un sogno di potenza, una masturbazione politico-militare di dominio asiatico. Illusione: credono ancora nel grandioso progetto di Sfera di co-prosperità comune della Grande Asia Orientale a guida nipponica. 

Il 5 e il 6 novembre 1943 va in scena la fervida immaginazione di Tokyo, con la Conferenza della Grande Asia Orientale, presieduta dal padrone di casa, il generale Hideki Tōjō. Più che un convegno dagli scopi pragmatici e realizzabili, la riunione appare come una roboante prova di propaganda. Quasi come se il Giappone volesse dire al mondo: guardate bene che noi siamo convinti della vittoria e che i giochi sono ormai fatti. Ma è una menzogna organizzata su un pomposo palcoscenico; una bugia raccontata a se stessi, e a cui diversi elementi dell’élite imperiale non credono, e tantomeno ci credono gli Alleati. 

Partecipanti alla conferenza di Tokyo: 

1) Il primo ministro del Manciukuò del sovrano fantoccio Kang De alias Pu Yi, il celebre ultimo imperatore cinese della dinastia Manciù-Qing.

 2) Il presidente collaborazionista della Repubblica di Cina o di Nanchino, assieme ai rappresentanti del Mengjiang (regione pressappoco identificabile con l’odierna Mongolia Interna cinese) retto per volere di Hirohito dall’erede di Gengis Khan, il principe Demchugdongrub. 

3) Il capo dello Stato di Birmania. 

4) Il presidente della nuova Repubblica delle Filippine. 

5) Il plenipotenziario del regno del Siam. 

Special Guest: Subhas Chandra Bose, indipendentista indiano che condivide con il Mahatma Gandhi il sogno di un’India libera dai britannici ma da raggiungere con altri metodi rispetto all’altro leader, alleanza con l’Asse a fini strategici inclusa. Bose, a seguito di colloqui con Hitler e Himmler, organizza i disertori indiani e i prigionieri di guerra nell’Indische Legion, poi nel ’44 inquadrata nelle Waffen-SS: un pugno di migliaia di uomini, con i turbanti in testa e con il distintivo sulla manica della divisa Afrikakorps di una tigre rampante tra le parole Azad Hind – India Libera. Però al di là del contributo europeo poco incisivo dei legionari nazionalisti sikh e hindu, è al Giappone che Bose guarda come la migliore (ed unica) possibilità nel liberare la sua India dal colonialismo inglese. Beh, certamente: l’esercito del Mikado è presente in forze sulla frontiera indo-birmana, e se la liberazione avverrà, essa sarà raggiunta grazie al Sol Levante e non al Terzo Reich, ormai sprofondato nel gelido pantano russo. Unione di intenti e di supremi obiettivi: il nemico del mio nemico è mio amico. 

Conferenza della Grande Asia orientale, novembre 1943

Questo scorcio sulla Conferenza della Grande Asia Orientale permette degli spunti d’indagine interessanti quasi ucronici. Se il Giappone avesse vinto la guerra (ma a fine ’43 non è più possibile) quegli intenti e quelle idee, rimaste sulla carta e nei proclami di Radio Tokyo, avrebbero avuto una qualche forma concreta nella Storia moderna dei popoli asiatici. E difatti alcuni dei punti mostrano a grandi linee un progetto comunitario a guida giapponese che è persino ammirabile, perlomeno nelle sue intenzioni e non nella sua (mancata) realizzazione. 

Punti: 

● Essenza spirituale in contrapposizione al materialismo occidentale. 

● Sviluppo economico della Sfera coinvolgendo tutti i suoi popoli. 

● Solidarietà tra i popoli asiatici, rispettando le rispettive sovranità. 

● Condanna del colonialismo europeo e americano: Asia agli asiatici. 

● Coscienza della superiorità dei popoli asiatici in contrapposizione al tradizionale razzismo anglosassone. 

● Rispetto per le tradizioni, per le culture, per le differenti razze del grande affresco dei popoli d’Asia. 

