Un crogiuolo di popoli, culture, lingue, religioni, una polveriera geopolitica dovuta a motivazioni religiose, etniche, storiche, economico-energetiche. La Georgia rivendica tuttora la sovranità sull’Abcasia e l’Ossezia del Sud, d’altro canto, nonostante l’attore geopolitico principale dell’area sia ovviamente la Russia, sembra naturale che la Turchia miri a espandere la propria sfera d’influenza. A ciò si aggiunge l’importanza geopolitica rivestita dal Mar Nero e dal Caspio. Darginzy, kumyki, lakzy, lezginy, taty, tabasarany, anvary, avarcy, aguly, nogajcy, cachury, rutul’cy, cezy sono alcune delle nazionalità più diffuse del Daghestan alle quali corrispondo altrettante lingue propriamente riconosciute come tali e una miriade di vernacoli. Si stima che in totale le nazionalità stabilmente presenti in Daghestan siano circa 40, 36 per la precisione. Questa cifra non è unanimemente condivisa ed è lontana dall’essere definitiva. Infatti varia continuamente a seconda delle ricerche linguistico-antropologiche svolte e del criterio di nazionalità utilizzato.
Fra questi popoli sono pochi quelli che parlano una lingua “ufficiale” e “unitaria” che non sia il russo. Nelle scuole buona parte dell’insegnamento è espletato in lingua russa, mentre alle varie lingue locali sono dedicate non più di due ore a settimana. Ciò che viene insegnato nelle scuole è in realtà la versione più letteraria del vernacolo più diffuso (nel rajon di riferimento) che in questo caso viene considerato come un vero e proprio idioma e che nella realtà dei fatti non è parlato dalla popolazione locale. Per provare a comprendere questo complesso contesto etnico-linguistico è possibile azzardare un ipotetico parallelo con la situazione italiana: è come se in tutte le scuole di Napoli tre quarti dell’insegnamento venissero espletati in italiano, mentre due ore fossero dedicate al napoletano letterario di Salvatore di Giacomo e Ferdinando Russo inteso non come vernacolo, ma come idioma. Il dialetto parlato è in realtà molto lontano dalla sua versione poetica liricizzata e in Campania il napoletano non è il solo dialetto presente: basti pensare al casertano, salernitano etc.
Il parallelo è in realtà molto approssimativo e a tratti inesatto. La situazione culturale-linguistica del Daghestan è complicata dal fatto che ogni dialetto ha moltissime varianti (è come se gli abitanti di un rione di Napoli faticassero a capire quelli di un altro) e in ogni città o villaggio risiedono stabilmente diverse nazionalità (con altrettanti vernacoli e varianti più o meno letterarie). La situazione è quindi la seguente: mentre nelle scuole vengono insegnate le versioni poeticizzate della variante (o delle varianti) maggiormente diffusa del principale vernacolo dell’area, nelle città o nel rajon preso in considerazione sono parlati una moltitudine di dialetti che si trasmettono da secoli sostanzialmente per via orale. Il fatto che in un paese non molto esteso come il Daghestan la difficoltà nella comprensione reciproca da parte di autoctoni appartenenti ad etnie diverse sia così alta può essere spiegata dalla complessità delle lingue o dei dialetti presi in esame. Essi sono caratterizzati da un numero di almeno 30 declinazioni in su: la linguatabasarana consta di 46 declinazioni, mentre il la lingua lachi (solo) di 32.
La complessità entico-linguistica appena descritta può essere considerata una metafora per la comprensione delle realtà etnico-culturali dell’intero Caucaso. Nonostante siano presenti popoli etnicamente e linguisticamente più uniti e omogenei come i ceceni e gli ingusci, il numero di nazionalità presenti, le differenze non solo linguistiche, ma anche e soprattutto culturali (che non si riducono assolutamente all’appartenenza alla fede sunnita) confermano la validità del paragone con la fattispecie daghestana. In questo contesto culturale la religione musulmana sunnita e la lingua russa svolgono un ruolo unificatore fondamentale. La maggior parte dei popoli considerati finora sono infatti musulmani sunniti (nonostante il confinante Azerbaigian sciita) e per comprendersi reciprocamente parlano il russo.
