Quando si affronta la questione del genocidio armeno, possiamo senz’altro riconoscere che ormai esiste in Italia una conoscenza abbastanza diffusa di questa enorme tragedia. Tutte le amministrazioni comunali delle nostre città più grandi, e un gran numero di quelle minori e di Paesi, anche piccoli, anche isolati, hanno votato (in genere all’unanimità!) risoluzioni che dichiarano che il genocidio degli armeni è realmente avvenuto, e chiedono alla Repubblica di Turchia di riconoscerlo. Nei libri di testo c’è sempre almeno qualche accenno, e nelle scuole un po’ se ne parla. Ma il governo turco continua nella sua inflessibile politica di negazionismo: e le menzogne, come saggiamente insegnava Goebbels, se abbastanza ripetute rischiano di essere credute…
L’Italia – a parte la Francia – è l’unica nazione il cui Parlamento lo ha addirittura riconosciuto due volte all’unanimità, nel 2001 e nel 2019 (solo nel 2001 ci fu un’astensione, di un deputato che trovava il testo proposto troppo morbido con la Turchia!). E tuttavia non si deve dimenticare che il nostro è anche un Paese in cui la consistenza numerica dei cittadini di origine armena è estremamente esigua, non più di qualche migliaio di persone: e questo perché molti dei sopravvissuti – sia adulti che bambini orfani – che si rifugiarono o vennero portati in Italia dopo la fine della prima guerra mondiale, poi si trasferirono in Francia, dove – come è noto – già esistevano all’epoca fiorenti comunità diasporiche, sia a Parigi che altrove.
Questa consapevolezza, questa solidarietà con il popolo armeno, è stata accresciuta in questi ultimi anni dalla notevole crescita (dati pre-Covid) dei viaggi in Armenia per turismo di cittadini italiani: il Paese è incantevole, esotico e bellissimo, con le sue alte montagne, il vasto e misterioso lago Sevan, le famose ‘chiese di cristallo’; e la gente ha il culto dell’ospitalità e un’antica tradizione di amicizia per il nostro Paese, risalente all’epoca dell’indipendenza italiana, che i giovani patrioti armeni ammiravano di gran cuore. Ne scrivevano spesso, additavano a modello gli eroi del nostro Risorgimento, leggevano la nostra letteratura: Dante aveva molti cultori appassionati; il Cuore di De Amicis fu letto quasi da subito, tradotto integralmente a breve distanza dalla sua pubblicazione in Italia, e perfino i suoi personaggi venivano citati correntemente.
Purtroppo però la simpatia per l’Armenia è spesso venata di vaghezza; gli eventi che hanno portato alle attuali difficoltà del Paese, che si trova di fronte a una terribile sfida esistenziale, sono poco conosciuti e non facili da spiegare. L’intricata realtà del Caucaso, nella sua secolare compresenza di tante etnie rivali fra loro, è dura da capire prima ancora che da spiegare, come appare ahimè evidente nell’inconsistenza e pressapochismo di tanti superficiali articoli di giornale o trasmissioni televisive.
Come scrive Aldo Ferrari nel suo esauriente piccolo libro (Breve storia del Caucaso, 2007), il Caucaso è ‘uno dei più problematici laboratori di culture nel nostro Mediterraneo’: un mosaico di etnie diverse per lingua, religione, costumi, molto bellicose e in perpetua rivalità e lotta, secolo dopo secolo. Fu sottomesso alla fine per intero alla Russia zarista nel 1864, e questa è stata – paradossalmente – la grande ‘fortuna’ degli armeni: il fatto cioè che da millenni una parte di loro si fosse stanziata su quelle montagne, intorno al centro della loro fede cristiana, Etchmiadzin, e al lago Sevan, e quindi fossero sudditi dello zar, e non del sultano.
Mentre infatti nell’impero Ottomano si scatenava il genocidio, gli armeni del Caucaso, che vivevano ‘quasi’ indisturbati sotto la protezione zarista, accolsero decine di migliaia di scampati al terrore. Altri se ne aggiunsero negli anni successivi e nel programma di ‘ritorno a casa’ dell’immediato secondo dopoguerra: e l’Armenia come nazione esiste oggi solo perché – dopo l’effimera Repubblica indipendente del 1918-21 – è esistita un’entità territoriale chiamata Armenia come Repubblica sovietica, diventata poi Stato indipendente dal 1991.
Ma i semi avvelenati della complessa situazione attuale risalgono proprio agli anni tumultuosi che seguirono la fine della prima guerra mondiale. Fu Stalin, plenipotenziario di Lenin, che stabilì i confini delle tre repubbliche transcaucasiche, Georgia, Armenia e Azerbaijan: e assegnò agli azeri due territori abitati in maggioranza da armeni, il Nakichevan a est e il Nagorno-Karabakh (che gli abitanti chiamano Artsakh) a ovest della zona attribuita all’Armenia. Tuttavia, decise che avessero entrambi lo statuto di oblast (regione autonoma), con un proprio soviet autonomo, che usava l’armeno come lingua ufficiale. Ci furono scontri e massacri, e tuttavia fino alla caduta dell’URSS gli armeni del Karabakh riuscirono a coesistere con i non armeni, nonostante il rancore reciproco che divideva i due popoli; ma con il suo indebolimento essi rividero lo spettro dei pogrom del XX secolo. Per loro combattere divenne una questione di sopravvivenza, come ricorda Sohrab Ahmari in un magistrale articolo del 22 dicembre scorso (Amenia’s Race for Survival, in ‘Compact Magazine’).