D’accordo, visto così, estrapolato dagli eventi tragici bellici che infuriano, il progetto appare lodevole, uno sforzo per portare l’Asia e i suoi popoli verso un destino diverso, indipendente e sovrano. Ma nella realtà le cose vanno ben diversamente. Come a voler nascondere il sentito disprezzo giapponese per i cinesi, ora Tōjō cerca disperatamente di accattivarsi simpatie nel vasto paese occupato, dare insomma una giustificazione alle invasioni degli anni passati, a dimenticare per sempre il sadico stupro commesso a Nanchino (1937-’38) e a celare le attività horror delle varie Unità chimiche e biologiche dell’esercito imperiale giapponese impegnate in esperimenti con cavie umane, specialmente in Manciuria (Unità 731).

Insomma, lo scontro con l’America sta dissanguando l’Impero, occorrono alleati, braccia, carne da cannone. Inoltre, nei paesi occupati, se pur ci sia una formale indipendenza (Manciukuò, Birmania, Filippine), la vera autorità è dettata dalla baionette nipponiche. Senza di esse i governi collaborazionisti crollerebbero da un giorno all’altro. E se nei trattati stipulati nel palazzo imperiale si sottolineano solidarietà e amicizia, poi questi sentimenti vengono traditi sul campo, perché spesso gli occupanti si comportano esattamente come i loro predecessori bianchi con le popolazioni locali, cioè da padroni razzisti. Le esigenze della guerra necessitano di tutte le materie prime disponibili sul terreno e di lavoro a bassissimo costo (se non proprio schiavitù) e quindi del misfatto di “sfruttamento coloniale”, di cui alla conferenza di Tokyo si accusano europei ed americani, adesso sono i giapponesi a macchiarsene. Quelli nipponici sono sentimenti ambigui a cui segue ipocrisia nei fatti, e nei territori sotto l’influenza di Tokyo l’ostilità nei confronti dei giapponesi è diffusa e crescente. D’altronde à la guerre comme à la guerre e ricordiamoci che stiamo studiando gli anni più violenti non solo del Novecento ma di tutta la Storia dell’uomo e la contestualizzazione di fatti e cose non è solo un diritto di chi approfondisce di Storia ma un dovere. 

Massima espansione dell’impero giapponese

Dunque torniamo à la guerre. Fine ’43, Douglas MacArthur, l’egocentrico generale in occhiali da sole Aviator che fuma la strana pipa di pannocchia, ha come obiettivo principale la Nuova Guinea, e sa che la conquista della Nuova Britannia è una condizione preliminare per attuare il suo piano. A Guadalcanal avevamo già raccontato di giungla asfissiante e inferno verde, e nella zona di Capo Gloucester queste condizioni ambientali si ripropongono ai marines ma all’ennesima potenza. È come se la natura fosse in putrefazione. Una cloaca melmosa di decomposizione vegetale resa costantemente fradicia dagli acquazzoni. Le paludi puzzolenti marcio inghiottono mezzi e talvolta anche uomini. Tutto quello che i soldati toccano è appiccicoso e putrido. Userò un’espressione forse eccessiva ma è quello che apprendo dalle pagine degli storici: in Nuova Britannia si cammina in una gigantesca distesa di merda molle. E oltre a quella natura esagerata e ostile ci sono i 10.000 soldati del Mikado agli ordini del generale di divisione Iwao Matsuda a tenere testa ai marines, ma che come altri prima di lui, compie il grave errore di sottovalutarli e non sceglie un attacco in massa quando esso poteva essere realizzato con facilità. Architetta invece una trappola (ingegnare trappole è evidentemente un’attività alquanto gradita tra gli ufficiali imperiali di esercito e marina). Lascia che i nemici giungano tranquilli senza incontrare resistenza all’aeroporto di Capo Gloucester. I marines si grattano la testa scoprendo tutti i fortini abbandonati precipitosamente dai giapponesi: fuggire così non è da loro. Infatti, nell’oscurità della notte, i fanti nipponici che si erano nascosti zitti nella giungla, ritornano quatti quatti a rioccupare i bunker e alla mattina sparano all’impazzata contro gli americani che li hanno superati. Astuti certo, ma non è abbastanza per vincere la battaglia perché dopo ventiquattrore di combattimenti la bandiera a stella e strisce sventola sulla pista di Capo Gloucester. 

