Pensare la pace, in un Continente in cui l’arte della diplomazia è spesso svilita a megafono della propaganda di guerra, non è un esercizio astratto o velleitario, se non per coloro che pensano alla Pace assoluta, ovvero il riflesso di chi concepisce la guerra come totale. La pace, piuttosto che essere un valore morale superiore, o una condizione ideale, è sempre legata a situazioni concrete, e umane. Si interseca con le file lucide delle armate in marcia, gorgheggia nelle trincee scosse dai bombardamenti, purpurea s’innalza sul sangue dei morti. La pace, per noi europei, non può essere se non in Donbass e vicinato. Oltre a quell’orizzonte spaziale e culturale diventa solo un manganello ideologico di chi, stupendosi della lunghezza della guerra, attende sulla riva del fiume i termini di una resa che da nessuna parte, mai, avverrà. Non ci sarà resa, non ci sarà sconfitta da nessuna parte, perlomeno totale. E a nulla valgono le speranze di offensive e controffensive o gli appelli, le condizioni, gli incubi sull’integrità territoriale ucraina.
È ben misero un pensiero così attaccato disperatamente alla formalità, in un contesto che non ha più nulla che può essere ricondotto ad una situazione “normale”. La norma positiva da ristabilire è l’unica ossessione delle cancellerie occidentali, o europee perlomeno, giacché trovando in essa il residuo della propria morale (universale), trovano anche la loro sfilacciata legittimità. In questa chiave il divieto d’aggressione, l’integrità territoriale, l’inviolabilità dei confini sono i principi universali di quella situazione universale che si pensa sia la pace. Condizione illusoria che si credeva, e si crede ancora oggi, di poter raggiungere semplicemente bandendo le guerre d’aggressione interstatali da una parte e dall’altra limitarle ad azioni di autodifesa o polizia (che in quanto tali definiscono già l’esistenza di un potenziale violatore della norma). Tutta la struttura del diritto internazionale semmai, invece di garantire la pace universale, tradisce l’ostilità, e ne segna la fine, della forma statuale classica, dunque europea. Spalancando dal lato opposto la porta a nuove definizioni di “nemico” e “guerra”, e nella guerra stessa ad attori non statali e a forme di conflitti ibridi.
Pensare la pace tra Russia e Ucraina assume dunque i contorni di una vera e propria Apocalisse, lo spalancamento di un abisso che va ben oltre un generico “ritorno della guerra”. La pace in Donbass, come prospettiva, potrebbe apparire per i nostri decisori paradossalmente ben più pericolosa di una situazione di guerra d’attrito o armistizio. Poiché, al di là della sua coltre universalistica, vorrebbe dire riconoscere implicitamente all’altra parte uno spirito, una umanità e legittimità o, clausewitzianamente, una volontà di cui il semplice “aggressore” e violatore della pace è sprovvisto. E verso cui dunque è normalmente lecita ogni opzione per reprimere il “crimine di aggressione” e ripristinare lo status quo ante. L’altro, essendo al di fuori del diritto, semplicemente non esiste. L’assenza russa al vertice di Gedda in questo senso è emblematica, pur nei primi spiragli che si iniziano a vedere: se da un lato si giunge, come numerose volte fatto in questi mesi, ad un consenso attorno all’integrità territoriale ucraina dall’altro manca la premessa reale perchè questa situazione possa avvenire, ovvero la volontà russa. E così si rimane confinati in comode dichiarazioni di principi (molto poco vincolanti) che non hanno più alcun collegamento con la loro stessa contingenza, congelando, non riconoscendo o semplicemente ignorando qualsiasi avvenimento che si discosti dalla norma. Come sia possibile proclamare l’integrità territoriale di un Paese sprovvisto di un potere centrale (come la Somalia), o sotto occupazione decennale (la Palestina), o addirittura in guerra è in effetti un mistero di questo ventunesimo secolo. Si va ben più in là di una semplice finzione giuridica, ma è a tutti gli effetti un progressivo scollamento dal tessuto storico.
Ogni fatto politico concreto, produttore di effettività, viene proiettato in una dimensione universale in cui perde inevitabilmente la sua storicità, il suo essere localizzato in ultima istanza in uno spazio e in un tempo precisi. Si perde la nozione stessa di effettività, e la sua origine violenta, dunque profondamente politica. Sostituendo ad essa un origine pattizia e normativa, figlia dell’antropologia positiva del liberalismo.