Infatti l’altra ‘regione autonoma’, il Nakichevan, era stato nel frattempo completamente de-armenizzata. Data la loro precaria situazione, gli abitanti erano fuggiti e ogni traccia della loro presenza in loco era stata cancellata: chiese di grande importanza storica e artistica, monumenti, antichi cimiteri, scientificamente distrutti; terre espropriate, case e villaggi occupati. In fotografie scattate in anni successivi si vedono chiaramente i progressi nella distruzione, fino all’accurata escavazione perfino delle fondamenta delle chiese, onde non rimanesse traccia dell’esistenza degli edifici abbattuti neppure nelle fotografie aeree. Su questo immenso disastro è in preparazione un libro di impressionante documentazione; ma già nel 2006 la European Commission against Racism and Intolerance definiva gli armeni come‘il gruppo più vulnerabile in Azerbaijan nel campo del razzismo e della discriminazione razziale’.
È fondamentale citare anche il ‘caso Akram Aylisli’. Questo scrittore ottantacinquenne, uno dei più noti e celebrati autori azeri, ha scritto il breve romanzo Sogni di pietra (2013; pubblicato in Italia da Guerini, con la prefazione di Gian Antonio Stella): una piccola storia incantevole di fratellanza e di pace, in cui un vecchio attore azero finisce in ospedale per aver difeso un armeno dal linciaggio, e nel delirio ricorda la pacifica convivenza nel villaggio natio in Nakhicevan. Aylisli è diventato un reietto: dichiarato apostata, espulso dall’Unione degli scrittori azeri e privato della pensione, è confinato in casa e gli è stato impedito di lasciare il paese…
In Karabakh invece, dove la popolazione armena era molto più numerosa, scoppiò una guerra per l’indipendenza nel 1991-94, che si concluse con la sconfitta azera e la nascita di una piccola nazione autonoma, ma non riconosciuta, l’Artsakh: fu un’indipendenza vissuta con slancio e passione ma con una certa ingenuità, che finì per sottovalutare il riarmo azero e il riavvicinamento dell’Azerbaijan con i cugini turchi, fino all’inaspettata ripresa del conflitto con la ‘guerra dei 44 giorni’ nel settembre 2020. Droni e missili Bayraktar forniti da Erdogan, usati senza risparmio, hanno condotto alla sconfitta armena e al ‘cessate il fuoco’ sotto la supervisione di una forza di interposizione di militari russi: sicché appare chiaro come l’attuale terribile guerra in Ucraina venga a intersecarsi con la situazione già precaria di quella piccola, remota regione.
Nel luglio scorso furono attaccati con bombardamenti diversi villaggi di confine e anche la celebre stazione termale di Jermuk, nel territorio stesso dell’Armenia, con parecchi morti e feriti. È una perversa partita del gatto col topo, il cui scopo è di accrescere l’ansia e l’angoscia di questi poveri e ostinati montanari, attaccati come ostriche allo scoglio alla loro terra natia, dove sono ritornati dopo la guerra. Si cerca insomma di farli diventare miserandi profughi, come gli sventurati sopravvissuti al genocidio del 1915-1922, che non a caso in Turchia vennero chiamati ‘i resti della spada’.
Ma in quest’ultimo mese la parte azera ha messo in atto una nuova strategia. Dal 12 dicembre scorso è bloccata la circolazione nel corridoio di Lachin, l’unica strada che attualmente congiunge l’Artsakh e i suoi 120.000 abitanti con l’Armenia. Da là passano ogni giorno le decine di camion dei rifornimenti per la popolazione dei montanari dell’Artsakh, ma un gruppo di sedicenti ambientalisti ha interrotto la circolazione di ogni mezzo, perfino delle ambulanze. Nel severo inverno caucasico, manca il petrolio, la luce è erogata solo per poche ore. Mancano del tutto frutta e verdura, scarseggiano lo zucchero e moltissime altre cose di uso quotidiano; la farina e i generi di prima necessità sono razionati.
Ogni attività si sta fermando. Ospedali e scuole sono chiusi. I 612 studenti del complesso educativo italo-armeno (Hamalir Antonia Arslan), istituito dalla CINF, fondazione italo-americana attiva da qualche anno, che vanno dai 4 ai 27 anni, sono costretti a casa, al freddo. Così hanno passato Natale, Capodanno, Epifania; così sono trascorsi ormai quasi 50 giorni. E il mondo occidentale balbetta – e si volta dall’altra parte.