La battaglia di Capo Gloucester

Target Hill, Quota 660, Suicide Creek: oscuri luoghi di paludi, cavità, depressioni intricate che nel mese di gennaio 1944 diventano battaglie sanguinose dove il nemico viene avvistato appena ad una manciata di metri di distanza dalle proprie posizioni perché la fittissima vegetazione nasconde tutto, anche le insidie mortali. I giapponesi hanno la peggio. Le forze di Matsuda sono costrette a ripiegare. Anche qua in terra, come già sta succedendo da mesi in aria, la tecnologia delle armi gioca un ruolo importantissimo nella sfida. Già abbiamo parlato dei nuovi aerei americani che ormai surclassano in prestazione i famosi Mitsubishi Zero, mentre anche nelle battaglie terrestri le armi leggere della fanteria USA sono migliori. Un fucile su tutti: L’M1 dell’ingegnere John Garand, un solido metallo-legno semiautomatico in grado di sputare 8 colpi in rapida successione. Pensiamo a due squadre di fanti nemici, ognuna composta da dieci tiratori medi, l’una di fronte all’altro con i fucili puntati. I giapponesi imbracciano il Type 99 della serie Arisaka, con azionamento a percussione e caricatore da cinque colpi, gli yankee hanno il dito sui grilletti dei loro Garand. Rabbioso scambio di fucileria tra le parti: mentre il soldato giapponese sta ricaricando per sparare il terzo colpo, il soldato americano ha già vuotato il suo fucile contro il nemico. Risultato: la squadra giapponese è falcidiata. È anche da questi dettagli di tecnologia bellica che viene stabilita una vittoria in una guerra mondiale. 

Gli Alleati continuano a premere sul perimetro difensivo nemico nel Pacifico, che arretra. Elementi chiave delle offensive sono i numerosi aeroporti conquistati o costruiti che fungono da basi avanzate per il predominio dei mari e dei cieli. Ne fa le spese la grande base navale di Rabaul, praticamente assediata. Da gennaio ’44 nessuna nave di rifornimento arriva più fino a lì. Giorno e notte la base viene attaccata dagli aerei, in una perenne staffetta di bombardamenti al porto e alle infrastrutture. Nelle lunghe settimane di lotta nei cieli di Rabaul i giapponesi perdono quasi 900 apparecchi, uno sterminio di aerei. La posizione diviene indifendibile. 

L’ammiraglio Nimitz lancia la grande offensiva all’arcipelago delle Marshall, di dominio giapponese dal Trattato di Versailles del 1919. Sono 36 atolli di 2000 tra isole e isolotti sulla via di Tokyo. Un grosso boccone. Tarawa è stata maestra e da quella sanguinosa battaglia gli americani imparano molto. Ora qualsiasi operazione simile sulle isole pacifiche viene ingigantita in termini di uomini, mezzi e bombe. Se a Tarawa era stato scatenato un diluvio di fuoco aeronavale, alle Marshall il diluvio diventa vera apocalisse. Dimezzare i rischi: con la crescente disponibilità di truppe e mezzi gli americani se lo possono permettere. Linee guida: moltiplicare per cinque in volume di potenza i già pesantissimi bombardamenti a Tarawa. Per cambiare la faccia della Terra. Bombardamenti “a cortina”: le bombe cadono a linee parallele e progressive, avanzando come una cortina di pioggia da fine del Mondo. Sconquassare l’oceano, scassare la terra, polverizzare uomini. Stordire, e poi finire affondando il coltello nel petto del moribondo. Arashi sulle Marshall. 

Isole di Roi, Namur e e Kwajalien. 7-8.000 giapponesi contro 40.000 soldati e marines americani. Già così il divario è impressionante. Il primo febbraio la potenza di fuoco USA supera per violenza la feroce preparazione di artiglieria navale dei giorni precedenti. Piombo a tonnellate. Tra i difensori chi sopravvive impazzisce per il cataclisma di esplosioni. Suicidi collettivi in onore della madrepatria, dell’Imperatore, del proprio onore. I pochi giapponesi lucidi e ancora in piedi tentano una resistenza psicopatica. A Namur la lotta è dura. Durante i combattimenti, all’improvviso, scoppia l’isola. Proprio così: scoppia l’isola di Namur. Succede che un fortino, che è anche un deposito di siluri per sommergibili, salta in aria in un boato terrificante che alza un fungo di polvere fino alle nuvole. Come se Namur devastata volesse fuggire dal mondo degli uomini sprofondando negli abissi dell’oceano. Incredibile cosa l’uomo novecentesco in guerra riesca a fare sulla e alla propria Terra. A Namur, i marines sotto choc e sordi dal frastuono guardano un nuovo lago artificiale spuntato dal nulla, laddove c’era il deposito dei siluri. Dopo la presa dell’atollo, Nimitz scatena la sua micidiale Task Force 58 contro l’atollo di Truk situato al centro delle isole Caroline. È un fondamentale bastione giapponese, la più importante base oltremare del Sol Levante difesa da una vasta costellazione di fortificazioni agli ordini del viceammiraglio Hitoshi Kobayashi. 