In effetti non sembra neanche che la guerra si stia svolgendo in Europa, ma si tratti solo di problemi di natura generale e astratta. A questo proposito neanche l’ipotetica pace sembra localizzabile in uno spazio europeo, visto il coinvolgimento di potenze e Stati “terzi” estranei da suddetto spazio come India, Cina, Brasile, Arabia Saudita. Se infatti la pace e la guerra sono situazioni universali non si vede perché non debbano coinvolgere la globalità del mondo.
Per questo motivo sembra che la portata reale della guerra russo-ucraina sia completamente ignorata in Europa. Innanzitutto perché non si ha alcuna minima contezza di cosa sia l’Europa, se non come sinonimo dell’Unione, e come facente parte del più ampio Occidente. La narrazione in ogni caso rappresenta l’Occidente contro la Russia, ma Occidente, o meglio emisfero occidentale, è un termine modellato dagli americani fin dalla dottrina Monroe. Se al tempo di Monroe il termine poteva pur avere qualche connessione, perlomeno spaziale in quanto limitato al continente americano, con il suo allargamento (e aggiornamento con la dottrina Stimson) agli Oceani e poi all’Europa ha perso qualsiasi connessione con lo spazio, e dunque con la sua storia. Occidente non è una realtà storico-politica, ma un concetto che affonda le sue radici negli ideali americani e nell’America pre-statale. Il punto di vista europeo nei confronti della guerra dunque non è europeo, incentrato nel Continente Europeo, ma piuttosto è un punto di vista occidentale, per cui risalta lo scontro tra democrazie e autoritarismi e i principi del diritto internazionale. È dunque sempre proteso all’universalismo, nella latente convinzione che la sua linea di isolamento morale e giuridica possa sempre espandersi. Paradigmatico a questo proposito l’intento futuro di allargamento dell’Unione all’Ucraina, un Paese che fino a prova contraria è storicamente e culturalmente estraneo all’Europa, come d’altronde lo sono la Georgia, la Moldavia ecc… Tutti i termini di un idea politica europea vengono ridotti così al liberalismo economico e al costituzionalismo democratico senza alcun riguardo per le premesse storiche, come se il libero mercato, la democrazia e i diritti umani agissero e si instaurassero in modo universalmente valido sopra spazi vuoti. In questo senso l’Unione Europea non ha nulla di europeo e tutto di occidentale.
È naturale dunque che la guerra in Ucraina sia vista solo come una anomalia e che anche le questioni più pressanti e importanti per il futuro, quali le relazioni future con la Russia (il nemico di oggi è il cliente di domani e l’alleato del futuro affermava Liddel Hart, a maggior ragione in un mondo interconnesso) e la ridefinizione di un sistema di sicurezza europeo siano completamente accantonate in uno sforzo a favore degli ucraini che non sembra avere alcun limite ragionevole di tempo.
Ogni prospettiva sul post-guerra è azzerata attendendo il momento propizio di una riconquista di tutti i territori ucraini o di una resa senza condizioni russa. Lasciando da parte ogni considerazione strettamente geopolitica si deve ancora sottolineare l’ossessione formalistico-normativista che contro ogni ragione, dal punto di vista (se esistesse) europeo, prolunga le attività belliche oltre ogni misura. L’obbiettivo ultimo di una guerra è arrivare alla pace o punire l’aggressore? Per il diritto internazionale le due cose coincidono: solo punendo il violatore morale della pace può essere ripristinata quella condizione morale universale che si intende come pace. Si nota dunque la connessione stretta che sussiste tra diritto e concetti morali. Connessione che è però estraniata da un contesto spaziale definito, e dunque incapace di generare qualsiasi decisione politica produttiva di effetti. Anzi, l’intento è proprio quello di mascherare il politico, e la sua essenza “negativa” e particolare, evitando di indicare chiaramente amico-nemico, o guerra-pace, richiamandosi invece all’“umanità” e a principi morali universali. Negando la propria essenza politica, innalzandosi ad un livello superiore, di rimando si squalifica così totalmente l’avversario.
Come però abbiamo già accennato, aggressore e aggredito in guerra (che è sempre uno stato strettamente legato ad un luogo e a uno spirito) non possono essere due posizioni morali assolute per lo stesso motivo per cui attacco e difesa in guerra non sono mai due stati fissi, ma in continuo ribaltamento. Affermando il contrario si presuppone che a prescindere il primo attaccante sia sprovvisto di volontà e dunque, sul piano bellico, che la guerra sia sostanzialmente unidirezionale: l’unico obbiettivo legittimo è la riconquista integrale di ogni territorio, il ristabilimento pieno e assoluto della norma internazionale. Ignorando dall’altra parte, poiché considerata priva di volontà, ogni tipo di richiesta, motivazioni, paure e obbiettivi, e se sussistano le condizioni storiche, militari e politiche reali per un integrale ristabilimento della norma violata (cosa che nella realtà politico-militare può essere fatto solo annichilendo completamente il nemico).
