Il 2025 si apre inevitabilmente con una serie di interrogativi sul futuro delle guerre che interessano l’Europa in prima persona. Nell’incertezza (di tutti) e nella speranza (di molti, non tra i governanti) che si riesca a spegnere questa incendiaria ondata di ostilità bisogna guardare al futuro.
Se nell’ambito della cornice mediorientale le polveri sembrano sempre sul punto di esplodere, con flebili margini di speranza su una tregua duratura per i martoriati gazawi, sul fronte dell’Europa orientale si oscilla inesorabilmente tra il pericolo di un conflitto a viso aperto con la Russia di Putin e l’insistenza di un hard power economico che punta a minare le fondamenta dell’apparato produttivo russo e infliggere allo Zar una sconfitta su più fronti.
Dal 25 febbraio 2022 si sente parlare di una Russia sull’orlo del baratro, che le sanzioni comminate dai Paesi occidentali agli apparati di Mosca avrebbero messo in ginocchio la macchina bellica che semina distruzione lungo il confine ucraino, in Donbass e sulle coste del Mar Nero. Tiritera che a quasi tre anni di distanza ci fa ancora domandare se e quando questa politica porterà i suoi frutti.
Scolasticamente parlando, l’intento delle sanzioni europee sarebbe stato quello di colpire il mercato delle materie prime energetiche, principale settore economico russo, andando ad agire sulla rimodulazione del mix di forniture di (in particolare) gas naturale, riducendo l’import attraverso i gasdotti che da oltre sessant’anni collegano la Russia e l’Europa centro-orientale, puntando maggiormente su altri fornitori (Norvegia, Algeria e GNL Usa in primis). Il risultato è che dal marzo 2022 (mese in cui i ricavi da esportazione hanno raggiunto il picco di 1,2 miliardi di euro al giorno) a fine dicembre 2024, gli introiti derivanti dall’export di combustibili fossili si sono praticamente dimezzati, e c’è da credere che con l’interruzione dell’accordo di transito attraverso l’Ucraina questi ricavi potrebbero ulteriormente diminuire.
Qual è dunque lo stato di salute dell’economia russa al varco del traguardo del terzo anno di conflitto? La risposta potrebbe essere stata finora deludente per chi attende da mesi il tracollo di Mosca, con un’economia che, riassorbito il contraccolpo dell’interruzione delle importazioni di combustibili fossili (ad eccezione, appunto, del gas fino al 31 dicembre scorso), ha una crescita invidiabile, con un +3,6% nel 2023. Il fattore determinante di questa crescita è rappresentato dalla conversione dell’apparato industriale in un sistema votato all’economia bellica, favorendo le industrie della difesa e dell’acciaio, raggiungendo livelli di massima occupazione e notevole aumento della domanda interna di beni, incentivata da un aumento della domanda di lavoro delle aziende, e dunque da un rinnovato potere d’acquisto della popolazione. La maggior parte dei think tank internazionali di analisi politico-economica ha emesso da tempo sentenze di fallimento della “Putinomics”, decretando il collasso dell’economia russa e la sua incapacità nel breve periodo (già da quest’anno) di foraggiare finanziariamente la campagna militare nel Donbass e nel resto dell’Ucraina orientale.
I tasselli presagio di un inesorabile declino sarebbero tutti al loro posto, effettivamente, nell’ottica di considerare questa crescita economica una “crescita senza sviluppo”, drogata dalla forte iniezione di risorse nel sistema produttivo che ruota attorno al conflitto. I dati ufficializzati da RosStat, tuttavia, parlano di incrementi nella crescita dell’incidenza sul PIL di attività economiche non collegate direttamente alla guerra, come il comparto turistico, le costruzioni, i servizi finanziari ed assicurativi, il settore ICT e il commercio all’ingrosso e al dettaglio, cartina al tornasole di un incremento della spesa privata e dei consumi. Parte di questo incremento è dovuto alla riduzione consistente del tasso di disoccupazione, accompagnato da una scarsità di manodopera che ha causato a cascata aumento dei salari nominali, inflazione (attualmente al 9%) e conseguentemente un assottigliamento della redditività delle imprese. Dall’altro lato si osserva la spesa pubblica e le manovre di politica monetaria che hanno causato un incremento dei tassi di interesse (fino al 21%)da parte della Banca Centrale, la cui governatrice, Elvira Nabiullina, sembrerebbe l’unica in grado di gestire le pressioni di Vladimir Putin sugli obiettivi di politica economica. Attualmente, però, la Banca Centrale Russa sta guardando con interesse alla possibilità di emettere nuovi strumenti obbligazionari che mirano alla raccolta del risparmio privato, che necessariamente produrrà un incremento del debito pubblico. Tuttavia, secondo un report pubblicato recentemente da CASE (Centre for Analysis and Strategies in Europe), think tank europeo fondato da Dmitrii Gudkov, ex deputato della Duma russa, dal 2011 al 2016, in quota ai socialdemocratici di Spravedlivaya Rossiya (Russia giusta – per la verità, partito dell’opposizione sistemica a Putin), l’economia russa non darebbe tangibili segnali di una crisi profonda nell’arco dei prossimi tre-cinque anni. Tale dimensione, ovviamente, non considera potenziali fattori di shock sulla situazione sociopolitica attuale e le possibilità che tale conflitto degeneri ulteriormente.