Veduta aerea di Namur durante i bombardamenti. In lontananza si scorgono le navi americane pronte allo sbarco

La mattina del 17 febbraio 1944 si consuma sopra Truk una delle più grandi battaglie aeree dell’intero conflitto. Caccia Zero conto caccia Hellcat. Mentre in cielo impazza la mischia furibonda in caotico baccano di esplosioni e mitragliate, le squadre aeree americane di bombardieri e siluranti raggiungono Truk martellando senza pietà le navi, le piste, le strutture del nemico. Ne fanno poltiglia di lamiere fumanti. Truk roccaforte vitale nel Pacifico centrale è devastata. La superiorità aerea degli Stati Uniti è diventata schiacciante. Per gli americani il colpaccio di Truk è galvanizzante. Sono in corsa, all’assalto continuo. È il momento di sfruttare lo slancio. Nimitz concentra l’attenzione sull’atollo di Einwetok, isole strategiche a metà strada tra le Caroline e le Marshall. In particolare, viene preso di mira l’isolotto di Engebi. I giapponesi se lo aspettano. Il generale Yoshima Nishida, senza farsi nessuna illusione, invia uno straziante messaggio agli uomini della guarnigione per esortarli al dovere supremo. I soldati sanno che stanno per morire, non hanno dubbi in proposito. Accettano il destino con una rassegnazione coraggiosa e commovente allo stesso tempo. Morire combattendo, questa è la cupa volontà degli uomini di Engebi sotto al comando del colonnello Toshio Yano

Le bocche da fuoco americane, seguendo un modello ben collaudato, iniziano la distruzione sistematica e metodica di Engebi; metro dopo metro tutto è arato. Dopo, avviene il consueto sbarco di marines in gran numero contro cui i pochi difensori rimasti in vita possono fare ben poco. I giapponesi, che oramai soffrono di una cronica scarsità di mezzi rispetto ai ben equipaggiati avversari, ricorrono alla “guerra povera”, alle astuzie da guerriglieri che si adattano a combattere con quello che dispongono. A Engebi ad esempio, costruiscono una vasta rete di lunghe gallerie rudimentali, utilizzando fusti di benzina accostati gli uni agli altri. Si fanno talpe killer. Appena capiscono che non possono più difendere una postazione, s’infilano là sotto e poi sbucano qualche dozzina di metri lontano, per colpire il nemico con brutte sorprese. In questo nascondino mortale, i giapponesi anticipano agli americani le tecniche vietcong che andranno a conoscere loro malgrado vent’anni dopo. Ma le Marshall non sono il Vietnam, e nonostante gli americani soffrano perdite cadendo nelle trappole nemiche, hanno comunque la meglio. Rastrellano palmo a palmo il terreno, sopra e sotto, con il fuoco dei lanciafiamme e il piombo dei mitra “Tommy gun” Thompson che spara raffiche devastanti cal.45 e infatti uno dei suo nomignoli è Trench Sweeper, “la scopa della trincea”. 

Sull’atollo di Einwetok, la guarnigione imperiale viene completamente sterminata. Le Marshall sono in pugno di Nimitz. 

