OGGETTO: Il fiato del nemico
DATA: 17 Ottobre 2020
SEZIONE: inEvidenza
Il Nagorno-Karabakh, enclave armena in territorio azero, è ritornato ad essere il centro della disputa fra Armenia e Azerbaijan.
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Nella cattedrale di Ghazanchetsots, a Shushi, nel Nagorno-Karabakh (Artsakh per gli armeni), alcuni volontari di guerra accendono le candele votive come da tradizione, cercando di concentrare nel gesto tutta la speranza che possono generare. Alle loro spalle, però, sotto l’altare, c’è già chi, la speranza, l’ha perduta: alcune donne piangono figli e nipoti sotto ai piedi del Cristo. Una settimana dopo, un missile sparato da uno Smerch sfonda una cupola sparpagliando i quadri dei santi e disseminando i calcinacci sulle panche e sulle pareti del luogo sacro, ricoprendo tutto di un bianco che, paradossalmente, adesso ricorda un paradiso scomposto. La cattedrale di Ghazanchetsots è il centro spirituale più importante del Nagorno, e l’offensiva arrecata accende le polemiche nei media e sui social: “stanno bombardando i nostri valori spirituali quando noi restauriamo e preserviamo le moschee” ha detto Pargev Martirosyan, Primate della diocesi di Artsakh. Ma l’obiettivo dell’Azerbaijan di questi giorni sembra essere lo sgombramento dell’area, e per raggiungerlo, ogni elemento riconducibile alla presenza armena nel Nagorno è un bersaglio che non possono farsi sfuggire. Già da 20 giorni il Nagorno-Karabakh è posto sotto pesanti bombardamenti che hanno flagellato ininterrottamente le città del fronte fra cui Martakert e Martuni, e adesso si concentrano su Hadrut, Shushi e Stepanakert la capitale fantasma di un territorio internazionalmente mai riconosciuto e posto sotto l’impegno militare dell’Armenia dal ‘94, quando la prima guerra si concluse con l’incorporamento (protezione) del territorio. 

Volontari armeni accendono le candele votive nella cattedrale di Ghazanchetsots, a Shushi

Oggi il Nagorno-Karabakh, enclave armena in territorio azero, è ritornato ad essere il centro della disputa fra Armenia e Azerbaijan. Però, a farne le spese, come si sa, sono soprattutto i civili. Gli abitanti di Martuni camminano sulle macerie delle proprie abitazioni, con tetto e pavimento che sono diventati un tutt’uno, trascinandosi una valigia impolverata. Altri si rifiutano di abbandonare il fronte e a cuore caldo si ostinano a restare: chi per vendicare a proprio modo la morte di una moglie, chi semplicemente per onore o amore per la propria terra. Eric, 81 anni, si guarda intorno tra i pezzi di lamiera e i mattoni. Ha perso una mano durante la guerra del ‘92 e la moglie pochi giorni fa sotto le macerie della sua casa. Suo figlio, invece, è morto sul fronte. Saluta e ritorna nel pezzo di casa che gli rimane. I missili Smerch e Polonez cadono giorno e notte, alcuni restano inesplosi nel terreno, altri restano infilzati nei balconi delle case a fianco ai fili del bucato. In giro per le città del Nagorno si incontrano i crateri delle esplosioni, riempiti di acqua perché le condutture vengono ferite. Vengono bombardate anche le scuole, le abitazioni civili, i centri abitati, le chiese. In particolar modo le offensive si concentrano su Hadrut, una cittadina di 4000 abitanti che potrebbe rivelarsi strategica per il raggiungimento delle città più importanti di Shushi e Stepanakert. 