Sorgono quindi una serie di interrogativi provocatori dettati da un bias comunicativo sul confronto tra la politica economica e industriale europea e quella russa. Da mesi si sente sollecitare la necessità di incrementare la spesa militare europea, generando i paradigmi di quella che erroneamente viene definita un’economia di guerra, che nella manualistica si tradurrebbe con una più “elementare” corsa agli armamenti. Siamo abituati da decenni, soprattutto in Italia, a misurarci con coperte cortissime, che tagliano la spesa in alcuni settori per aumentarle in altri. Se dunque in Europa si procede a tagliare sanità ed istruzione a favore della spesa militare, per quale ragione la nostra “economia di guerra” dovrebbe essere migliore di quella russa?
Cosa succederebbe, quindi, se la guerra in Ucraina finisse domani? La risposta, ovviamente, dipenderebbe dall’esito della contesa. Una sconfitta militare di Putin, oggi non sul tavolo, in virtù della dinamica che da tre anni contraddistingue la guerra, segnerebbe sicuramente lo scenario peggiore per Mosca, con un’economia che risentirebbe della chiusura del conflitto e che dovrebbe fare i conti con una serie di questioni sociali legate all’interruzione della spesa pubblica devoluta alle risorse umane e tecniche, con ripercussione sui consumi e sulla produzione. D’altro canto, quali sono le probabilità che ciò accada? Un coinvolgimento diretto dei Paesi dell’Europa occidentale nel conflitto potrebbe cristallizzare le posizioni ulteriormente, non considerando il ritardo accumulato dall’industria bellica europea, fino ad oggi marginale nel conflitto, e l’eventualità che questo possa allargarsi ad altre potenze vicine a Mosca. E se Putin dovesse vincere? In questo caso le condizioni le detterebbe il Cremlino, che potrebbe porre le sue condizioni su un trattato che vedrebbe la Russia in pole position nella spartizione degli investimenti per la ricostruzione del Donbass, o comunque dei territori controllati dall’esercito russo, direttamente o indirettamente, al termine del conflitto (oggi pari a circa il 20% del territorio ucraino pre-2014). Un duro colpo per l’Italia, che già da due anni si troverebbe assegnataria di questo succulento bottino nello scenario sopra prospettato. In tal caso l’economia russa potrebbe beneficiare della pianificazione degli investimenti di questo ipotetico “New deal” putinista, costituendo una garanzia sul lungo periodo della stabilizzazione del tessuto industriale e produttivo della Russia. A parziale rettifica di ciò, calandosi in una rigida realtà, non è detto che ciò sia concretamente e pienamente realizzabile. Nel 2014 la Russia ha finalizzato l’annessione della Crimea come azione prioritaria di tutela del posizionamento strategico della marina militare nel Mar Nero, mentre il Donbass ha subito una balcanizzazione volta alla cristallizzazione dello scenario che vediamo tuttora. All’epoca Putin avrebbe sicuramente voluto forzare la situazione sulla falsariga della Crimea, ma le capacità economiche della Russia hanno frenato tali mire espansionistiche. Non è detto, quindi, che ciò sia possibile a più di dieci anni di distanza.
L’economia russa è nei fatti meno robusta di quello che potrebbe e dovrebbe essere, essendo un Paese che ha un PIL pressappoco equivalente a quello italiano, potendo contare sul triplo dei cittadini, su un territorio quasi cinquanta volte più esteso e su un’infinità di risorse naturali in più, eppure stenta a farsi strada. Dal 1991 ad oggi, ci ha abituato a delle finestre di ciclicità incredibilmente volatili, passando da crisi profonde a boom di crescita notevoli, così come fanno la sua politica monetaria e il tasso di cambio della divisa nazionale. Non contando su parametri di stabilità rigidi ed ingessati come quelli europei, l’oscillazione tra espansione e recessione è assai più ampia di quella cui noi europei ci siamo abituati. Inoltre, la Russia conta su un livello di indebitamento che oggi corrisponde a circa il 19% del debito pubblico, a fronte di una media europea che si attesta all’88,1%. Nella dimensione dell’isolazionismo cui l’Occidente ha costretto la Russia, escludendo le sue aziende, le sue banche ed i suoi cittadini dai circuiti della finanza internazionale, i BRICS continuano ad aggiungere mattoncini, con sempre più potenze emergenti che si affiliano a quella che nel 2050 sarà la prima organizzazione economica al mondo (secondo Goldman Sachs). Viene quindi da chiedersi: chi è che sta isolando chi?