In ultima battuta si arriva così ad ignorare la stessa realtà sul campo, nella quale i rispettivi eserciti sono fermi ormai da mesi sulle stesse posizioni. Si dovrebbe infatti ammettere realisticamente che quella fantomatica parità strategica che servirebbe per negoziare una pace su un piano di parità sia stata raggiunta (e lo era stata anche qualche mese fa), grazie al supporto dell’Occidente. Aspettare ad oltranza un momento propizio con ferrea sicumera è in questo senso molto pericoloso: se invero nel chiaro mondo del diritto la morale sta tutta interamente da una parte (e dunque l’unica iniziativa bellica giusta) in guerra la realtà è molto più ambigua e indefinita, senza contare che non esiste alcuna certezza sul fatto che possano riaccadere altri momenti propizi. Si possono dunque comprendere meglio le parole di Liddel Hart quando scriveva: Se vi concetrate esclusivamente sulla vittoria, senza pensare ai suoi effetti ritardati, potreste ritrovarvi troppo esausti per approfittare della pace, e quasi certamente si tratterà di una pace cattiva, che contiene i germi di un altra guerra.
Riannodando il discorso hanno ragione in effetti i nostri decisori a temere, guardando all’Ucraina, per la stabilità dell’ordinamento internazionale: ogni guerra ha sempre portata universale, e questo solo perché in quanto guerra viola l’ordine internazionale. Si converrà che non è molto stabile un sistema così privo di flessibilità, così assoluto e incapace, poiché privo di una dimensione spaziale chiara e di un contenuto politico esplicito, di rendersi decisivo nei momenti d’eccezione, non potendo evitarli o risolverli ma limitandosi a condannarli e non riconoscerli. Ogni guerra, anche la più localizzata, non può che assumere in questo orizzonte la proporzione di una crisi globale. Crisi che, ci permettiamo di affermare, diventa irreversibile qualora a condurre una guerra d’aggressione sia una potenza fondatrice, o intesa come tale, di suddetto sistema. In questa chiave la pace è definitivamente più mortale per il diritto di quegli eterni armistizi che popolano il mondo, in quanto ogni ridisegno di qualsiasi confine che non sia stato stabilito entro quelle rigide casisistiche che il diritto internazionale prevede (cessione, accessione ecc…) è per sua natura al di fuori dell’ordinamento. Concludere una pace con la Russia per cui si riconosca ad essa l’acquisizione di alcuni territori sarebbe per la struttura del diritto internazionale una catastrofe. E lo sarebbe a ben vedere anche se il passaggio dei territori ucraini a quelli russi avvenisse sotto forma di cessione, e dunque rientrante nelle casisistiche del diritto, poichè alla base della cessione persiste comunque un “crimine d’aggressione”. Tutto l’impianto teorico del diritto internazionale verrebbe meno, insieme alla sua credibilità e alla sua (poca) efficacia. Lo status quo, o un suo mantenimento fittizio tramite l’arma del riconoscimento internazionale, è l’unica via. Uno status quo perlopiù casuale, frutto di un determinato periodo storico ormai mutato, trincerato in norme che ormai resistono solo sulle (nostre) cartine politiche.
Dunque pensare la pace è molto più che un esercizio intellettuale, ma una visione febbrile, una forma di vaticinio dalle dimensioni apocalittiche poiché, stando così le cose, non può esserci pace, ma indefinibili armistizi e tregue armate. Pensare la pace è già, in quanto tale, spingersi oltre il diritto. Per tornare ad una dimensione realmente politica.
A questo punto ci si può solo chiedere, da europei, quanto convenga soprassedere e alimentare un simile stato (che sembra avviarsi in un prossimo futuro sempre più ad una serie ingarbugliata di azioni d’autodifesa illimitate e armistizi “coreani”) ma ciò vorrebbe dire, per noi, rimettere in discussione tutto il concetto di Occidente e di conseguenza la nostra visione del mondo, il nostro stesso spirito (se ne abbiamo ancora uno). Ma una riflessione in questo senso deve essere fatta, è essenziale che lo sia, cosicchè in futuro non sia solo il rumore delle armi a cullare le notti agitate del Continente.