Le giornate sono scandite dal suono della sirena antiaerea, che suona spesso, molto spesso, tanto da costringere gli abitanti della capitale a restare al riparo in bunkers e seminterrati dove, pian piano, hanno pianificato una vita alternativa. Due bambine lavorano l’argilla e disegnano barattoli di Nutella nell’attesa di rivedere il padre partito per il fronte, “mio marito è in prima linea, e noi non abbiamo intenzione di lasciare il rifugio prima che la guerra si sia conclusa”, dice la madre. Nei bunker si dorme su materassi di fortuna e non si vede mai la luce del giorno, si dorme male, e poco. Le scorte di vodka fungono da sonnifero, quando ci sono. Gli insegnanti volontari hanno improvvisato classi scolastiche illuminate dalle luci giallastre delle torce, immersi nella polvere che ottura il naso e irrita gli occhi, tra libri, quaderni, penne, armi, dove si legge Tumanyan. I bambini ascoltano ma altrettanto spesso piangono, soprattutto quando le esplosioni avvengono a pochi chilometri di distanza e allora si sentono, e scuotono il terreno che vibra sotto ai piedi e toglie la concentrazione e si ha ogni minuto l’impressione che il prossimo colpo arriverà dritto lì, sulla testa. Ed echeggiano le prime strofe di una poesia di Tumanyan che recita: “Ho visto così tanto dolore, così tante trame e stratagemmi…”.

Bambine in un rifugio a Shushi

Con loro ci sono i volontari armeni che hanno deciso di lasciare le comodità di Yerevan per occuparsi della protezione degli sfollati nel Nagorno, e si mostrano calmi, impassibili, forti, motivati fino al midollo, dannati dalla storia, pazienti per inerzia. Alcuni di loro si affacciano attraverso la porta di metallo quando il fuoco cessa. Osservano il cielo, guardano la strada e molto spesso intravedono un incendio che si propaga da un edificio civile. Allora si recano nei pressi delle fiamme e attendono l’ambulanza mentre prestano i primi soccorsi. Spesso la barella trascina via un morto che non ha fatto in tempo a scappare, coi capelli imbrattati di sangue. Altre volte si tratta di un anziano da recuperare e portare al sicuro sulle spalle. Tuttavia nei volti di questi uomini si vede l’abitudine, la tranquillità di chi sapeva in anticipo che tutto ciò si sarebbe prima o poi ripresentato. E specialmente i più anziani, che hanno vissuto entrambi i conflitti, sembrano i più saggi al riguardo, e cantano nei bunker le canzoni tradizionali inquadrati da una videocamera.

Da qualche giorno alcuni rifugi fungono da sala parto, segno che neppure gli ospedali sono più un posto sicuro, ed è vero, dal momento che l’Azerbaijan, il 14 Ottobre, ha iniziato a prendere di mira anche le cliniche. Il pianto dei neonati si mescola all’onda d’urto di un’esplosione. Gli azeri bombardano ostinatamente le centrali elettriche, i ponti, le condutture idrauliche nel tentativo di isolare il paese e rallentare i rifornimenti provenienti dall’Armenia. Ogni due per tre la luce elettrica va via, ci sono giornate in cui è impossibile accendere il bollitore per un tè. Dicono che dall’altra parte del fronte la Turchia (qui partner strategico dell’Azerbaijan) sta riciclando i jihadisti siriani, e la loro ferocia scende dal cielo sotto forma di razzi e attacchi di droni. Dall’asfalto spuntano le code dei missili inesplosi. Guardandoli, si sente sul collo il fiato del nemico. Durante la prima settimana di Ottobre i bombardamenti si sono intensificati, al punto che si è deciso di spostare l’ufficio stampa a Goris (la prima città fuori dal Nagorno) ed evacuare tutti i giornalisti. Questi spostamenti avvengono grazie al lavoro di volontari che fanno la spola fra il Nagorno e i principali centri della Repubblica d’Armenia. I taxi partono ogni giorno dalla stazione cercando di evitare i colpi di artiglieria a tutta velocità. Altri e tanti volontari civili mantengono attivi quei pochi ristoranti che, data l’architettura rinforzata, possono permettersi di restare aperti. Qui i pasti vengono serviti gratuitamente tutto il giorno.

Si stima che il 50% della popolazione abbia già abbandonato il territorio, cioè approssimativamente 75000 abitanti. Gli attacchi sono incessanti nonostante le ammonizioni del Gruppo di Minsk e gli accordi di tregua. E questo è preoccupante. La Turchia di Erdogan appare fortemente intenzionata a sostenere l’offensiva ad ogni costo, tutta concentrata a far valere le sue ragioni e sfoggiare l’indipendenza da Russia e Europa. Il suo obiettivo, stando ai pareri più comuni, sarebbe quello di consolidare l’influenza nel caucaso e liberare il Nagorno dai “separatisti armeni”. “Se non lasciano il Nagorno, moriranno”, scrive un musicista turco su Instagram, “se desiderano davvero la pace, se ne vadano”.