È interessante notare come la lingua russa non determini una coesione culturale esclusivamente nel Caucaso, ma anche nell’Asia Centrale e, punto geopolitico molto importante, fra tutti i popoli queste due regioni. La lingua russa lega sostanzialmente tutti i sunniti del Caucaso e dell’Asia Centrale. Inoltre, a differenza di altre ex-repubbliche sovietiche che non sono entrate a far parte della Federazione Russa in cui è presente un sentimento antirusso non indifferente come, per esempio, l’Armenia e soprattutto la Georgia, in Azerbaigian (che è maggiormente sciita) il russo è tuttora parlato attivamente anche dalle generazioni più giovani (il flusso migratorio (legale) verso la Russia è infatti molto consistentee non riducibile alle cosiddette generazioni sovietiche). Il russo unisce fra di loro non solo popoli di fede musulmana, ma anche popoli cristiani (si pensi agli osseti). Questa coesione culturale-linguistica è ormai pacificatamene accettata da tutti. Ciò che ancora divide sono le tradizioni, la fede e l’etnia (repetita iuvant: è un grave errore ridurre alla seconda categoria la prima e la terza).
A fronte di queste osservazioni affermazioni come “la Turchia mira ad espanderela propria sfera d’influenza nel Caucaso” assumono un senso profondamente diverso. La coltre ideologica della strategia geopolitica turca non è il neottomanesimo, bensì il panturchismo. Nel caso dell’Asia Centrale la presa ideologica panturca si concretizza nel ruolo esercitato dalla Turchia nel Consiglio di cooperazione dei paesi turcofoni. Il tentativo turco di espandere la propria sfera d’influenza nel Caucaso, non solo in direzione dell’Asia Centrale ma anche verso nord, è stato evidente con la presa di posizione nel conflitto del Nagorno-Karabakh dell’anno appena trascorso. In questo caso la strategia da adottare richiederebbe da parte turca un’analisi più complessa. Infatti, la Turchia non potrebbe legittimare la propria influenza in base all’appartenenza etnico-linguistica turcica. L’unica strada percorribile, anche per non opporsi eccessivamente nei confronti della Russia, sembra essere quella della religione. Anche in questo caso le cose si farebbero però molto complicate. Il Caucaso è un’arma a doppio taglio, insinuarsi in un contesto del genere implica la presa di coscienza e l’accettazione di rischi altissimi dovuti soprattutto allalabilità delle basi sociali necessarie alla legittimazione ideologico-culturale diqualsiasi tentativo di espansione della propria sfera d’influenza.
Creare una “nuova” vicinanza o addirittura una comunanza socioculturale in un contesto del genere è difficilissimo. Si pensi a questo proposito alle famosissime pagine de I Cosacchi di Tolstoj dedicate ai rapporti fra le popolazioni autoctone caucasiche e l’impero russo e, in tempi più recenti, ai due conflitti ceceni: il primo fortemente etnico-nazionalistico, mentre il secondo di carattere profondamente religioso. Anche nel caso di un paese linguisticamente ed etnicamente più omogeno e unitario come la Cecenia (anche qui non mancano le differenze e i dialetti, ma la situazione non è assolutamente paragonabile a quella daghestana), il ruolo giocato dalla complessità etnico-culturale tipica del Caucaso è fondamentale: ne sono prova la proclamazione della Repubblica Cecena dell’Ičkeria successiva alla cosiddetta rivoluzione cecena del 1991 da parte degli ičkerijcy che, insieme ai ceceni-akkinzy, un sottogruppo etnico ceceno presente in Daghestan, hanno contribuito all’invasione del Daghestan, sancendo così l’inizio della seconda guerra cecena, che è stata anche una tremenda guerra civile.