Cinegiornale americano sull’avanzata nell’atollo di Einwetok

A Tokyo scoppia la crisi. Marshall andate, Truk è una rovina fumante. Ora il perimetro difensivo è arretrato fino alla Marianne, le Filippine sono ad un tiro di schioppo. Gli americani hanno costruito un super bombardiere, il Boeing B-29 Superfortress, un drago terribile che presto sputerà fuoco sulle loro teste partendo dalle tane cinesi. Il Gran Quartiere Generale Imperiale Dai Honei è diviso in fazioni che litigano tra loro, odiandosi. La tempesta Arashi investe le alte sfere samurai. Il comando supremo per le operazioni di guerra ne risente in capacità decisionale. Discussioni, accuse, dita puntate. Il sangue freddo s’è fatto ansia pura. Aria di complotto a palazzo, di strategie dietro le tende: le cose vanno malissimo. Al lungo tavolo di guerra da un lato ci sono i generali di Tōjō, i suoi “manciuriani”, dall’altro gli alti ufficiali di marina che accusano il governo di non impegnarsi a sufficienza per rimediare alla grave falla del Pacifico e di trascurare il grande pericolo americano, incombente. L’ostinato Tōjō e i fedeli “manciuriani” risolvono la disputa con una purga interna per destituire i dissidenti ammiragli Takagi e Osami Nagano e il maresciallo Hajime Sugiyama, accusati di disfattismo e incapacità. 

Ma a questo punto della cronaca, è bene porsi una domanda: ma la gloriosa e possente flotta imperiale in che situazione si trova? Ce lo si chiede perché è da parecchi mesi che non c’è stato nessun scontro navale importante. Ce lo chiede perché, seppur provata da ripetute e brucianti sconfitte, la flotta non è di certo annientata e dispone ancora di un potenziale assolutamente temibile e rinforzato da nuovi vari. La risposta è davvero semplice: le navi dell’Imperatore hanno il serbatoio a secco. Incredibile, non possono uscire dai porti. Manca la nafta. Senza essa non ci si può muovere né combattere. Petrolio: oro nero puzzolente, chi ce l’ha vince. Voilà, ecco ritornare l’elemento essenziale della seconda guerra mondiale, conflitto quanto mai di movimento, sia nelle campagne europee sia nelle operazioni navali nell’Estremo Oriente. Proprio nel primo capitolo di Arashi, avevamo sottolineato l’estrema importanza del petrolio negli eventi scatenanti Pearl Harbour, e adesso, dopo due anni di battaglie all’ultimo sangue e all’ultima goccia di benzina, ritorniamo sulla questione.

Chester Nimitz

Il Giappone, nei suoi immani sforzi di conquista, ha mosso eserciti, aerei e navi lungo distanze siderali consumando una quantità immensa di combustibile, il cui livello delle riserve è giunto presto al fondo del barile. Ma allora, tutto quell’impegno all’inizio del conflitto nel conquistare i pozzi indonesiani e malesi a cosa è servito? Sì, vero, ricchi giacimenti sono da tempo in mano al Sol Levante, e appena conquistati, i giapponesi hanno organizzato una fitta rete di rotte per le petroliere come spola continua per i rifornimenti ad un impero assetatissimo. Nei primi mesi del ’42 tutto era andato liscio: industrie e navi facevano il pieno regolarmente, poi, l’evoluzione degli eventi e l’ingigantirsi delle operazioni avevano richiesto volumi di carburante sempre maggiori. La necessità di nafta è cresciuta esponenzialmente. Sete di petrolio, implacabile. E a peggiorare – e di molto – la cronica penuria di greggio del Giappone in armi ci si mette la US Navy con i suoi tanti sommergibili: l’arma silenziosa. Gli americani prendono ispirazione dall’efficiente forza sottomarina tedesca dell’ammiraglio Karl Dönitz che infesta l’Atlantico. La marina yankee capisce subito che l’arma silenziosa nel teatro pacifico può fare la differenza. E così è. I sottomarini americani diventano presto un incubo per le rotte commerciali nipponiche e in particolar modo prendono di mira le petroliere. La pompa di benzina dell’Impero è irrimediabilmente sabotata. Questa è una delle cause della sconfitta del Giappone nella seconda guerra mondiale. 

Il 1944 sarà l’anno in cui i sogni di vittoria giapponesi si infrangeranno su tutti i fronti. Nella prossima puntata di Arashi si racconterà infatti di Birmania, di Nuova Guinea, di Marianne, di Palau, di Guam, della sfida per le Filippine e della spaventosa carneficina di Saipan. 1944, l’anno del tifone. 

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