Ma cosa vuoi farci? A chi dare la colpa? A Stalin? Al destino? Al potere? Ai gasdotti che lastricano il caucaso meridionale? Qualunque sia la risposta, resta il fatto che la situazione nel Nagorno ad oggi è fra le più ingarbugliate, una feroce condanna che ogni tot di anni scuote la tranquillità dell’Armenia richiamando alle armi giovani e meno giovani, agiati e meno agiati. Uscendo dal Nagorno, che ironia della sorte è quasi sempre annuvolato per natura, il sole riappare in cielo e le colline sembrano quelle di un mondo normale. A Yerevan, sebbene la città non sia interessata direttamente dalle ostilità, la situazione però non è meno drammatica. Il COVID ha iniziato il lavoro, la guerra lo ha completato. La valuta è in decrescita. Si respira ovunque l’ansia per le sorti del conflitto. Ci si imbatte spesso in qualcuno preoccupato per un fratello o un parente stretto che è sulla linea del fuoco. Se nel Nagorno si combatte il nemico, qui si combattono l’insonnia e i tentacoli dell’inquietudine. Da quando il 27 Settembre un missile ha centrato Stepanakert uccidendo una donna e un bambino, la situazione nella capitale armena, normalmente graziosa e rilassata, si è irrimediabilmente capovolta. Fin da subito è stata attivata la legge marziale e avviata la mobilitazione generale. Tanti volontari sono subito partiti per il fronte da un parco nei pressi di Piazza della Repubblica, fra gli applausi e gli auguri. 

Immagini da Stepanakert

Adesso non è raro vedere per le strade, evidenziati dalla mascherina anti COVID, gli occhi lucidi e preoccupati delle donne che restano in città. Gli innumerevoli chioschi di fiori di cui la città è piena assumono un senso diverso. In ogni strada del centro c’è almeno un poster con fotografie dal fronte, in Piazza della Repubblica è stato allestito un mega schermo dove scorrono spezzoni del conflitto e notizie in tempo reale. “Questa è una guerra sleale”, spiega Ana con le lacrime agli occhi e un bicchiere di Karas, “l’Armenia di oggi è in svantaggio tecnologico rispetto alle potenze che fronteggia”. Ma la strada che collega Yerevan al Nagorno è ugualmente lastricata di autobus imbottiti di giovanissimi volontari con il cuore che brucia, pronti a sacrificarsi per la patria. Nei loro occhi si vede la determinazione, non il timore di combattere una guerra che potrebbe avere risvolti seriamente tragici. 

Anche se la propaganda tende a motivare il paese, è anche vero che nell’aria si percepisce lo scompenso militare. Il presidente Pashinyan mette in guardia accusando gli avversari di voler perseguire “una politica di continuazione del genocidio armeno e una politica di ripristino dell’impero turco”. Del resto, un rischio esiste. Questa è una guerra che l’Armenia combatte da sola, poiché date le premesse e il mancato riconoscimento del Nagorno-Karabakh, gli unici supporti possono arrivare solo sotto forma di proposte di negoziati e mediazioni che potrebbero non avere alcun effetto sul conflitto. Continuano dunque gli attacchi nonostante il cessate il fuoco concordato fra le due parti con la mediazione di Mosca. Le offensive hanno cessato soltanto durante le 3 ore che hanno seguito la chiusura dell’incontro. Poi sono ricominciate, più violente e inaspettate di prima.

La maggioranza degli armeni vede nel riconoscimento dell’Artsakh un modo per chiudere pacificamente il conflitto, e anche la politica interna si dimostra volenterosa nell’attuare questa soluzione che, però, non sembra interessare la controparte. Dall’altra lato, al contrario, sembra esserci una spinta decisiva, ostinata, che non bada a opinioni e, sotto l’ombra della Turchia di Erdogan preme sul fronte nel tentativo di sbarazzarsi quanto prima di tutto ciò che è vivo e si muove nel Nagorno per riconquistare o “liberare” il territorio. Staremo a vedere nei prossimi giorni se le potenze europee riusciranno ad agevolare una soluzione che sia definitiva. Per adesso si ripete la storia senza pace di un paese che, da oltre un secolo, non ha ancora trovato il tempo di adagiarsi senza il timore di dover ricominciare un’altra tragica storia. 

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